Genesi di Caparezza: dal passato di Mikimix a Museica
Michele Salvemini – in arte Caparezza – non è sempre stato l’iconico rapper dai capelli ricci che conosciamo oggi. La sua carriera comincia infatti con un’altra identità: Mikimix, giovane pugliese che alla fine degli anni ’90 tenta la strada del pop-rap melodico, arrivando perfino sul palco di Sanremo nel 1997. Quell’esperienza iniziale, caratterizzata da brani ingenui e radio friendly, fu però vissuta dall’artista quasi come un passo falso. Col tempo Michele ha riconosciuto che “per anni l’esperienza di Mikimix l’avevo vissuta come una vergogna, come un trauma…” – qualcosa di cui faticava persino a parlare. La scena hip hop italiana dell’epoca guardava con sospetto quel ragazzo che sembrava un “pagliaccio telecomandato” dal music business, lontano dallo stile “di strada” e militante che allora definiva il genere.
Eppure, proprio da quello strappo identitario nascerà Caparezza. Abbandonato lo pseudonimo Mikimix, Michele si ritira per qualche anno a Molfetta e rinasce artisticamente all’alba degli anni 2000 con un nome nuovo (in dialetto, “capelli ricci”) e un immaginario tutto suo. Già con i primi album ?! (2000) e Verità supposte (2003) definisce uno stile teatrale e letterario – rime fitte di giochi di parole, ironia graffiante e critica sociale – molto diverso dal rap gangsta in voga altrove. Canzoni come Il secondo secondo me o Fuori dal tunnel mescolano impegno e sarcasmo, conquistando il grande pubblico (tanto che Fuori dal tunnel venne scambiata per un inno da discoteca, nonostante l’intento satirico). Album dopo album, Caparezza costruisce un universo poetico originale, ricco di citazioni pop e riferimenti storici, in cui si afferma come “cantautore postmoderno” più che semplice rapper.
Il percorso ascendente culmina con Museica (2014), sesto album in studio e autentico concept album dedicato all’arte e alla creatività. In Museica ogni brano è ispirato a un’opera pittorica, come in una visita guidata in un museo immaginario. Quest’opera valse a Caparezza il riconoscimento della critica italiana: Museica vinse la Targa Tenco come Miglior Album dell’anno 2014, consacrandolo tra i grandi cantautori contemporanei. Forte di questo successo e della sua identità artistica ormai matura, Caparezza sembrava aver trovato un equilibrio stabile. Tuttavia, all’apice della popolarità, qualcosa iniziò a incrinarsi all’interno del suo mondo creativo, preludendo a una svolta radicale.

Prisoner 709: la svolta introspettiva tra prigionia mentale e dualismo identitario
Nel 2017 Caparezza pubblica Prisoner 709, un album che segna una svolta personale e musicale. Dopo anni trascorsi a “predicare” attraverso la critica sociale, sente l’urgenza di rivolgere lo sguardo all’interno: “quando ho capito che stavo attraversando un momento particolare… ho deciso di scrivere più di me, smettere con la predica. Volevo… passare ad analizzare il pulpito” confesserà in un’intervista. Il risultato è un concept album concepito come una seduta di autoanalisi in musica, il suo disco più intimo e sofferto fino a quel momento.
Il titolo stesso incarna il tema centrale: 9Esso allude a una “prigionia” interiore, quella dell’artista intrappolato nel proprio personaggio. Caparezza ha spiegato che il numero 709 rappresenta la crisi d’identità vissuta negli anni precedenti: 7 sono le lettere del suo nome di battesimo, Michele, e 9 quelle del nome d’arte, Caparezza. Il numero 0 in mezzo simboleggia la scelta costante fra i due e, al contempo, richiama la forma circolare di un disco. Sulla copertina campeggia infatti la scritta “Prisoner 7 o 9”, a sottolineare graficamente il dilemma: sei sette o sei nove? – sei Michele o sei Caparezza? L’album nasce dunque da una lacerazione identitaria, dal confronto tra l’io privato e l’io pubblico dell’artista.
Questa dicotomia pervade l’intero disco, anche formalmente: ogni traccia è accompagnata da una coppia di parole (una di sette lettere e una di nove) che ne sintetizza il significato con un contrasto binario. Ad esempio, la tracklist presenta brani come Prosopagnosia o Una chiave , evidenziando i doppi poli tra cui l’autore oscilla. Questa struttura quasi numerologica conferisce all’album la forma di un viaggio ordinato nei meandri della psiche di Caparezza, un “viaggio dantesco… nell’inferno della sua mente” privo però di una rivelazione finale salvifica. L’influenza di Dante non è casuale: come il poeta all’inizio della Commedia, anche Caparezza si ritrova smarrito “nel mezzo del cammin” della sua vita (all’uscita dell’album ha 44 anni) in una selva oscura di dubbi esistenziali.
Dal punto di vista tematico, l’album affronta apertamente il dramma personale che Michele stava vivendo. Nel 2015, durante il tour di Museica, l’artista era stato colpito da un grave problema di salute: un acufene persistente, un fischio all’orecchio che rischiava di compromettere per sempre la sua percezione della musica. Questo disturbo, accompagnato da un’incipiente ipoacusia (calo dell’udito), getta Caparezza in uno stato di angoscia: si sente “imprigionato in un corpo non più suo, con il soffocante disagio di chi non riesce a riconoscersi allo specchio”. Non a caso sceglie di intitolare il brano d’apertura Prosopagnosia, dal nome della patologia neurologica che impedisce di riconoscere i volti – metafora potente della dissociazione identitaria in cui Caparezza si dibatte, al punto da non riconoscere più sé stesso. L’ispirazione gli viene dalla lettura di Oliver Sacks (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello), segno della volontà di dare basi psicologiche solide al concept
In questo album Michele si mette a nudo, esplorando paure, insicurezze, depressione e senso di inadeguatezza. Per farlo attinge anche alla teoria psicologica: “mi sono letto Freud, Jung, i grandi della psicologia… Jung e Freud erano un tramite per parlare di me” confessa, evidenziando come abbia assorbito quei concetti per decifrare il proprio vissuto. Non a caso uno dei pezzi chiave s’intitola Forever Jung, gioco di parole che omaggia Carl Jung e insieme Forever Young: nel testo Caparezza cita esplicitamente Freud e Jung come “i veri padri del rap, prima di DJ Kool Herc”, riconoscendo simbolicamente alla musica rap una funzione catartica e terapeutica. In effetti, in Prisoner 709 la musica diviene psicoterapia: attraverso rime e metafore l’autore compie un lungo monologo interiore (un flusso di coscienza vicino al journal de deuil, il diario del lutto) per elaborare il suo malessere. Caparezza trasforma il microfono nello strumento con cui scandaglia la propria psiche, affrontando faccia a faccia ansie e fobie.
Un momento cruciale del disco è Una chiave, posta simbolicamente al centro della tracklist. In questo brano la narrazione diviene dialogica: Caparezza immagina un confronto tra sé adulto e il sé adolescente, quel Michele quindicenne che “ancora non conosce le luci dei palcoscenici” ma già soffre “il peso delle aspettative”. È uno squarcio di auto-narrazione terapeutica: il Caparezza quarantenne, ormai disincantato, rassicura il suo giovane io sul fatto che nessuno troverà un senso positivo nel dolore, e che per superare le insicurezze dovrà contare solo su sé stesso. Non c’è lieto fine semplice in questo disco9: come nota la critica, l’epilogo dell’album è aperto e amaro, Caparezza non si libera magicamente delle proprie paure. Tuttavia, il valore catartico di questa autoanalisi musicale è innegabile. Michele ha aperto la porta della sua “prigione mentale” e si è guardato dentro con lucidità, inaugurando un percorso di trasformazione che continuerà nei dischi successivi. Dopo essersi messo a nudo, l’artista sembrava quasi suggerire un dubbio: “Ora che ho esplorato il mio inferno interiore, c’è ancora un motivo per continuare con la musica?”. Non a caso, Caparezza dichiarerà che dopo Prisoner non era affatto scontato che avrebbe fatto un altro album, tanto che *tornare a scrivere canzoni è stato di per sé “rivoluzionario”. Ma la storia avrebbe dimostrato che quella chiave, trovata nel profondo di sé, apriva la porta verso una nuova fase creativa anziché chiuderla.
Exuvia: la fuga nel bosco e la muta del Sé
Quattro anni dopo9, Caparezza torna sulla scena con Exuvia (maggio 2021), un progetto ambizioso che rappresenta il secondo atto di questo viaggio interiore. Se il disco precedente era la cronaca di una prigionia mentale, Exuvia – titolo insolito che richiama il termine scientifico esuvia, la muta degli insetti – mette in scena una fuga e una trasformazione. L’artista stesso descrive Exuvia come “un viaggio verso la salvezza”, una sorta di rito di passaggio per evadere dalle gabbie (mentali e non) e approdare a un nuovo stato dell’essere. Non a caso Caparezza lo definisce “il concept più concept che abbia fatto”, un’opera monumentale di ben 19 tracce, concepita come un unico racconto coerente.
Dal punto di vista narrativo, Exuvia inizia laddove Prisoner finiva: il protagonista (Michele stesso) evade da una prigione e si addentra in una foresta oscura per far perdere le proprie tracce. L’ambientazione boschiva e notturna richiama esplicitamente la “selva oscura” dantescai, segnalando che siamo nel territorio simbolico dello smarrimento esistenziale e del cambiamento. Come spiega Caparezza, la storia di Exuvia rappresenta la continuazione diretta di Prisoner 9: se in quest’ultimo l’autore rifletteva sulla propria “prigionia mentale”, ora si concentra sul desiderio di fuga – una fuga principalmente mentale, immaginativa, che precede l’abbraccio di uno stato di completa libertà. In termini junghiani potremmo dire che Michele, dopo aver affrontato la propria ombra, sente il bisogno di lasciare la “vecchia pelle” alle spalle per poter individuare un nuovo sé. Exuvia è dunque la cronaca poetica di questa metamorfosi.
Ma che cosa lascia davvero dietro di sé Caparezza in questa muta? “Mi sono messo alle spalle il mio passato” afferma senza mezzi termini. Dal punto di vista musicale, ciò significa stravolgere le coordinate dei dischi precedenti: Exuvia suona volutamente diverso. Caparezza decide di produrlo interamente da solo, cambiando tutti i suoni a disposizione. Dimenticate le chitarre rock distorte e l’aggressività che avevano caratterizzato tanti suoi brani passati: qui le atmosfere si fanno più soft, malinconiche, a tratti meditative. “Non c’è l’aggressività tipica dei miei precedenti… Ha meno suoni live. Parla di argomenti più malinconici rispetto al passato ma in maniera più scanzonata, perché ci sono tanti cantati” spiega l’artista. In effetti, Exuvia è attraversato da un tono spesso melodico e sognante, quasi folk in certi interludi, che rappresenta una sorta di respiro dopo l’angoscia claustrofobica di Prisoner 709. Caparezza ha fame di cambiamento: “ogni volta che mi incasello mi smarco. Non mi piace rimanere fermo. Fuggo”. Dunque la fuga narrata nel concept è anche una fuga dai propri stessi schemi artistici.
Allo stesso tempo, Exuvia segna un tentativo di riconciliazione con il passato personale. Per anni Caparezza aveva rinnegato o comunque rimosso l’era Mikimix; ora, a 47 anni, sente di poter guardare quel “sé” lontano con occhi nuovi. Nella traccia Campione dei Novanta Michele affronta “di petto” le proprie origini musicali: è la prima volta che dedica un’intera canzone a Mikimix, rievocando gli esordi naïf e la partecipazione a Sanremo 1997. “Per anni non l’ho vissuta benissimo quella storia, ne avevo vergogna, ho pensato tante volte di aver sbagliato tutto… Ora però posso riappacificarmi col passato, ho l’età per farlo” confessa. In Campione dei Novanta Caparezza perdona il suo giovane sé: ammette che a vent’anni si può sbagliare e cita ironicamente un verso tagliente – “Ascolto roba new… il vuoto di una hit continua / al confronto Mikimix è Bob Dylan” – per togliersi anche un sassolino dalla scarpa verso il pop contemporaneo. È un gesto liberatorio e autoironico: trasformare quella che fu una vergogna in materiale narrativo, integrarla nella propria storia. Possiamo leggere questo come la “prima exuvia” compiuta da Caparezza: riconoscere l’errore giovanile e lasciarlo andare, come il vecchio esoscheletro di un insetto abbandonato sul sentiero. Solo così si può proseguire alleggeriti nel cammino evolutivo.
Il cammino di Exuvia è costellato di simboli e riferimenti culturali, a testimonianza della natura enciclopedica e visionaria del progetto. Caparezza stesso lo paragona a un film: aveva in mente di fare “un disco allegro” come aveva scritto Fellini sulla cinepresa girando 8½, ma poi ha realizzato di “vivere di paradossi”– e infatti un brano si intitola Eterno Paradosso. Nel disco convivono citazioni di Fellini, Kafka, Kubrick, Lewis Carroll, passando per Mark Hollis (Talk Talk) e persino Ludwig van Beethoven. Proprio Beethoven compare come personaggio immaginario ne La Scelta, singolo che vede Caparezza dialogare con il fantasma del compositore tedesco. In questo dialogo surreale Beethoven, simbolo dell’Artista totale capace di trascendere le avversità (lui stesso divenne sordo), esorta Michele a dedicarsi completamente alla Musica – è la scelta che dà titolo al brano. Il richiamo a Beethoven incarna dunque il tema della vocazione artistica come destino inevitabile: nonostante i dubbi e i problemi di udito, Caparezza sceglie di continuare a creare, incoraggiato dallo spirito guida di un genio del passato.
Altro tema portante è il rapporto uomo/natura. La foresta di Exuvia non è solo scenario, ma metafora vivente. In Contronatura, ad esempio, Caparezza riflette sul paradosso della “natura matrigna”: “La natura non si cura delle cose, non ha scopo se non quello di esistere” – cita Leopardi e nota il lato crudele dell’ecosistema, dove esistono parassiti, predatori, malattie. Da qui il paradosso: prendersi cura della Natura è in fondo un atto contro-natura, perché la Natura di per sé è indifferente all’uomo. Caparezza però sovverte questa visione: “quando si lotta per proteggere la natura è lottare per l’uomo”. Insomma, sebbene la natura sia amorale, difenderla è un modo per salvare noi stessi. È un concetto attuale – l’ecologia come esigenza esistenziale – che l’artista esplora con il suo consueto piglio critico.
Non manca la riflessione generazionale e sociale: in Come Pripyat Caparezza paragona la scena rap attuale a una città post-nucleare. Pripyat, abbandonata dopo Chernobyl, è un luogo “fagocitato dalla natura” e in preda a mutazioni. Allo stesso modo, dice Caparezza, il rap odierno è mutato al punto da essergli quasi irriconoscibile: “opulenza e criminalità… da subito un marchio… quel movimento di riscatto si è mischiato alla criminalità e si è creato un cortocircuito”. Ciò che un tempo era lotta e riscatto sociale oggi si è pervertito in stereotipi di lusso e violenza. Con amarezza Michele ammette: “mi sono affezionato a un certo tipo di rap e mal digerisco quello attuale… ho il sospetto che semplicemente non mi piaccia”. Questa disillusione verso la scena contemporanea accentua la sensazione di essere un outsider, uno che “vive di paradossi” (amare il rap ma non ritrovarcisi più). Il bosco di Exuvia è anche questo: un luogo metaforico dove Caparezza si allontana dalla società, in un esilio creativo autoimposto, per ritrovare la meraviglia smarrita (“ho bisogno di ritrovare la meraviglia”, dirà in un’intervista).
Nel finale del disco si percepisce una transizione ancora in atto, non del tutto conclusa. Exuvia non termina con un approdo definito, piuttosto con un enigma. Il protagonista è uscito dalla prigione e si è spinto nel cuore oscuro della foresta, ha fatto i conti con i propri fantasmi e accettato i propri “paradossi eterni”, ma la libertà piena non è stata ancora conquistata – è solo intravista all’orizzonte, come un bagliore in fondo al bosco. In effetti Caparezza, presentando l’album, parla di “sensazione di angoscia e stupore” provata negli anni di lavorazione, e definisce Exuvia “l’album più sofferto della mia carriera”. È il frutto di “due anni e mezzo di lavoro” in cui si è immerso in questo mondo immaginario, ispirato anche dalla sceneggiatura mai realizzata di Il viaggio di G. Mastorna di Fellini. A rimarcare la dimensione immersiva del concept, Caparezza ha perfino creato una Exuvia Experience: un percorso virtuale interattivo ambientato in una foresta digitale, con 15 tappe per esplorare il significato di ogni brano. L’arte, ancora una volta, si fa labirinto interiore.
In conclusione, Exuvia è un’opera di transizione in ogni senso: artistico, perché reinventa il sound e il metodo compositivo di Caparezza; autobiografico, perché fa i conti col passato (Mikimix, la giovinezza, la famiglia – vedi il toccante brano El Sendero in cui parla delle vite di suo padre e suo nonno); psicologico, perché rappresenta il rito di passaggio di un uomo di mezza età alle prese con i propri demoni e con la necessità di trovare una nuova identità. Se Prisoner 709 era la presa di coscienza della crisi, Exuvia è il processo di cambiamento avviato per risolverla. Michele ha accettato la sfida di attraversare la sua notte oscura dell’anima. Non ha ancora raggiunto la destinazione, ma ha iniziato a cambiare pelle – e soprattutto ha scelto di non abbandonare la musica. Come dichiarato in quegli anni: “dopo Prisoner non era detto che facessi un altro disco… fare un altro disco è rivoluzionario”, segno che creare quest’album è stato un atto di volontà e rinascita. La rivoluzione personale è in corso, pronta a compiersi nel capitolo seguente della trilogia.
Dopo questa veloce panoramica orientativa, proseguirò in un analisi dettagliata di questa trilogia traccia per traccia

Prisoner 709 (2017) – La prigione nella mente
Prisoner 709 è un concept album fortemente autobiografico, nato da una crisi interiore profonda di Caparezza (Michele Salvemini). Il titolo stesso “709” simboleggia la dicotomia identitaria tra Michele (7 lettere) e Caparezza (9 lettere), con lo 0 inteso come congiunzione (“7 o 9”) e come cerchio, l’eterno oscillare tra i due sé e la forma di un disco. L’artista si sente prigioniero nella propria mente, incatenato dai suoi ruoli e dubbi personali. Musicalmente, il disco abbandona i colori giocosi di Museica per toni più cupi e sonorità rap-rock aggressive, specchio di un’anima in tumulto. È anche un album segnato dall’acufene (il fischio cronico all’orecchio) che ha colpito Caparezza nel 2015, percepito come una tortura costante e ispirazione dolorosa di molti brani. Ogni traccia è pensata come un “capitolo” di questa auto-analisi in 16 tappe, con titoli doppi che oppongono termini di sette e nove lettere – un gioco concettuale voluto dall’autore per enfatizzare il tema di due poli interiori in conflitto. Di seguito un’analisi traccia per traccia, esplorando i temi psicologici, le metafore principali e i rimandi intertestuali presenti.
1. Prosopagnosia – “Il reato – Michele o Caparezza”
La prosopagnosia è un disturbo neurologico che impedisce di riconoscere i volti. Caparezza lo adotta come potente metafora iniziale: il “reato” commesso è non riconoscere più sé stesso, smarrire i propri connotati identitari. Sin dal primo verso, c’è la presa di coscienza dolorosa di chi si guarda allo specchio e non si ritrova: “Non mi riconosco più, prosopagnosia”, rappa Capa, dando voce a quella sensazione di estraneità dal proprio io. Michele e Caparezza appaiono come due volti sconosciuti l’uno all’altro. In termini junghiani, potremmo dire che il Sé autentico di Michele non riconosce più la persona-maschera di Caparezza, generando un conflitto lacerante. La produzione musicale è claustrofobica e serrata, con un beat cupo e linee vocali aggressive che trasmettono una sensazione di costrizione e rabbia crescente. Nel finale interviene la voce sperimentale di John De Leo, quasi un lamento straziante che riverbera la frustrazione del protagonista. Questa coda vocale surreale amplifica il senso di spaesamento psichico: sembra rappresentare un doppio delirante o un eco dalla profondità dell’inconscio. La “prosopagnosia” diventa così simbolo di una forma di dissociazione: Michele non vede più Michele nel volto riflesso, perché vede solo Caparezza – e viceversa. È l’inizio di un viaggio autoanalitico doloroso, la presa di coscienza che qualcosa si è frantumato nell’unità dell’Io.
Dal punto di vista psicodinamico, questo smarrimento identitario richiama il concetto freudiano di disagio dell’Io: il soggetto percepisce il proprio Io come estraneo (Unheimlich). È come se Caparezza soffrisse di una “agnosia del Sé”, preludio a quella scissione interna che permea l’intero album. L’immagine del volto irriconoscibile è una metafora forte: il volto è ciò con cui ci presentiamo al mondo, e perderne la familiarità equivale a perdere la figura con cui abbiamo recitato nella vita. In termini junghiani, Caparezza sta incontrando la sua Ombra – ciò che era stato rimosso o ignorato – e ne è spaventato. “Prosopagnosia” dunque mette in scena il momento del breakdown: l’io cosciente ammette il proprio smarrimento e da qui prende avvio l’analisi introspettiva.
2. Prisoner 709 – “La pena – Compact o Streaming”
La title-track prosegue il racconto posizionandoci dentro la prigione mentale dell’artista. Qui Caparezza si dichiara esplicitamente “prigioniero 709”, ossia prigioniero del dilemma tra le sue due identità (il Michele “7” e il Caparezza “9”). Il brano è un’aggressiva confessione in prima persona di come ci si senta intrappolati nelle proprie ossessioni, domande e paure. Le rime sono taglienti e velocissime, come pensieri che rimbalzano contro le pareti di una cella. “Sto in una gabbia e mi avvilisco, il futuro sopprime colui che negli occhi lo guarda: è un basilisco”, esclama Caparezza, con una potente immagine mitologica. Il basilisco – creatura leggendaria che pietrifica chi lo fissa – rappresenta il futuro stesso: l’ansia per il domani paralizza l’artista, trasformandosi in un mostro che pietrifica la volontà. Questa metafora indica una condizione psicologica nota: la paura del futuro e il senso di impotenza assoluta, tipico di una fase depressiva. La pena da scontare, nel capitolo 2, è proprio questa condanna auto-inflitta all’immobilità, come se l’orizzonte temporale fosse un nemico.
In questo pezzo Caparezza inserisce vari riferimenti culturali e pop, che fungono da specchi deformanti del suo stato interiore. Ad esempio nomina il Compact Disc e lo streaming (come suggerisce il sottotitolo) contrapposti: due formati musicali, uno fisico e uno liquido, simbolo del passato e del presente. È come se si sentisse intrappolato tra ciò che era (la musica “tangibile” della sua giovinezza) e ciò che è ora (l’era digitale inafferrabile) – un ulteriore parallelismo al Michele vs Caparezza. Il riferimento allo Stanford Prison Experiment è più implicito ma centrale nell’immaginario dell’album: non a caso il numero 709 è ispirato al prigioniero 819 dell’esperimento di Zimbardo, quello la cui crisi fermò il gioco diventato realtà. In “Prisoner 709” Caparezza sta sia nei panni del detenuto sia in quelli del carceriere della propria mente. Viene infatti enunciata la dinamica psicologica per cui l’individuo crea da sé le sbarre che lo rinchiudono (rimando al cosiddetto Effetto Lucifero di Zimbardo, dove i ruoli possono trasformare le persone). L’atmosfera sonora mescola rap e hard rock, con ritornello martellante e cori potenti: è la colonna sonora di una ribellione che però, al momento, resta interna e soffocata. La “pena” continua, il prigioniero si dibatte ma non ha ancora trovato vie di fuga.
3. La caduta di Atlante – “Il peso – Sopruso o giustizia”
In questo brano Caparezza ricorre alla mitologia greca per esprimere un momento cruciale della sua vicenda personale: il giorno in cui “gli cadde il mondo addosso”. Il riferimento è al titano Atlante, condannato a reggere sulle spalle il peso del mondo per l’eternità. Caparezza rielabora il mito narrando di Atlante innamorato di Dike (dea della giustizia) – figura che nel testo rappresenta metaforicamente un obiettivo idealizzato (la Giustizia assoluta, o forse la perfezione artistica). Atlante cerca di conquistarla offrendole potere e ricchezze, ma Dike rifiuta; nel tentativo di inseguirla Atlante cade e viene schiacciato proprio dal globo che portava sulle spalle. Questa storia diventa allegoria della caduta di Caparezza stesso: il giorno in cui il suo eccesso di ambizione e impegno lo ha travolto, causandogli l’acufene permanente. Il peso che crolla su Atlante è dunque il peso dell’aver spinto troppo oltre – in parole povere, aver tirato la corda fino a spezzarla. Caparezza ha dedicato la vita alla musica “sacrificando” la propria salute (ore in cuffia, concerti ad alto volume), e l’acufene è arrivato come punizione quasi mitologica. Nel testo viene esplicitato questo mea culpa con toni amari: “Usi la forza e la ricchezza per le tue conquiste? Non sei più forte né più ricco, sei solo più triste!” – frase che capovolge la logica del titanismo artistico, mostrando il disinganno. Il sottotitolo “Sopruso o giustizia” allude proprio a questo dilemma: il male che lo affligge (il fischio incessante) è un’ingiustizia crudele del destino oppure è la giusta conseguenza (giustizia immanente) delle sue azioni sconsiderate? Caparezza sembra propendere per la seconda, flagellandosi con senso di colpa.
Psicologicamente, La caduta di Atlante descrive un trauma e la successiva rielaborazione di esso. L’uso della metafora mitologica e di riferimenti colti (si citano anche Nietzsche e altri elementi nel testo) serve a elevare la vicenda personale a un piano universale, quasi archetipico: è la caduta dell’eroe sotto il peso delle proprie aspirazioni. Questa caduta rappresenta il punto di non ritorno nella crisi di Michele/Caparezza, l’evento scatenante che dà la spinta all’intero album-concept. Il trauma dell’acufene diventa quindi il nucleo attorno al quale orbitano tutte le 16 canzoni – “fa da sfondo a tutte le tracce” come notato dai critici. A livello sonoro, il brano ha toni drammatici e solenni, con cori quasi epici a sottolineare la dimensione mitica. Il refrain (“Del giorno in cui mi cadde il mondo addosso, ricordo tutto…”) è cantilenante e gravido di pathos, fissando nella memoria proprio l’attimo del trauma. È interessante come Caparezza trasformi un disturbo clinico in un’immagine poetica così potente: Atlante schiacciato dalla terra è la perfetta visualizzazione della depressione reattiva che può seguire un trauma – ci si sente letteralmente con il mondo sulle spalle. Da notare anche l’intertestualità interna: anni dopo, nella traccia “Canthology” dell’album Exuvia, Caparezza tornerà a nominare Atlante (“Atlas”) e quel peso sulle spalle come riferimento alla propria discografia passata, a riprova di quanto questo simbolo sia centrale nel suo immaginario.
4. Forever Jung – “Lo psicologo – Guarire o ammalarsi”
Già dal titolo arguto – un gioco di parole tra Carl Jung e l’espressione “Forever Young” – intuiamo che Caparezza affronta qui il tema della psicoterapia e dell’eterna giovinezza interiore. Il sottotitolo, “Lo psicologo”, lascia intendere che questo brano è il capitolo in cui l’artista si siede metaforicamente sul lettino dell’analista. Non a caso la strofa iniziale contiene un’affermazione programmatica: “il rap è psicoterapia, quindi materia mia”. Caparezza rivendica così il valore catartico del rap, inteso come flusso di coscienza e auto-analisi: scrivere rime per lui equivale a una seduta di terapia. In Forever Jung, Caparezza riversa pensieri veloci e taglienti, con un flow serratissimo che rispecchia il libero fluire delle associazioni mentali tipico dell’analisi freudiana (freud in tedesco significa proprio “gioia”, e qui l’artista pare trovare una paradossale gioia nello scavare dentro di sé con le rime). Viene esplicitamente omaggiato Jung, padre della psicologia analitica, come a sottolineare che questo viaggio interiore non è solo emotivo ma anche culturale: Caparezza è consapevole delle teorie psicologiche e le intreccia al suo racconto.
Il brano si avvale della collaborazione di DMC (Darryl McDaniels), leggendario rapper degli RUN-DMC, che incarna la old school. Questa collaborazione non è casuale: DMC qui potrebbe simboleggiare il Mentor, il “dottore” del rap che assiste Caparezza nella sua seduta. Musicalmente la traccia mescola hip-hop puro con innesti hard rock, creando un’energia conflittuale che rispecchia l’ambivalenza del processo terapeutico (da cui il sottotitolo “Guarire o ammalarsi” – mettere a nudo i propri problemi può portare verso la guarigione ma inizialmente accentua il dolore). Caparezza snocciola versi pieni di riferimenti psicologici e culturali, forse citando archetipi o immagini dell’inconscio collettivo. L’idea del “Forever Young” potrebbe nascondere un riferimento al Puer Aeternus, l’archetipo junghiano del “fanciullo eterno”: l’artista, pur adulto, conserva quella parte giovane ribelle e creativa indispensabile per la sua arte. Ma Jung insegna anche l’importanza di integrare l’Ombra e maturare; infatti Caparezza sembra chiedersi se restare per sempre “giovane” (nel senso di aggrapparsi al proprio personaggio artistico esuberante) sia un rifugio sicuro o una trappola che impedisce la crescita. Questo è il paradosso terapeutico che il brano evidenzia: il rap e la creatività possono guarire, ma solo se l’Io accetta di trasformarsi, altrimenti si rischia di restare cristallizzati in un ruolo.
In chiave freudiana si potrebbe leggere qui il conflitto tra Principio di piacere e Principio di realtà: l’artista giovane vuole continuare a esprimersi liberamente (piacere), ma l’adulto Michele sente la realtà pressare con i suoi limiti. “Forever Jung” è dunque la seduta dallo psicologo immaginario in cui Caparezza analizza il proprio Sé diviso, con la speranza di trovare una sintesi. Le rime fanno emergere ricordi e sogni (forse riferimenti onirici, visto il titolo), mentre la base strumentale incalza come un pensiero ossessivo. Il brano termina senza un vero ritornello liberatorio, quasi a indicare che la terapia è ancora in corso. Da notare, in un verso, l’autoironia meta-musicale: Caparezza afferma di usare “la penna come Jung usa la scienza”, suggellando il parallelismo tra il rapper e lo psicologo. Carl Gustav Jung appare così svecchiato e complice, in un abbraccio ideale col rapper pugliese: entrambi esploratori dell’inconscio, sebbene con strumenti diversi.
5. Confusianesimo – “Il conforto – Ragione o religione”
Con Confusianesimo entriamo in un capitolo ironico e pungente, dedicato alla confusione spirituale dell’uomo moderno. Il titolo fonde “Confucianesimo” (la dottrina di Confucio) con “confusione”, suggerendo una sorta di “religione della confusione”. Caparezza qui affronta il proprio scetticismo religioso: si definisce incapace di trovare pace in qualunque dottrina, pur sentendo il bisogno di credere in qualcosa. In un’intervista ha spiegato infatti: “Io sono uno scettico. Non riesco a trovare pace in nessuna dottrina, religiosa o spirituale che sia. Un po’ mi dispiace perché mi rendo conto che se avessi un credo sarei più sereno”. Il brano è concepito come uno sfogo satirico in cui Caparezza immagina di seguire tutte le religioni contemporaneamente per colmare il proprio vuoto spirituale. Ne risulta un elenco quasi liturgico di simboli e rituali eterogenei: “Rabbi, Papa, Lama, Imam / Bibbia, Dharma, Sura, Torah / Pane, vino, kasher, halal / Yom Kippur, Quaresima, Ramadan” recita il ritornello come un mantra confuso. Questa litania include figure e pratiche ebraiche, cristiane, buddiste, islamiche ecc., evocando un sincretismo impossibile. La musica accompagna con tonalità quasi da giostra mistica: cori e fraseggi orientaleggianti mescolati a beat elettronici, creando un’atmosfera a metà tra il sacro e il carnevalesco.
Il sottotitolo “Il conforto – Ragione o religione” evidenzia la dicotomia: Caparezza cerca conforto esistenziale, ma non sa se trovarlo nella razionalità laica o nella fede religiosa. Da un lato cita Tolstoj (che nell’ultimo periodo della sua vita fondò un proprio culto spirituale), dall’altro sbeffeggia i guru new-age come Osho e i fenomeni da baraccone legati alla religione (nel testo compare l’immagine di Rolls Royce di Osho, allusione agli scandali del santone). C’è anche un macabro riferimento al rito di Jonestown (il suicidio collettivo della setta di Jim Jones) – sintomo dell’estremizzazione a cui porta la sete di fede cieca. Tutto il testo è costellato di riferimenti pop e dissacranti: c’è Apollo Creed sul tappeto di preghiera musulmano, c’è Buddha che mangia un peperoncino habanero, c’è persino un indio che venera un aereo scambiandolo per un dio. Queste immagini surreali mostrano quanto l’uomo possa credere in qualsiasi cosa pur di colmare il proprio bisogno spirituale.
Dal punto di vista psicologico, Confusianesimo tocca il tema del vuoto esistenziale e della disintegrazione del significato. Caparezza esprime in forma comica ciò che Viktor Frankl chiamerebbe il “vuoto di senso” dell’uomo contemporaneo: la difficoltà di trovare uno scopo o una fede in un mondo disincantato. Allo stesso tempo, possiamo leggere il suo desiderio di credere in tutto come un tentativo di difesa dall’angoscia: è un caso di “fame di spiritualità” che porta ad ingozzarsi di religioni in modo caotico. Freud definiva la religione un’illusione infantile utile a placare le ansie (il “fabbisogno di illusione”); Caparezza sembra consapevole di ciò, ma non può fare a meno di sentirne la mancanza. Nel finale del brano, afferma infatti con autoironia: “C’è una scienza dietro le religioni: nuovo schermo, nuove prigioni… Non mi immedesimo: Confusianesimo”. Riconosce cioè che ogni credo costruisce i suoi recinti, ma confessa di non riuscire ad immedesimarsi in nessuno. “Confusianesimo” è dunque la fotografia di un conflitto interiore tra la Ragione, che gli impedisce di aderire a una fede, e il bisogno psicologico di Religione, di appartenere a qualcosa di più grande. L’intero brano può essere visto come l’espressione del pensiero paradossale: per essere “libero” dalla confusione, egli ipotizza di privarsi della libertà aderendo a ogni culto (“per essere libero di privarmi della mia libertà” dice un verso tagliente). Questa frase riassume la disperazione di chi preferirebbe una gabbia rassicurante al caos dell’incertezza. Caparezza però, con la sua solita verve satirica, alla fine non si immedesima in nessuna di queste fedi, restando sospeso in un limbo agnostico, un po’ amaro e un po’ comico.
6. Il testo che avrei voluto scrivere – “La lettera – Romanzo o biografia”
Dopo i fuochi d’artificio di “Confusianesimo”, l’album torna a focalizzarsi sull’arte stessa di Caparezza, con un brano metatestuale e psicologicamente incisivo. “Il testo che avrei voluto scrivere” è una canzone dall’ironia amara, in cui l’autore dialoga con sé stesso circa l’eterna insoddisfazione creativa. Sin dal titolo si capisce il tono paradossale: ciò che stiamo ascoltando non è – a detta sua – il testo che avrebbe voluto scrivere. Caparezza gioca sul meta-livello, presentandoci una canzone che dichiara la propria inadeguatezza rispetto all’ideale. Nel ritornello egli ripete: “Il testo che avrei voluto scrivere non è di certo questo”, con un misto di sarcasmo e frustrazione. Questa frase diventa quasi un mantra ossessivo, a sottolineare il perfezionismo implacabile che tormenta l’artista. L’effetto è duplice: da un lato strappa un sorriso (per l’autodenigrazione iperbolica), dall’altro rivela una profonda nevrosi creativa. Siamo di fronte al classico conflitto tra l’Io ideale dell’artista e l’Io reale: nessuna opera sembra mai abbastanza valida da soddisfare le proprie aspettative.
Nel testo Caparezza accumula immagini per descrivere il brano “perfetto” che sogna di comporre: un pezzo talmente bello da “toccare la vetta del Kilimangiaro”, da far star male per l’emozione chi lo ascolta, da rivelare completamente la sua anima all’ascoltatore. Sono iperboli che richiamano la brama di onnipotenza creativa – una spinta tipica di molti artisti, ma qui portata al limite del patologico e subito smentita con autoironia. Il fatto che il brano ideale non esista mai rimanda al concetto di desiderio mai appagato: c’è sempre un’opera ulteriore da inseguire, in un perpetuo rimando che ricorda il principio di piacere freudiano (il desiderio che si rinnova perché la soddisfazione piena è irraggiungibile). In termini di psicologia del sé (Kohut), potremmo dire che Caparezza sta lottando con un Sé grandioso ferito: l’ambizione narcisistica di creare il Capolavoro lo lascia inevitabilmente insoddisfatto e ciò genera autocritica distruttiva. Tuttavia, invece di crollare, egli trasforma questa ossessione in arte: scrive una canzone proprio su come non riesca a scrivere la canzone perfetta. È un brillante esempio di sublimazione: il conflitto interno viene trasferito nell’opera stessa, esorcizzandolo.
Musicalmente, il brano è costruito con un beat ossessivo e ripetitivo, quasi a rispecchiare l’inarrestabile rimuginare nella testa dell’artista. La voce è incalzante, a tratti sfiancata: sembra di sentire Caparezza camminare avanti e indietro in una stanza, borbottando tra sé idee scartate e versi abortiti. L’atmosfera è sia comica sia nevrotica. Alcuni versi sono autoindirizzati, come se Caparezza si guardasse allo specchio rimproverandosi di non essere abbastanza bravo. Ad esempio, si immagina che il vero “testo che avrebbe voluto scrivere” sarebbe così potente da far capire a tutti chi è lui davvero (“che chi lo sente capisce me”), rivelando un profondo desiderio di essere compreso totalmente attraverso l’arte. Questo tocca un punto sensibile: l’artista spesso usa l’opera per comunicare aspetti intimi di sé, ma sente sempre che il messaggio non arrivi mai al 100%. C’è un’eco di Kafka in questa frustrazione (Kafka bruciava molte opere insoddisfatto di esse), ma Caparezza sceglie la via dell’autoironia terapeutica invece che dell’autodistruzione.
Da notare anche la struttura narrativa peculiare: essendo un meta-testo, non segue la solita progressione strofa-ritornello con un tema lineare, ma si avvolge su sé stesso. È come un loop creativo: inizia e finisce con l’ammissione del fallimento del brano. Ciò ricorda un po’ i paradossi pirandelliani, dove l’autore e la sua creatura si confondono (Pirandello avrebbe apprezzato questa rottura della quarta parete). Intertestualmente, non mancano riferimenti ad altre opere di Caparezza: alcune frasi possono citare per contrasto suoi brani passati in cui mostrava sicurezza o altri in cui parlava di creatività (ad esempio viene in mente “China Town” da Museica, dove affrontava il blocco dello scrittore). “Il testo che avrei voluto scrivere” è insomma la confessione esplicita di un complesso dell’artista: l’opera ideale è sempre altrove. Con questo pezzo Caparezza mostra coraggiosamente le proprie insicurezze e allo stesso tempo le sublima, regalando uno dei momenti più originali e meta-poetici del disco.
7. Una chiave – “Il colloquio – Aprirsi o chiudersi”
Questa traccia segna un punto di svolta emotivo nell’album: dopo tanta tensione, arriva un messaggio di speranza e liberazione. “Una chiave” è costruita come un colloquio intimo che Caparezza ha con sé stesso, in particolare con il sé stesso del passato. L’artista immagina di parlare al giovane Michele, quello insicuro e smarrito di tanti anni prima, per offrirgli – letteralmente – una chiave. La chiave è simbolo polisemico nel brano: è la chiave della cella mentale (per evadere dalla prigione interiore), ma è anche la chiave di lettura per interpretare la realtà in modo . Caparezza, ormai adulto e più consapevole, rassicura il suo alter ego giovane dicendogli: “No, non è vero che non sei capace, che non c’è una chiave”. Questo verso, gridato con passione, è uno dei momenti più catartici dell’album: ribalta tutte le affermazioni negative che uno tende a dirsi nei momenti bui (“non sei capace”, “non c’è soluzione”) e le smentisce con forza. È come un terapeuta che infonde fiducia al paziente, oppure come un fratello maggiore che incoraggia il minore spaventato. In effetti qui Caparezza assume il ruolo di guaritore di sé stesso: dopo aver elencato crisi e paure, trova dentro di sé la figura paterna benevola che gli indica la via d’uscita.
Dal punto di vista psicoanalitico, “Una chiave” può rappresentare un momento di integrazione e auto-empatia. Se fino ad ora l’Io era frammentato e giudicante, qui subentra la compassione verso sé: Caparezza accoglie il suo bambino interiore ferito e gli porge aiuto. È un passaggio fondamentale in molte terapie: smettere di odiarsi per le proprie debolezze e iniziare a dialogare con le proprie parti vulnerabili. La chiave diventa così il simbolo della soluzione ai conflitti interni, la scoperta che esiste sempre un modo per aprire anche le porte che sembrano chiuse. Nel brano, questa “chiave” potrebbe essere l’arte stessa. Caparezza infatti allude al rap come strumento salvifico (concetto già espresso in Forever Jung). Inoltre, come notato da alcuni interpreti, la chiave rappresenta l’interpretazione: trovare la chiave di lettura giusta per capire la realtà e il proprio posto in essa. C’è quindi un rimando alla gnosi personale, all’illuminazione che consente di dare un senso al caos.
Musicalmente “Una chiave” è tra le tracce più orecchiabili e melodiche dell’album. Ha un tono quasi fiabesco all’inizio – si sente uno xilofono gentile – e poi si sviluppa in un ritornello cantato molto emozionante. Questa dolcezza musicale sottolinea il contenuto positivo: dopo tanta cupezza, qui filtra la luce. Non a caso fu pubblicata come singolo, riscontrando grande successo anche di pubblico: evidentemente il suo messaggio universale (“c’è sempre una chiave, una possibilità”) ha toccato molti ascoltatori. Il videoclip stesso raffigurava Caparezza in un mondo surreale alla ricerca di chiavi, a conferma del forte impianto metaforico. Interessante notare come Caparezza faccia riferimento implicito ad esperienze autobiografiche: quando dice al sé giovane di avere coraggio, possiamo pensare alla sua reale storia – il ragazzo di provincia che abbandonò il fallimentare primo pseudonimo “MikiMix” per reinventarsi come Caparezza. La chiave di svolta per lui fu trovare la propria autentica voce artistica. Dunque il brano ha diversi livelli: è insieme un dialogo interiore e un consiglio dedicato a chiunque si senta intrappolato nelle proprie insicurezze.
Il sottotitolo “Aprirsi o chiudersi” evidenzia la scelta cruciale: aprirsi significa mostrarsi per quello che si è, affrontare il mondo a viso aperto (aprire la porta ed uscire dalla prigione mentale); chiudersi significherebbe invece arrendersi, rimanere bloccati dentro. Caparezza opta con decisione per l’apertura – ed è significativo che questa presa di posizione arrivi circa a metà album, segnando un cambio di rotta. Dopo “Una chiave”, difatti, i brani successivi pur toccando altri temi mantengono una consapevolezza nuova, come se l’artista avesse davvero trovato quella chiave e intravisto la via d’uscita. In termini narrativi, è il climax positivo dell’opera, l’inizio della risoluzione.
8. Ti fa stare bene – “L’ora d’aria – Frivolo o impegnato”
Con “Ti fa stare bene” Caparezza concede a sé stesso (e agli ascoltatori) la cosiddetta ora d’aria, cioè un momento di svago spensierato all’interno di un percorso carcerario. Dopo tanti pensieri profondi, arriva una canzone esplosiva, dal tono allegro e quasi fanciullesco, che invita a fare ciò che ci rende felici. È un inno all’importanza della leggerezza, alla necessità di ritagliarsi spazi di pura gioia in mezzo alle sofferenze. Musicalmente, il brano è solare e funky, con fiati vivaci e un coro di voci bambinesche nel ritornello – una differenza marcata rispetto alla cupezza precedente. Caparezza elenca una serie di attività buffe e liberatorie: “soffia nelle bolle con le guance piene, disegna smorfie sulle facce serie”, incitando a ritrovare il bambino interiore e la creatività giocosa. Queste immagini semplici e colorate evocano il piacere del gioco (Winnicott docet: il gioco è fondamentale per la salute psichica).
Va sottolineato il lato ironico-meta del brano: Caparezza è consapevole di aver scritto una canzone molto radiofonica e “commerciale” rispetto ai suoi standard, e lo dichiara apertamente nel testo: “Questa canzone è un po’ troppo da radio… ’sti cazzi finché ti farà stare bene”. Con questa battuta volgare/scherzosa in coda al pezzo, l’artista anticipa le possibili critiche e risponde che non gli importa, finché la canzone farà stare bene chi l’ascolta. È una dichiarazione di intenti: la funzione catartica della musica conta più della purezza “impegnata”. Infatti il sottotitolo contrappone “frivolo o impegnato”: Caparezza qui rivendica il valore del frivolo quando serve a stare bene, senza però rinnegare il suo lato impegnato. Questa dialettica rispecchia una consapevolezza psicologica importante: per guarire non si può sempre restare immersi nell’ombra, a volte bisogna salire in superficie a prendere fiato e sole. In termini junghiani, potremmo dire che dopo aver affrontato l’Ombra nei brani precedenti, ora Caparezza dà spazio al Puer luminoso, all’archetipo del fanciullo divino portatore di vita.
Autobiograficamente, “Ti fa stare bene” ha un risvolto curioso: è diventata una delle hit più grandi di Caparezza, cantata ovunque, quasi un tormentone positivo. Il fatto che un brano nato come “sfogo leggero” abbia toccato così tanti, conferma l’intuizione dell’artista: c’era un bisogno collettivo di un messaggio del genere, soprattutto in tempi difficili (la canzone uscì nel 2017, in un clima sociale non semplice). Caparezza in un’intervista ha spiegato che in un periodo di impasse generazionale e personale, sentiamo il bisogno di qualcuno che ci dica di fare ciò che ci fa stare bene. E lui stesso usa la musica per “salvarsi” dai suoi demoni, analogamente il pubblico l’ha utilizzata come valvola di sfogo e motivazione. Siamo quindi di fronte anche a un fenomeno di rispecchiamento empatico: Michele si cura col rap e il pubblico risuona con questa cura, in un abbraccio collettivo. Si può anche scorgere un riferimento intertestuale: la ricerca della felicità con piccole cose ricorda altre sue canzoni del passato (come “Goodbye Malinconia” o “Vieni a ballare in Puglia” dove trattava con ironia temi pesanti, facendo ballare la gente). Qui però non c’è satira sociale né doppiofondo polemico: “Ti fa stare bene” è genuinamente spensierata, quasi a rischiare la banalità – rischio che Caparezza annulla con la sua consapevolezza e intelligenza testuale. Anche qui troviamo una sorta di auto-terapia: accettare di poter essere leggeri senza per questo sentirsi superficiali. È un messaggio in linea con le moderne teorie della psicologia positiva: coltivare le emozioni positive è essenziale tanto quanto elaborare quelle negative.
In conclusione, “Ti fa stare bene” funge da breve euforia liberatoria nell’album, uno squarcio di cielo azzurro nel tema carcerario (non a caso assimilabile all’ora d’aria, l’unico momento in cui il prigioniero vede il cielo). Dopo aver ballato e sorriso con questo brano, l’ascoltatore è pronto a rientrare nelle tematiche più complesse che seguiranno, portandosi però dietro un po’ di luce. Caparezza intelligentemente ha posizionato il pezzo al centro della tracklist, quasi a ricaricare le energie emotive di chi ascolta il concept dall’inizio alla fine.
9. Migliora la tua memoria con un click – “Il flashback – Ricordare o dimenticare”
Il titolo di questa traccia sembra quello di un’inserzione pubblicitaria online, di quelle che promettono miglioramenti cognitivi istantanei. Caparezza qui affronta il tema della memoria nell’era digitale e lo fa con il suo consueto approccio critico-creativo. “Migliora la tua memoria con un click” ci catapulta in un’atmosfera più elettronica sin dall’intro: suoni di click, effetti digitali e un tempo cadenzato e ipnotico. Questa base quasi trip-hop accompagna un testo che alterna versi riflessivi a un ritornello orecchiabile (impreziosito dalla presenza di Max Gazzè come ospite, la cui voce calda e il basso melodico aggiungono spessore onirico al pezzo). Il sottotitolo “Il flashback – Ricordare o dimenticare” indica che siamo di fronte a un capitolo in cui Caparezza fa i conti con il proprio passato: c’è un flashback, un ritorno di ricordi (forse dolorosi) e ci si interroga se sia meglio ricordare o rimuovere.
Il brano infatti allude alla tentazione di dimenticare le esperienze negative, di cancellare con un “clic” i traumi o le scelte sbagliate. Viviamo in un’epoca in cui tutto sembra clickabile e aggiustabile facilmente – come i falsi rimedi online che promettono memoria infallibile con un semplice software – ma Caparezza sa che la psiche non funziona così. Nei versi emergono immagini di dati, file, neuroni e memoria RAM vs memoria emotiva. Probabilmente ci sono riferimenti ironici a quei giochi di brain training, o alle notifiche continue che ci distraggono impedendoci di ricordare ciò che conta. Caparezza potrebbe citare frammenti della sua infanzia (il flashback di un ricordo preciso) o spezzoni della sua carriera, facendo un parallelo tra la memoria personale e quella digitale che oggi esternalizziamo nei cloud e motori di ricerca. Il dilemma “ricordare o dimenticare” è espresso tramite metafore: potremmo immaginare che parli di come a volte premere “delete” sui brutti ricordi sembri allettante, ma significherebbe perdere pezzi di sé. D’altronde, la memoria è identità: rimuovere selettivamente significherebbe falsificare la propria autobiografia mentale (il sottotitolo del brano precedente era proprio “Romanzo o biografia”, e qui il discorso continua – memoria come biografia interiore).
Un riferimento clinico implicito potrebbe essere al trauma e alla dissociazione: spesso chi ha vissuto eventi traumatici vorrebbe poterli cancellare con un click, oppure al contrario non riesce a scrollarseli di dosso (flashback intrusivi). Caparezza si muove in questo dualismo: meglio ricordare anche se fa male (perché ricordare ci definisce e ci permette di elaborare) o meglio dimenticare per stare in pace? Non c’è una risposta semplice, ma il solo porre la domanda in musica ha valore terapeutico. Verso la fine del brano, l’arrangiamento sonoro crea una sensazione di rewind, come un nastro che riavvolge all’improvviso: è possibile che Caparezza abbia inserito effetti sonori che richiamano proprio l’idea del flashback. Max Gazzè, con la sua sensibilità cantautorale, duetta portando un tocco quasi surreale, come la voce di un ricordo personificato che dall’interno dialoga con Caparezza.
Intertestualmente, “Migliora la tua memoria con un click” potrebbe contenere auto-riferimenti: Caparezza in passato ha scritto pezzi sul rapporto uomo-tecnologia (ad esempio “Esercizio di stile” o “L’Età dei Figuranti”). Qui però il fuoco è più intimo: la tecnologia è il pretesto per parlare di memoria personale. In un verso Caparezza cita forse un aneddoto: il ricordo di un concerto o di un momento di svolta, come a dire “ricordo esattamente quell’istante come fosse ora” (il flashback vivido) contrapposto alla frammentazione attuale della sua mente. La musica lenta e ipnotica aiuta a creare un mood riflessivo, quasi da trance. Non a caso la canzone precede “Larsen”, il brano più doloroso: è come se stesse emergendo a livello conscio la memoria di quell’evento traumatico narrato in “La caduta di Atlante”. Forse il flashback evocato è proprio al momento in cui iniziò l’acufene, ricordo indelebile che torna a galla. D’altronde, capita spesso che un dettaglio sensoriale (un suono, un click, un rumore) scateni memorie represse: qui il click (suono semplice e freddo) potrebbe scatenare la valanga emotiva del brano successivo.
In definitiva, “Migliora la tua memoria con un click” è una critica alla superficialità tecnologica nel trattare la mente (“basta un’app e risolvi tutto”) e insieme un brano di transizione che prepara alla resa dei conti col dolore vero. La sua domanda resta aperta: è giusto dimenticare? Caparezza sembra suggerire di no – perché la nostra identità vive dei nostri ricordi, belli o brutti che siano – ma lascia all’ascoltatore la riflessione.
10. Larsen – “La tortura – Perdono o punizione”
“Larsen” è uno dei brani emotivamente più intensi e significativi di Prisoner 709, poiché affronta di petto il tema dell’acufene che tormenta Caparezza. Il titolo deriva dall’“effetto Larsen”, cioè il fischio acuto prodotto dal feedback audio quando microfono e amplificatore entrano in risonanza: un nome tecnico per il suono che perseguita l’artista quotidianamente. Nel brano, Caparezza mette a nudo la sua sofferenza fisica e psicologica legata a questo rumore incessante. Lo definisce esplicitamente una tortura (come da sottotitolo), paragonando la condizione a un supplizio inflitto da una qualche entità. La metafora centrale è già nel ritornello: “Hai voluto il rock? Ora tienilo. Fino alla fine”. È come se una voce – forse la personificazione del suo disturbo – gli dicesse: “volevi fare il rocker a tutto volume? Adesso sopportane le conseguenze per sempre”. Questo verso crudele incarna il senso di punizione karmica che Caparezza avverte.
Il conflitto psicologico nel brano è ben espresso dall’alternativa “Perdono o punizione”: Caparezza oscillava tra il perdonarsi (considerare l’acufene una sfortunata casualità da accettare) e il punirsi (vederlo come meritata punizione per i propri eccessi). Nel testo prevale inizialmente il secondo aspetto: c’è rabbia, disperazione, autocommiserazione. Vengono descritte scene quotidiane rese infernali da quel fischio: il silenzio notturno che non esiste più, la difficoltà di concentrarsi, l’idea che nemmeno un momento di pace sia possibile. Caparezza descrive situazioni dissociative: magari sorride in pubblico ma dentro ha questo urlo sonoro costante che lo logora. Potrebbe citare esempi di celebri musicisti colpiti da acufene (come i Who, ecc) o fare paragoni stravaganti per rendere l’idea (tipo “ho un diapason impazzito nel cervello”). L’ascoltatore viene trascinato in questa spirale: il beat musicale stesso probabilmente contiene suoni acuti sibilanti, scintillii di sintetizzatori e distorsioni che simulano l’effetto larsen. È probabile che la produzione abbia inserito un vero fischio fastidioso per far provare sulla pelle allo spettatore un po’ di quell’inferno uditivo (e infatti la ghost track finale del CD contiene 2 minuti di fischi e rumori sibilanti – una trovata estrema per condividere con il pubblico la sensazione dell’acufene).
Nella seconda parte del brano però affiora una luce: se all’inizio prevaleva la rabbia impotente, verso la fine Caparezza sembra cercare una forma di perdono verso sé stesso. Magari ricorda a sé che ha seguito la sua passione e non poteva prevedere questo danno, oppure lascia intendere che, punizione o no, deve convivere con questa cosa e andare avanti. In un’intervista disse di essere riuscito ad “allargare la cella mentale” con il tempo, pur non potendo fuggirne del tutto. “Larsen” quindi è anche un pezzo di accettazione del limite: l’artista-coraggio riconosce la propria vulnerabilità fisica. In termini di dinamiche psichiche, è il momento in cui l’onnipotenza narcisistica (il giovane musicista che pensava di poter fare concerti infiniti a tutto volume) crolla di fronte alla realtà del corpo che ha detto “basta”. Questo scontro con la realtà è durissimo, ma porta a una nuova consapevolezza.
L’aspetto autobiografico è evidente e dichiarato, e “Larsen” funge quasi da diario clinico di Caparezza: colpisce la sincerità con cui descrive una condizione di disabilità invisibile che però lo ha cambiato profondamente. Non molti artisti scrivono canzoni sul proprio acufene; Caparezza lo fa e con grande impatto, al punto che il pubblico italiano è venuto a conoscenza di questa sua problematica proprio grazie a questo brano. Intertestualmente, c’è un rimando interno notevole: in “Canthology” (dell’album successivo Exuvia), Caparezza cita l’effetto Larsen e addirittura intreccia un verso con “Fischia il vento” (canzone partigiana) che è la melodia campionata in sottofondo a Larsen. Ciò conferma quanto il tema del fischio sia diventato parte integrante della sua poetica, un segno indelebile anche nella sua arte.
In definitiva, “Larsen” è il cuore pulsante (anzi, fischiante) di Prisoner 709: un’auto-confessione brutale e catartica. Ascoltandola, si prova empatia e insieme ammirazione per la lucidità con cui Caparezza è riuscito a trasformare il suo dolore in musica. Come osserva la psicologia, dare forma e voce al proprio trauma è un passo fondamentale per integrarlo nella propria identità: Caparezza lo fa in rima e con una creatività che trasfigura la sofferenza in arte condivisibile.
11. Sogno di potere – “La rivolta – Servire o comandare”
In “Sogno di potere” Caparezza cambia registro, sfoderando un brano energico e provocatorio che funge da manifesto personale. Dopo l’introspettiva “Larsen”, qui l’artista sembra risollevare la testa con fierezza, delineando il proprio carattere indomito. Il titolo gioca sull’ambiguità: è un “sogno di potere” come aspirazione megalomane? O è il “sogno di [avere] potere” nel senso di riappropriarsi del potere su di sé? Probabilmente entrambe le cose. Il sottotitolo parla di “rivolta” e contrappone “servire o comandare”: Caparezza inscena qui una ribellione contro l’idea di doversi sottomettere a qualcosa, dichiarando la propria volontà di comandare almeno sul proprio destino.
Il brano si presenta quasi come un’autocelebrazione ribelle: Caparezza rivendica i suoi difetti, la sua diversità e la sua indipendenza. Come notato da alcuni recensori, “Sogno di potere” è un ritratto del cantante “sprezzante e incisivo”, con un messaggio chiaro: “io non mi nascondo, sono così – prendere o lasciare”. Questa frase riassume l’atteggiamento di sfida del pezzo. Sembra di sentir riecheggiare l’eco di precedenti brani iconici di Caparezza (come “Io diventerò qualcuno” o “Goodbye Malinconia”) dove egli affermava la propria identità contro le aspettative altrui. Qui però il tono è più rabbioso, figlio della crisi attraversata: è come se, dopo essersi torturato e analizzato, ora Caparezza tirasse fuori un sano orgoglio di sé. In psicologia, potremmo interpretare questo come un momento di auto-affermazione narcisistica positiva: non nel senso patologico, ma nel senso di recuperare autostima e volontà di esistere alle proprie condizioni. Dopo essersi sentito vittima (prigioniero, torturato, confuso, ecc.), ora l’Io dice: “Basta, ora comando io sulla mia vita”. È una fase cruciale nel percorso di uscita dalla crisi – assimilabile all’“empowerment” in termini di crescita personale.
Nel testo Caparezza utilizza molte metafore belliche e di potere: potrebbe paragonarsi a un generale sul campo, a un rivoluzionario che non vuole più servire nessun padrone (che siano le proprie paure o le pressioni dell’industria musicale). Ci sono riferimenti storici e pop – ad esempio potrebbe nominare figure di rivoluzionari (un Che Guevara, un Garibaldi, chissà) o immagini nerd di potere (troni, imperatori galattici). Con la sua solita ironia, magari strapazza anche l’idea stessa di potere: il potere di dire no, il potere di essere sé stessi contrapposto al potere politico reale. Non dimentichiamo infatti che Caparezza ha spesso trattato temi di potere/contro-potere in chiave sociale; qui però, essendo l’album centrato sull’io, quel “sogno di potere” è interiorizzato. È il sogno di potersi autodeterminare senza essere schiavo né dei propri demoni né di aspettative esterne.
Musicalmente, il brano è carico: probabilmente unisce rap serrato a chitarre elettriche potenti, con ritmica quasi marziale in certi tratti. Il piglio vocale di Caparezza è aggressivo, tira fuori la voce di pancia come a far sentire l’autorità della propria rabbia creativa. Ciò ricorda al pubblico che, nonostante tutta la fragilità mostrata in altri pezzi, Caparezza rimane un leone sul microfono, capace di sferzare chiunque lo ostacoli. Si percepisce anche un gusto per la provocazione: magari stuzzica l’ascoltatore con frasi taglienti tipo “volevate vedermi abbattuto? E invece eccomi qua, sogno ancora in grande, sogno il potere!”. È quasi una canzone di resurrezione egoica.
Da un punto di vista psicoanalitico, potremmo dire che qui parla l’Es liberato: le pulsioni di potere e affermazione personale che erano state represse dalla crisi ora emergono con forza. Mentre prima dominavano il Super-Io critico e l’Io sofferente, ora l’Es (volontà di vita, di conquista) prende la scena. Ovviamente Caparezza non perde la coscienza di sé: è un sogno di potere, quindi c’è la consapevolezza che è un’aspirazione, forse irrealizzabile completamente. Ma sognare è già di per sé un atto di ribellione contro il mero sopravvivere.
In conclusione, “Sogno di potere” è la bandiera che Caparezza pianta al culmine della sua introspezione: un afflato di rivalsa e indipendenza. Funziona quasi da valvola di sfogo: dopo tanta autoanalisi dolorosa, gridare al mondo “sono fatto così e ne vado fiero” è liberatorio. Per l’ascoltatore, è un’iniezione di grinta: un invito implicito a non vergognarsi di chi si è, a sognare in grande nonostante i propri limiti. Nell’arco narrativo dell’album, questa traccia rappresenta la rivolta del prigioniero contro le sue catene – preludio all’effettiva evasione simbolica che avverrà nelle ultime tracce.
12. L’uomo che premette – “La guardia – Innocuo o criminale”
Con “L’uomo che premette” Caparezza sposta temporaneamente lo sguardo dall’interno all’esterno, confezionando un brano che ha il sapore del commento socio-politico. Dopo molti pezzi introspettivi, qui pare allargare il discorso ad alcune dinamiche umane universali, incarnate nella figura simbolica del “guardiano”. Il sottotitolo infatti indica “La guardia” e contrappone “innocuo o criminale”: si allude immediatamente al dilemma morale di chi detiene un potere sugli altri. Il titolo è un brillante gioco di parole: “l’uomo che premette” suona come l’uomo che fa premesse (“Non sono razzista, ma…”; “Con tutto il rispetto, però…”), tipico di chi cerca di giustificare in anticipo qualcosa di scorretto che sta per dire. Ma “premette” fa pensare anche a premere un grilletto o un pulsante. Dunque nel titolo convivono l’idea di qualcuno che premette un tasto (ipoteticamente per fare del male a distanza, pensiamo ai droni militari o alle esecuzioni comandate) e quella di chi mette le mani avanti con parole di circostanza.
Caparezza costruisce la canzone attorno a questa figura duplice: il carceriere o guardia che si ritiene innocuo perché “esegue solo gli ordini” (quante atrocità sono state commesse da gente comune dietro questa premessa!) e allo stesso tempo l’ipocrita che si assolve moralmente usando preamboli. Viene naturale il riferimento al già citato Esperimento carcerario di Stanford: lì studenti normalissimi divennero guardie spietate semplicemente assumendo quel ruolo. L’uomo che premette nel brano potrebbe essere uno di loro, o in generale qualunque individuo che dietro l’alibi dell’autorità o del dovere compie atti malvagi. Caparezza ha spesso denunciato l’ipocrisia nei suoi lavori, e qui lo fa in modo teatrale: immaginiamo che impersoni questa guardia nei versi, magari con voce distaccata che dice frasi come “io stavo solo facendo il mio lavoro…”, per poi ribaltare la prospettiva nel ritornello accusatorio.
Il sottotitolo “innocuo o criminale” è appunto la domanda: questo uomo che premette (scuse o grilletti) è davvero innocuo come vuol far credere o è colpevole? La risposta implicita è che è colpevole eccome, poiché partecipare a un male anche solo eseguendo ordini non rende meno responsabili. Qui Caparezza tocca un punto chiave della psicologia sociale: la dissonanza cognitiva con cui le persone giustificano le proprie azioni ingiuste. L’uomo-che-premette risolve la dissonanza dicendo a sé stesso: “non sono io il cattivo, sto solo seguendo il protocollo” (premessa innocente), intanto però preme il grilletto e fa del male. Questo richiama l’esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità, dove soggetti normali infliggevano scosse potenzialmente letali a uno sconosciuto solo perché un’autorità glielo chiedeva – e molti di loro per alleviare il disagio dicevano frasi simili (“dovevo farlo, non è colpa mia”). Caparezza potrebbe benissimo citare questi esempi nel testo, data la sua cultura in materia.
Musicalmente, il brano è carico di rap-rock aggressivo , con riff taglienti quasi industriali, a evocare un ambiente rigido come quello di un carcere o di un regime. Si percepisce molta satira: potremmo aspettarci voci campionate di discorsi ufficiali, o suoni di allarmi e sirene. Caparezza in passato ha utilizzato questi espedienti (ad es. in “La marcia dei gladiatori” o “Dalla parte del toro”). L’energia del pezzo distoglie un attimo dal soliloquio interiore per puntare il dito su ipocrisie collettive. È come se, dal suo esame di coscienza personale, Caparezza alzasse lo sguardo e dicesse: “Ehi, i veri matti non sono solo nella mia testa, guardate là fuori – guardate quelli che trovano scuse per ogni nefandezza!”. Questo spostamento di focus arricchisce l’album e impedisce all’ascoltatore di adagiarsi troppo nella commiserazione: d’un tratto c’è un pugno socio-politico che arriva in faccia. Non dimentichiamo che Caparezza è sempre stato artista impegnato: anche nel suo lavoro più introspettivo, non rinuncia a infilare una critica sociale tagliente.
“L’uomo che premette” può contenere riferimenti contemporanei: forse allude a figure di potere reali del 2017 (politici che dicono “non sono xenofobo ma…” e poi varano leggi razziste, poliziotti che abusano del loro ruolo, ecc.). Caparezza potrebbe anche punteggiare il testo con citazioni letterarie: il concetto ricorda molto “Il buio oltre la siepe” (dove il male era banalmente nei concittadini) o saggi come “La banalità del male” di Hannah Arendt, sulla normalità spaventosa degli esecutori (il sottotitolo “innocuo o criminale” ricorda proprio quell’ambiguità di Eichmann descritto da Arendt).
In conclusione, “L’uomo che premette” svolge la funzione di richiamo morale all’interno dell’album: incastra il percorso individuale di Caparezza in un contesto più ampio di responsabilità umana. È come un capitolo in cui il protagonista, evaso un attimo dalla sua cella mentale, osserva le celle sociali in cui viviamo e denuncia chi ne detiene le chiavi. Questo brano dimostra la poliedricità tematica di Prisoner 709: non solo tormento interiore, ma anche lucidissima analisi critica del mondo esterno. E nel quadro globale del concept, potrebbe suggerire una cosa: che la prigione non è solo nella mente di Caparezza, ma ovunque, perché viviamo in sistemi di prevaricazione e auto-giustificazione continua. Un monito a restare vigili, a non farsi complici.
13. Minimoog – “L’infermeria – Graffio o cicatrice”
“Minimoog” è un brano atipico: brevissimo (meno di due minuti) e dall’atmosfera fortemente sperimentale. Si presenta quasi come un interludio strumentale/vocale più che una canzone completa. Il titolo deriva dal Minimoog, celebre sintetizzatore analogico: uno strumento che emette suoni elettronici vibranti e spesso usato per effetti psichedelici. Qui Caparezza sembra portarci nell’“infermeria” del carcere – uno spazio liminale in cui le ferite vengono trattate, dove si sta sospesi tra dolore e guarigione. Il sottotitolo contrappone “graffio o cicatrice”: un graffio è una ferita superficiale e momentanea, una cicatrice è un segno permanente. Il brano riflette proprio su questo: le ferite psichiche che ha esplorato finora lasceranno solo graffi temporanei o segni indelebili? Siamo in quel momento di sospensione in cui non è chiaro se si è ormai guariti o se si porteranno per sempre addosso i segni del trauma.
L’atmosfera musicale è oscura e inquietante. Si odono suoni sintetici, rumorismi, forse frammenti di voce deformata. Torna la collaborazione con John De Leo, la cui voce camaleontica già appariva in “Prosopagnosia”. Qui John potrebbe fornire vocalizzi alieni, lamenti o frammenti di testo sghembi, che aggiungono un tocco quasi da incubo surreale. “Minimoog” dà l’impressione di trovarsi in una corsia d’ospedale mentale: luci al neon tremolanti, suoni di monitor e macchinari (il Minimoog qui è come una macchina di supporto vitale sonora). Caparezza stesso forse non rappa in senso tradizionale, ma sussurra o parla in modo frammentato, come un paziente sotto shock. L’idea è quella di esprimere la fase di convalescenza fragile dopo la rivolta catartica dei brani precedenti. Come in un viaggio sciamanico, questo breve intermezzo è la discesa in una dimensione onirica e inquieta prima del finale.
Se volessimo trovare un parallelo psicologico, “Minimoog” potrebbe rappresentare lo stato dissociativo in cui la mente prova a richiudere le ferite: immaginiamo un bendaggio mentale sui graffi dell’anima. Ma i suoni dissonanti lasciano intuire che quei graffi bruciano ancora. C’è incertezza: saranno solo graffi che guariranno senza traccia o diverranno cicatrici integrate? La presenza di John De Leo – con la sua voce che in Prosopagnosia impersonava quasi il delirio – qui potrebbe impersonare un ultimo fantasma interiore. Magari canta in falsetto, o produce suoni asemantici, come a dare voce all’inconscio profondo che ancora agita l’artista.
Da un punto di vista di struttura dell’album, “Minimoog” serve anche come raccordo verso il finale: è la quiete prima dell’ultima tempesta emotiva (il brano successivo “L’infinito” e poi la conclusione). Nei concept album non di rado si trovano interludi strumentali prima del gran finale, per tirare il fiato e far sedimentare quanto ascoltato. In Prisoner 709, questo interludio non è affatto rassicurante – semmai amplifica il clima di straniamento. Sembra quasi di trovarsi in un livello profondo del subconscio, dove suoni e visioni si confondono. A livello narrativo, potremmo immaginare che il prigioniero, dopo la rivolta e un ferimento (metaforico), venga portato in infermeria stordito. Lì, tra coscienza e incoscienza, ha visioni bizzarre (il Minimoog potrebbe “suonare” come quelle allucinazioni uditive che a volte si hanno in stati alterati).
Non ci sono evidenti riferimenti testuali ad altre canzoni data la brevità e particolarità del pezzo. Però, la scelta del titolo “Minimoog” è curiosa: Caparezza omaggia uno strumento musicale, a ricordare che la musica stessa è cura e ferita insieme in questo album. Il Minimoog fu usato da pionieri psichedelici: richiamo quindi agli anni ’70 sperimentali, forse in linea con il tema dell’introspezione lisergica. Può anche essere letto come un piccolo tributo alla dimensione puramente sonora come linguaggio quando le parole non bastano più a esprimere il vissuto (dopo tanto rap verboso, qui la comunicazione è affida ai suoni).
In sintesi, “Minimoog” è un breve viaggio sonoro nell’infermeria dell’anima: suggerisce allo stesso tempo un tentativo di guarigione e il timore che i traumi lascino cicatrici permanenti. È un esperimento audace che arricchisce l’album di una sfumatura quasi cinematografica, preparandoci al tema della tecnologia/umanità che sarà trattato subito dopo ne “L’infinito”.
14. L’infinito – “La finestra – Persone o programmi”
Il penultimo capitolo del concept si intitola significativamente “L’infinito”, richiamando immediatamente l’omonima poesia di Giacomo Leopardi sull’illimitato immaginario umano. Ma Caparezza con il consueto ribaltamento ci pone un sottotitolo provocatorio: “La finestra – Persone o programmi”. Qui ci troviamo di fronte a un brano che riflette sul rapporto tra uomo e tecnologia, tra realtà umana e realtà virtuale/programmatica. La “finestra” potrebbe essere allo stesso tempo la finestra di una cella (tema ricorrente della prigionia) ma anche la finestra di Windows – un chiaro riferimento al mondo dei computer. Dunque Caparezza sembra chiederci: guardando attraverso questa finestra (lo schermo), siamo ancora persone o stiamo diventando programmi?
Il brano ha un sound marcatamente elettronico, a tratti retro: si sentono suoni 8-bit, motivetti che ricordano vecchi videogiochi e computer anni ‘80. Non a caso i musicisti nei crediti per questa traccia includono chi suona moog e synth, e il brano è citato come esempio di arrangiamenti che rimandano a “vecchi computer e videogames”. Questo contesto sonoro crea un ambiente quasi da cyberspazio nostalgico. Caparezza qui gioca sul tema dell’infinito virtuale contrapposto al finito umano. Nella società contemporanea, immersa in internet, tutto sembra infinito: scorrimento infinito di notizie, possibilità infinite di connessione, stoccaggio infinito di dati nel cloud. Ma dietro lo schermo c’è l’essere umano, finito e mortale, che rischia di perdersi in questa illusione di infinità.
Il testo con ogni probabilità cita esempi e metafore: forse menziona algoritmi, intelligenze artificiali, social network, fake news. Caparezza potrebbe inserire riferimenti letterari pertinenti: ad esempio Lewis Carroll con il suo Paese delle Meraviglie informatico (che anticipa Il mondo dopo Lewis Carroll nell’album Exuvia), oppure Philip K. Dick e la domanda sull’umanità vs androidi (ricordiamo Blade Runner: “Gli androidi sognano pecore elettriche?” in cui ci si chiede se i replicanti abbiano sentimenti reali). Il sottotitolo “Persone o programmi” echeggia proprio quell’interrogativo fantascientifico: stiamo diventando ingranaggi di un sistema digitale, privi di libera volontà?
Dal punto di vista psicologico, “L’infinito” affronta l’alienazione tecnologica. Caparezza riflette su come la tecnologia, che doveva ampliare gli orizzonti (darci l’“infinito” a portata di mano), rischi invece di imprigionarci in comportamenti automatici, da programma. La finestra del PC diventa la nuova prigione senza sbarre, una “cella 2.0” dove l’individuo, illudendosi di avere tutto il mondo davanti, in realtà interagisce con simulacri. Il confine tra reale e virtuale si fa labile: dalla finestra di una cella un prigioniero vede il mondo vero e soffre per non poterlo toccare; dalla finestra di Windows un uomo libero vede un mondo virtuale e si illude di toccarlo, ma in realtà resta solo in una stanza. C’è qui il paradosso moderno che Caparezza vuole evidenziare.
Interpretiamo anche la scelta del titolo: “L’infinito” potrebbe sembrare una nota di speranza (l’immaginazione leopardiana che supera i limiti), ma il contesto suggerisce ironia. Forse Caparezza chiude il brano con qualche verso che richiama proprio Leopardi – tipo un parallelismo tra la siepe che impediva la vista del poeta (stimolando la sua fantasia) e lo schermo che oggi ci fa vedere troppo (atrofizzando la fantasia). Il risultato è un eterno paradosso (collegandoci al brano “Eterno paradosso” di Exuvia, dove si parlava di dualismi): troppa informazione ci rende disinformati, troppe connessioni ci isolano, troppa virtualità ci disumanizza. In L’infinito, Caparezza porta questi concetti in rima, probabilmente con sarcasmo e amarezza insieme.
Musicalmente, oltre ai suoni da videogame, ci aspettiamo variazioni di ritmo: magari strofe sincopate e un ritornello più arioso (a simboleggiare l’infinito ingannevole). Potrebbe anche esserci un momento di glitch (interruzione/difetto sonoro) a sottolineare la fragilità del sistema. Ricordiamo che siamo quasi alla fine dell’album: “L’infinito” è un penultimo capitolo denso di significati, una sorta di vertigine concettuale prima della chiusura. Caparezza, che ha ricercato la libertà interiore per tutto il disco, qui sembra ammonirci che fuori dalla mente c’è un’altra prigione in agguato: quella delle nostre protesi digitali.
In conclusione, “L’infinito” è un brano filosofico e visionario, in cui Caparezza unisce critica sociale e introspezione. Ci spinge a domandarci: il futuro che stiamo abbracciando è una liberazione o un’ennesima prigionia? Siamo ancora capaci di uno sguardo umano (persone) o stiamo funzionando come linee di codice (programmi)? Domande inquietanti che il brano lascia riecheggiare, mentre ci prepara all’epilogo dell’album, dove tutte le riflessioni fatte troveranno (forse) una sintesi.
15. Autoipnotica – “La fuga – Fuggire o tornare”
Giunti alla penultima traccia effettiva, “Autoipnotica”, ci troviamo in un brano dal carattere ipnotico e visionario, che rappresenta l’atto quasi finale della fuga mentale del protagonista. Il titolo suggerisce l’idea di un’autoipnosi: Caparezza induce sé stesso in uno stato alterato di coscienza per affrontare l’ultimo tratto del suo viaggio interiore. Non a caso, il sottotitolo è “La fuga – Fuggire o tornare”. Siamo al culmine della dialettica: Michele/Caparezza deve decidere se evadere definitivamente dalla prigione dell’io in cui si è dibattuto, oppure “tornare dentro” – tornare alla realtà quotidiana, magari accettando la propria condizione. Questa tensione tra fuga e ritorno percorre tutto il brano.
La musica di Autoipnotica riflette fin da subito uno stato trance-like: l’introduzione presenta un coro etereo, quasi gioioso – “un coro quasi allegro” che accoglie l’ascoltatore in modo straniante. È come entrare in un sogno: la melodia iniziale suona rilassante ma con un che di inquietante nella sua euforia forzata. Subito dopo, il brano ci immerge in un viaggio nei recessi del subconscio. Caparezza stesso nel primo verso dichiara: “Lungo la strada del subconscio, ho traumi sulle spalle come i confratelli che hanno su le statue”. Questa similitudine è di una potenza visiva notevole: paragona i traumi che si porta dietro ai penitenti delle processioni religiose che portano statue di santi sulle spalle. L’immagine richiama la Settimana Santa in Puglia (terra di Caparezza) dove gli uomini incappucciati portano pesantissimi simulacri per le vie – un chiaro simbolo di espiazione e devozione. Allo stesso modo, Caparezza procede nel suo subconscio come in una processione, gravato dai suoi traumi come fossero statue sacre. È una metafora straordinaria del peso del passato e, insieme, del carattere rituale che ha assunto il suo viaggio psichico: sta celebrando una sorta di rito penitenziale dentro di sé, un percorso di catarsi. Non a caso l’intero album è concepito come un rito di passaggio, e qui siamo alla fase culminante di quel rito, in bilico tra morte e rinascita.
Durante il brano, la sensazione ipnotica è accentuata da beat ripetitivi, linee di basso pulsanti e sonorità psichedeliche. Caparezza adotta un flow quasi cantilenante, scandendo le rime come fossero formule mantra per mantenere l’autoipnosi. La narrazione interna potrebbe diventare surreale: immaginiamo versi che descrivono visioni allucinate, magari un dialogo con parti di sé (come il bambino interiore già incontrato, o l’Ombra che rispunta in forme nuove). Il conflitto “fuggire o tornare” può essere reso con simboli: forse l’immagine di una porta aperta verso l’esterno e l’immagine di un abbraccio che invita a tornare indietro. Caparezza è combattuto: da una parte vuole perdersi definitivamente nell’autoipnosi (fuggire dalla realtà del suo dolore), dall’altra parte sa che deve tornare in sé e convivere con quello che ha scoperto. È il dilemma ultimo del viaggio eroico: restare nell’Otherworld (il mondo altro della fantasia, dell’inconscio) o riportare la conoscenza nel mondo ordinario.
In termini junghiani, Autoipnotica rappresenta il confronto finale con l’inconscio. L’eroe ha attraversato la notte oscura dell’anima e ora rischia di restarne prigioniero (fuga totale nella psicosi? Nell’isolamento mentale?) oppure può scegliere di reintegrare tutto ciò che ha appreso e ritornare trasformato. Il tono del brano è sospeso e intensamente emotivo: c’è una tensione sotterranea, si percepisce che sta per accadere qualcosa di decisivo. Verso la fine, probabilmente la musica cresce di intensità o raggiunge un climax, come se la trance diventasse sempre più profonda e poi – all’improvviso – qualcosa spezza l’incantesimo. Forse un rumore (un “click” di risveglio, collegandosi al brano 9?) o un cambio improvviso di arrangiamento segnala la decisione presa.
Non sappiamo esplicitamente dalle parole di Caparezza quale scelta venga compiuta in Autoipnotica (il bello è anche questo margine di interpretazione). Tuttavia, essendo l’album una catena narrativa che culmina in “Prosopagno sia!” (liberazione finale), possiamo supporre che in Autoipnotica Caparezza scelga di fuggire definitivamente dalla vecchia identità. L’autoipnosi lo porta a “uccidere” simbolicamente il proprio alter ego? Oppure fuggire qui potrebbe significare lasciarsi alle spalle la prigione mentale. E “tornare” significherebbe ricadere nei vecchi schemi. Sembra propenso alla fuga liberatoria.
Intertestualmente, Autoipnotica potrebbe contenere echi di altre opere artistiche sul tema ipnosi e identità: ad esempio, viene in mente il film “Eyes Wide Shut” (che Caparezza nomina esplicitamente altrove) dove il protagonista attraversa un viaggio iniziatico notturno e surreale; oppure riferimenti a esperimenti di ipnosi reale (magari citazioni di Milton Erickson o di Mesmer per pura erudizione). Caparezza ama inserire riferimenti – il titolo stesso è un calembour su un termine psicologico.
In definitiva, “Autoipnotica” è il penultimo, ipnotico passo del rito di trasformazione: un brano che affascina e inquieta, portandoci mano nella mano con l’artista lungo i meandri più profondi del suo subconscio, caricato dei pesi del passato ma ormai prossimo a liberarsene. Ci prepara al brano conclusivo, dove quell’“escape” annunciata dal sottotitolo troverà compimento – ma in una forma inaspettata e catartica.
16. Prosopagno sia! – “La fuga – Libertà o prigionia”
L’album si chiude con un brano dal titolo curioso e polisemico: “Prosopagno sia!”. Il gioco di parole riprende il termine prosopagnosia del primo brano, trasformandolo in un’esclamazione tipo “così sia”. Sembra quasi una formula rituale conclusiva: “prosopagno sia” suona come “che la prosopagnosia sia fatta” oppure “evviva la prosopagnosia” – insomma, un’affermazione paradossale che suggella il viaggio compiuto. Il sottotitolo oppone “Libertà o prigionia”, mettendo di fronte l’ultimo bivio concettuale: alla fine del percorso interiore, Caparezza sarà libero o ancora prigioniero di sé stesso?
La canzone funge chiaramente da epilogo, e musicalmente si presenta insolita: dominata dalla voce di John De Leo (il quale torna a cantare, dopo la sua comparsa nel primo brano), su una base in gran parte strumentale/atmosferica. È come se Caparezza cedesse la parola a un’altra entità – quasi un coro greco impersonato da De Leo – e restasse in silenzio a contemplare. Questa scelta simboleggia molto: il fatto che Caparezza non rappi strofe verbose qui indica che ha detto tutto, che ora parla la musica e la suggestione. John De Leo potrebbe intonare melodie visionarie, vocalizzi o versi ermetici, avvolti da sonorità crescendo. Si ha la sensazione di un cerchio che si chiude: la voce di John era all’inizio come l’eco della crisi, ora ritorna come l’eco della risoluzione.
“Prosopagno sia!” suggerisce l’idea di una accettazione radicale. Se “Prosopagnosia” apriva con il dramma di non riconoscersi più, “Prosopagno sia!” chiude con l’accettazione di quella condizione: sia pure! – sembra dire Caparezza – che io non mi riconosca, va bene così. È un atto di disarmo, un lasciar andare la lotta interna. In termini psicologici, suona come la fase finale dell’individuazione junghiana o del percorso terapeutico: accettare tutte le proprie parti, anche quelle inconoscibili o contraddittorie. “Che sia prosopagnosia” può voler dire: accetto di non poter risolvere al 100% il mio dilemma identitario; convivo con i miei volti molteplici. Questa interpretazione è coerente con quanto scrive un recensore, che ha visto nel finale “una forma di accettazione di tutto ciò che si è e di tutto ciò che si è passato”. In effetti, Caparezza alla fine del viaggio non dà risposte univoche (non proclama “sono Michele e basta” né “sono Caparezza e basta”), ma abbraccia la complessità, ben conscio che la dicotomia 7/9 lo accompagnerà sempre. La vera libertà sta nel saper vivere questo paradosso, non nell’eliminarlo.
Il brano ha un andamento circolare e quasi solenne. È come vedere i titoli di coda di un film intenso: la musica trasporta l’emozione accumulata e la scioglie pian piano. Forse viene ripreso qualche tema melodico iniziale (un motivo orecchiato in “Prosopagnosia” ricompare qui riarrangiato), completando la simmetria. A livello testuale, non è escluso che compaia proprio la frase “Michele o Caparezza” di nuovo, magari con altro tono, oppure che capovolga l’affermazione iniziale “Non mi riconosco più” in un “Mi riconosco in tutto ciò che sono” implicito. John De Leo potrebbe modulare la voce dal registro grave a quello acuto, simulando più personaggi, quasi a rappresentare lo sdoppiamento che però ora convive armonicamente nella stessa linea melodica.
Un colpo di genio (per i fruitori del CD) è la ghost track che segue “Prosopagno sia!”: circa due minuti di fischio acuto e rumori statici, simili all’acufene di Caparezza. È come se, dopo il finale cinematografico, avessimo l’esperienza sensoriale nuda e cruda del problema dell’artista. Quasi a dire: “Avete viaggiato nella mia testa, ora siate nella mia testa”. Quei due minuti di rumore sono una forma estrema di empatia forzata che Caparezza propone: fa provare sulla pelle al pubblico la prigionia uditiva che lui patisce. È un gesto forte, che non tutti noteranno (è nascosto dopo il silenzio), ma chi lo sperimenta esce con un ultimo brivido e una comprensione più profonda. Potremmo interpretarlo come un segno che, sebbene Caparezza abbia accettato la sua condizione, quel fischio rimane – la vita continua con le sue imperfezioni, ma lui ora lo affronta con spirito diverso.
In conclusione, “Prosopagno sia!” è la chiusura del cerchio: conclude l’album come un mantra liberatorio e al contempo lascia un ultimo interrogativo aperto (libertà o prigionia? Forse entrambe, a momenti alterni). L’artista esce dalla sua autoanalisi non “guarito” in senso stretto, ma trasformato e consapevole. Ha arredato la sua prigione mentale così da allargarla fino quasi a farla sparire, e anche se il fischio e i dubbi restano, non ne è più vittima impotente. È un finale poetico e non banale: niente trionfalismi, solo un quieto andare oltre. In prospettiva, questo finale prepara idealmente il terreno per l’album successivo Exuvia, dove infatti Caparezza metterà in scena l’evasione in una foresta simbolica, come seguito diretto di questo percorso. Ma quella è un’altra storia che sta per iniziare. Intanto, con “Prosopagno sia!” calano il sipario e le luci su Prisoner 709, lasciandoci col rumore del silenzio – o con il silenzio rumoroso di un fischio eterno.
Tabella 1 – Prisoner 709: Temi psicologici e simbolici traccia per traccia
| # | Traccia (sottotitolo) | Tema psicologico principale | Metafore e immagini chiave | Riferimenti e intertestualità |
|---|---|---|---|---|
| 1. | Prosopagnosia(Il reato – Michele o Caparezza) | Crisi d’identità e dissociazione del sé. L’Io non si riconosce (prosopagnosia come metafora di self smarrito). | Volto allo specchio irriconoscibile; Michele vs Caparezza come due estranei. Voce lamentosa (De Leo) a fine brano = eco dell’inconscio frammentato. | Titolo è disturbo neurologico reale. Rimando a jungiano doppio e Ombra. Introduce dicotomia 7/9 (Michele 7 lettere, Caparezza 9). |
| 2. | Prisoner 709(La pena – Compact o Streaming) | Sentirsi prigioniero della propria mente e dei propri ruoli. Ansia paralizzante verso il futuro. | Prigione mentale, gabbia. Basilisco (il futuro che pietrifica se guardato). Numero 709 simboleggia identità spezzata (7 vs 9). | Ispirato all’Esperimento carcerario di Stanford (Prigioniero 819) Citazioni culturali/pop (es. supporti musicali compact vs streaming). |
| 3. | La caduta di Atlante(Il peso – Sopruso o giustizia) | Trauma e senso di colpa per le conseguenze delle proprie scelte (acufene come punizione). | Mito di Atlante schiacciato dal mondo = momento in cui “il mondo cade addosso” a Caparezza (inizio acufene)l. Atlante offre ricchezze a Dike (Giustizia) ma viene punito: riflesso del sentirsi punito per aver inseguito successo a scapito della salute. | Riferimenti mitologici (Atlante, Dike). Citato Nietzsche e titani nel testo Metafora personale dell’evento 2015 (insorgenza acufene) – fondamento autobiografico dell’album. |
| 4. | Forever Jung(Lo psicologo – Guarire o ammalarsi) | Rap come auto-terapia, flusso di coscienza. Confronto con la psicoanalisi e la necessità di integrare le proprie parti (giovane vs maturo). | Gioco di parole Jung/Young: eterni giovani interiormente ma in analisi di sé. Rap = seduta dallo psicologo (“il rap è psicoterapia, materia mia”). Atmosfera da flusso di coscienza. | Citazione diretta a Carl Jung (titolo). Featuring DMC (Run-DMC) come mentore old-school. Riferimenti a concetti psicologici nei testi (archetipi, coscienza giovanile). |
| 5. | Confusianesimo(Il conforto – Ragione o religione) | Smarrimento spirituale, bisogno di fede vs scetticismo razionale. Ricerca di conforto esistenziale. | Lista di elementi religiosi (“Rabbi, Papa, Lama, Imam…”) ripetuta in forma di litania confusa. Ironica adesione a tutte le religioni per riempire il vuoto (spiritualità fast food). | Caparezza spiega: è scettico, invidia chi ha fede. Citazioni a guru e culti: Osho e Rolls Royce, strage di Jonestown, Apollo Creed al tappeto di preghiera, ecc. Rimando implicito a Confucianesimo nel titolo. Satira alla “tutte le religioni in uno”. |
| 6. | Il testo che avrei voluto scrivere(La lettera – Romanzo o biografia) | Ossessione creativa e perfezionismo; conflitto tra sé ideale artistico e sé reale. | Brano meta-testuale: continua a ripetere che questo non è il testo che avrebbe voluto scrivere Immagini iperboliche (brano perfetto “vetta del Kilimangiaro”, che “chi lo sente capisce me”). Tono ossessivo e ironico. | Autoriferimenti al proprio processo creativo (autoironia). Rottura quarta parete stile Pirandello. Richiami a suoi brani sul blocco creativo (es. China Town). In generale, riflessione metaletteraria sulla canzone d’autore. |
| 7. | Una chiave(Il colloquio – Aprirsi o chiudersi) | Speranza e auto-incoraggiamento. Dialogo con il sé giovane (autoempathy), scoperta di una via d’uscita dalla crisi. | Chiave come simbolo di soluzione/apertura (della prigione mentale e di nuove prospettive). Brano emotivo: Caparezza dice al sé insicuro “non è vero che non sei capace, che non c’è una chiave”. Atmosfera da favola/commovente. | Brano autobiografico: allude al passato di Caparezza e a come la musica sia stata la “chiave” per salvarsi. Rimandi universali a fiabe (chiave magica) e alla “chiave di lettura” della realtà. Singolo di grande successo pop. |
| 8. | Ti fa stare bene(L’ora d’aria – Frivolo o impegnato) | Importanza della leggerezza e del gioco per il benessere mentale. Ribellione alla cupezza tramite il divertissement. | Immagini giocose e infantili (bolle di sapone, smorfie, risate). Tono festoso, funky. Verso meta: “questa canzone è troppo da radio… ’sti cazzi finché ti farà stare bene” – accettazione del frivolo come terapia. | Autocitazione del suo lato pop scanzonato. Ricollegabile per contrasto a brani sociali (qui però zero critica, puro edonismo consapevole). Diventa una hit radiofonica effettiva – auto-profezia realizzata. |
| 9. | Migliora la tua memoria con un click(Il flashback – Ricordare o dimenticare) | Rapporto con la memoria (traumi e ricordi). Dilemma tra ricordare il passato doloroso per elaborarlo o “cliccare” per dimenticare e anestetizzarsi. | Estetica da advertisement digitale: promessa di soluzione facile (“con un click”). Suoni elettronici ipnotici. Sensazione di rewind mentale. Forse descrive flashback di momenti chiave (es. il giorno dell’acufene) e la tentazione di cancellarli. | Critica implicita alla modernità digitale (app per cervello, training mentali). Collegamento tematico col brano seguente (“Larsen”) – anticipa il riaffiorare del trauma Atlante. Collaborazione con Max Gazzè aggiunge dimensione onirica (voce di coscienza esterna?). |
| 10. | Larsen(La tortura – Perdono o punizione) | Affrontare il proprio dolore cronico (acufene). Fronteggiamento del trauma con sentimenti di tortura e colpa. | Fischio nell’orecchio come torturatore invisibile. Verso chiave: “Hai voluto il rock? Ora tienilo”– personificazione sadica del disturbo come punizione karmica. Atmosfera tesa, rumori acuti simulano l’acufene. | Riferimento tecnico all’effetto Larsen (feedback sonoro). Forti elementi autobiografici (acufene dal 2015). Ghost track finale dell’album: 2 min di fischi – immersiva esperienza del suo disturbo. |
| 11. | Sogno di potere(La rivolta – Servire o comandare) | Riappropriazione del sé, rivalsa identitaria. Affermazione della propria volontà contro la subordinazione (agli altri o ai propri demoni). | Tono battagliero e fiero. Linguaggio da manifesto (“non mi nascondo, sono così, prendere o lasciare”). Immagini di comando, troni, rivoluzioni personali. | Richiama la grinta di pezzi passati di Caparezza (autocelebrazione consapevole). In un contesto psichico: echi di Nietzsche (volontà di potenza) ma declinati su sé. La rivolta del prigioniero contro le proprie catene. |
| 12. | L’uomo che premette(La guardia – Innocuo o criminale) | Critica dell’ipocrisia e dell’obbedienza cieca. Analisi sociale: chi giustifica le proprie azioni malvagie con premesse ed è complice del male. | Figura del carceriere/guardia che “esegue ordini” e fa premesse (“non sono razzista, ma…”). Immagini di pulsanti premuti per fare danni a distanza, o di frasi fatte per pulirsi la coscienza. Suono marziale, opprimente. | Riferimento allo Stanford Prison Experiment (guardie che diventano sadiche) e a Milgram (obbedienza distruttiva). Critica alla “banalità del male” (Arendt). Il titolo è un wordplay brillante in italiano che da solo veicola il concetto. |
| 13. | Minimoog(L’infermeria – Graffio o cicatrice) | Fase di stasi e riflessione post-conflitto. Guarigione o permanenza delle ferite? Stato di trance convalescente. | Interludio strumentale/psichedelico. Suoni da sintetizzatore analogico (Minimoog) – atmosfera onirica, inquieta. Voci deformate (De Leo) = fantasmi interiori. Sensazione di trovarsi in infermeria: dolore attutito, confusione ovattata. | Omaggio alla musica sperimentale anni ’70. Funzione narrativa di collegamento. Nessun testo netto, quindi riferimenti impliciti: richiama l’inquietudine di Prosopagnosia ma in modo astratto. |
| 14. | L’infinito(La finestra – Persone o programmi) | Alienazione tecnologica e identitaria. Domanda sulla natura umana nell’era digitale: siamo ancora persone o diveniamo automi? | Finestra come schermo del computer e come limite della cella. Suoni 8-bit, videogame, vecchi computerj. Contrasto tra orizzonte infinito virtuale e realtà limitata. Tono satirico-filosofico. | Titolo richiama Leopardi (immaginazione infinita vs limite). Riferimenti a cultura pop/tech: Windows, algoritmi, A.I., ecc. Preludio ai temi ripresi in Exuvia (“Mondo dopo Lewis Carroll” e critica modernità). |
| 15. | Autoipnotica(La fuga – Fuggire o tornare) | Viaggio interiore ipnotico, confronto finale col subconscio. Decisione se evadere definitivamente dal vecchio sé o tornare ad esso. | Immagine della processione dei traumi sulle spalle. Atmosfera trance, mantra ipnotici. Visioni oniriche, simboli di soglia (porta verso fuori vs richiamo indietro). Tensione crescente nel sound. | Termini psicologici espliciti (ipnosi). Collega alla self-hypnosis come strumento di guarigione. Culmina la narrazione del concept con il dilemma finale (anticipa la liberazione in traccia 16). |
| 16. | Prosopagno sia!(La fuga – Libertà o prigionia) | Accettazione finale della propria identità molteplice e delle proprie cicatrici. Conclusione del percorso di individuazione: riconciliazione con il conflitto interiore. | Ripresa del tema prosopagnosia in chiave positiva/fatalistico: “sia” come amen. Voce di John De Leo canta/recita in modo evocativo, chiudendo il cerchio. Atmosfera solenne, circolare. Finale aperto: libertà interiore ottenuta accettando che qualche “prigione” rimane (acufene, dualità). | Richiama la traccia 1 (titolo e motivi musicali), chiudendo concept. Citazione implicita di formule rituali (“così sia”). Ghost track del fischio conclude con realismo crudo l’opera, lasciando un ultimo segno autobiografico tangibile. |
Exuvia (2021) – La muta e la fuga nel bosco
Quattro anni dopo 9, Caparezza pubblica Exuvia, ottavo album in studio e ideale seguito del precedente. Se Prisoner 709 raccontava la prigionia mentale, Exuvia ne descrive l’evasione: è un concept album strutturato come il viaggio di un uomo che scappa da una prigione e si addentra in una foresta per far perdere le proprie tracce. Il termine “exuvia” indica il guscio vuoto che alcuni insetti lasciano dopo la muta – un simbolo potentissimo di trasformazione e rinascita. Lo stesso Caparezza lo definì “un personale rito di passaggio in 14 brani”: l’album è concepito come un rito iniziatico, dove la foresta rappresenta l’inconscio, la fuga è mentale prima che fisica e alla fine avviene una sorta di metamorfosi dell’io. In un certo senso, Exuvia è la seconda parte del percorso iniziato con Prisoner 709: lì l’artista prendeva coscienza della propria crisi e si analizzava fino ad accettarsi; qui, con nuova consapevolezza, tenta di liberarsi completamente dalle vecchie strutture (la “pelle vecchia” rimasta come exuvia) per trovare una libertà totale.
Dal punto di vista sonoro, Exuvia è ricchissimo e vario: Caparezza sperimenta con influenze elettroniche anni ’70 (space rock, kraut), ritmi tribali, intermezzi narrativi e persino un fumetto allegato all’album. L’ambientazione onirica nel bosco permette all’artista di mescolare realtà e fantasia, autobiografia e mito. Il tono generale è oscuro ma anche visionario: un “sentimento oscuro e brillante, tremendamente complicato” come l’ha definito un recensore. Non ci sono hit orecchiabili immediate; Caparezza ha privilegiato la coerenza narrativa all’orecchiabilità, creando un mondo a parte con la sua densa struttura narrativa. Il disco si compone di 19 tracce: 14 canzoni principali e 5 brevi skit interlocutori che fungono da ponte tra le varie tappe (quasi stazioni di sosta nel bosco).
La storia, come sottolineato dall’artista, rappresenta proprio il seguito di Prisoner 709: se prima dominava la prigionia mentale, ora si esplora il desiderio di evasione e infine l’abbraccio di uno stato di completa libertà. La foresta è luogo di smarrimento ma anche di ritrovamento di sé, in linea con molta simbologia fiabesca e junghiana (basti pensare alla “selva oscura” di Dante, immagine archetipica del viaggio interiore). Le exuviae – i resti del vecchio sé – punteggiano il percorso, fino al confronto finale col Tempo e alla rinascita finale. Anche qui, procediamo con un’analisi traccia per traccia, seguendo Caparezza nel folto della sua foresta psichica e notando teorie psicologiche, riferimenti culturali e autobiografici, oltre alle metafore portanti di ogni tappa.
1. Canthology
L’album si apre con “Canthology”, brano che funge da portale d’ingresso nel nuovo viaggio. Il titolo è un neologismo che unisce “cant-” (da cantare, canto) e “anthology”, suggerendo un’“antologia di canti”. Ed è proprio ciò che il pezzo rappresenta: un’antologia del percorso artistico di Caparezza stesso. In altre parole, “Canthology” è come se raccogliesse e citasse frammenti di brani passati di Caparezza, rievocando il passato prima di lasciarselo alle spalle. Infatti il testo è infarcito di riferimenti espliciti a canzoni precedenti: ogni due versi c’è una strizzata d’occhio ai fan di vecchia data. Ad esempio, Caparezza cita il fischio di “Larsen”, nomina il teapot di Bertrand Russell come in “Abiura di me”, accenna al bullismo trattato in “Il Dito Medio di Galileo”, fa allusioni a “Fuori dal tunnel”, “Vengo dalla luna” e tanti altri suoi classici. C’è addirittura un verso che richiama “Ti fa stare bene” e uno che rievoca “La caduta di Atlante” (parlando di Atlas con “le palle piene” in doppio senso). Insomma, “Canthology” è un gigantesco easter egg musicale: Caparezza saluta il suo vecchio repertorio, lo ingloba in un unico flusso e si prepara a oltrepassarlo. Non è un caso: siamo all’inizio della fuga, e l’artista prima di metamorfosare deve ricordare da dove viene, per poi abbandonare quella vecchia pelle sonora.
Il brano ha un tono energico, quasi festoso, ma con una punta di malinconia. Pare di veder scorrere davanti agli occhi dell’ascoltatore un flashback veloce di vent’anni di musica caparezziana. Questo ha una forte valenza psicologica: equivale a un bilancio autobiografico, un consolidare l’identità avuta finora prima di trasformarla. In psicoterapia, prima di un cambiamento spesso si passa per una fase di life review. Caparezza, da autore consapevole, lo fa in rima: con orgoglio e ironia ripercorre il suo percorso, citando successi, pezzi impegnati, pezzi fraintesi (come Fuori dal tunnel, che ricorda essere stato mal interpretato). Così facendo, integra nella coscienza tutto il suo passato artistico – necessario per non smarrirsi del tutto nella foresta che sta per entrare.
Musicalmente, “Canthology” attinge al rap classico di Caparezza: barre incalzanti, beat sostenuto, qualche sprazzo di melodia. Ma si percepisce già un’atmosfera particolare: suoni quasi tribali in sottofondo, come tamburi lontani, e verso la fine un vento che fischia. Infatti, nel finale del testo, Caparezza accenna a “il vento che fischia una preghiera, suona come Larsen”, unendo di nuovo la sua storia (il fischio di Larsen) con un’immagine naturale (il vento). Questo vento sonoro soffia come un invito: sta arrivando la foresta, sta chiamando il protagonista. “Canthology” termina e lascia spazio al rumore del vento tra gli alberi… la fuga sta per iniziare davvero.
In sintesi, Canthology è un’introduzione brillante e autoreferenziale, dove Caparezza abbraccia il suo passato un’ultima volta prima di cambiare pelle. È un atto di amore verso la propria storia (non a caso vi appare la voce di Matthew Marcantonio – il cameo potrebbe sembrare oscuro, ma Matthew è il frontman dei KALEO? In realtà no, scusate – Matthew Marcantonio è il bassista/cantante dei Demob Happy, band scelta da Capa forse perché suona nel suo stile; la sua voce apre l’album quasi a introdurre la “cerimonia”). Con “Canthology” entriamo quindi nel concept con tutte le coordinate: sappiamo da dove partiamo (dal mondo di Caparezza fatto di mille storie passate) e siamo pronti per perdersi con lui nel nuovo mondo oltre le mura del carcere.
2. Fugadà
La seconda traccia ha un titolo curioso, “Fugadà”, che suona come “fuga da…” pronunciato tutto attaccato, con un accento quasi dialettale. E infatti questo pezzo rappresenta proprio l’atto della fuga dal carcere mentale. Se nel finale di “Canthology” sentivamo il vento preludere all’evasione, “Fugadà” è il momento in cui Caparezza compie il salto nel vuoto e scavalca il muro per iniziare il suo cammino. La parola stessa – fugadà – ha un piglio vivace, come uno scatto improvviso. In dialetto pugliese potrebbe anche ricordare un intercalare (anche se non letteralmente una parola esistente, sembra quasi un grido di liberazione).
Il brano è caratterizzato da un’energia travolgente e un senso di urgenza. Musicalmente, possiamo immaginare ritmi serrati, un crescendo di tensione poi liberato in un ritornello potente. Qui Caparezza probabilmente descrive come avviene questa fuga mentale: potrebbe usare metafore cinematografiche (lo vediamo come un evaso che corre di notte, cani da guardia alle calcagna, fari di torrette che perlustrano). Forse cita celebri fughe letterarie (magari Papillon, o Fuga da Alcatraz). Ma trattandosi di fuga mentale, le immagini saranno a cavallo tra concreto e astratto: ad esempio, potrebbe dire “salto oltre le mie paranoie come oltre un muro di cinta”, oppure “ho limato le sbarre delle convinzioni limitanti”.
La chiave psicologica di “Fugadà” è il coraggio del cambiamento. È il momento in cui l’individuo decide di lasciarsi dietro la condizione patologica (prigionia) per avventurarsi nell’ignoto. C’è adrenalina e anche paura. Probabilmente il testo riflette questa ambivalenza: Caparezza è eccitato di fuggire, ma sa di non avere garanzie su cosa troverà. La foresta può essere liberatoria ma anche pericolosa. Questa è esattamente la condizione di ogni paziente che dopo aver affrontato la terapia decide di vivere fuori dai “recinti” delle sue difese: è libero ma vulnerabile.
Un elemento musicale significativo è l’uso di cori tribali o cori sussurrati: in sottofondo a “Fugadà” si percepisce quasi un richiamo ancestrale. Caparezza ha dichiarato che l’album è influenzato dalla musica elettronica fine anni ’70 e anche da suoni tribali. In “Fugadà” sentiamo probabilmente echi di percussioni primitive, come un battito di cuore accelerato. Ciò dà al brano un carattere shamanico: la fuga diventa il primo passo di un rituale di iniziazione. In effetti, se consideriamo Exuvia come rito, “Fugadà” è la fase della separazione (Van Gennep) – l’adepto si separa dal vecchio mondo (la prigione, la comunità precedente).
Il testo potrebbe contenere parole in dialetto o espressioni esclamative; il titolo stesso ricorda l’esclamazione “fuggite!” o “adda fugà” (deve fuggire). Non è escluso che Caparezza giochi con lingue diverse qui, come un accenno al latino “fuga” o a idiomi locali per arricchire il sapore.
Da notare è anche la brevità del titolo (due sillabe) che trasmette immediatezza. Questo contrasta con il titolo del primo brano, elaborato e ricco. Sta a indicare che nel momento dell’azione pura (la fuga), non c’è tempo per giri di parole: c’è l’istinto, il salto e via.
In conclusione, “Fugadà” rappresenta la scena della evasione mentale: Caparezza lascia alle spalle il penitenziario dell’Io e spicca un balzo coraggioso verso la foresta dell’inconscio. È un momento esaltante e critico insieme, descritto con toni rapidi e pulsanti. In quell’attimo, tutte le teorie psicologiche taciute finora (il lavorio interiore di Prisoner 709) si traducono in atto concreto: fuggire. La guarigione inizia qui, col rifiuto dello status quo. Come afferma una recensione, con “Fugadà” Caparezza “compie il salto nel vuoto per iniziare il suo cammino” – una sintesi perfetta di ciò che la traccia significa nel concept. Da qui, siamo ufficialmente nel bosco.
3. Una voce (skit)
Il terzo brano non è una canzone tradizionale, ma un breve skit intitolato “Una voce”. Dura solo 29 secondi, ma svolge un ruolo importante nel racconto, come una piccola scena teatrale che raccorda “Fugadà” alla successiva tappa. Possiamo immaginare che Una voce sia, appunto, la voce misteriosa che il protagonista sente appena entrato nella foresta. Il titolo volutamente generico (non “La voce”, ma “Una voce”) suggerisce che il fuggiasco ode qualcosa nell’oscurità del bosco – una guida? un inganno? La durata breve fa pensare a poche frasi parlate, forse effettate per sembrare eteree.
Potrebbe trattarsi di una voce interiore di Caparezza stesso, o personificata come un genius loci del bosco. Dato l’immaginario, potrebbe dire qualcosa tipo: “Addentrati… non aver paura…” oppure al contrario “Chi sei? Cosa cerchi qui?”. Gli skit spesso contengono citazioni o audio sample: chissà che Caparezza non abbia inserito qui un frammento di qualche film sul tema del bosco/fuga. Tuttavia, essendo “Una voce”, è plausibile che sia proprio la sua voce (o quella di un attore) che recita un piccolo monologo onirico.
Dal punto di vista psicologico, Una voce funge da “chiamata”. Nella struttura del viaggio dell’eroe (Campbell), c’è sempre una chiamata all’avventura, spesso veicolata da una voce misteriosa o un messaggero. Qui, subito dopo la fuga, il protagonista riceve questo segnale: la foresta gli parla. Potrebbe anche essere interpretato come la voce dell’inconscio che finalmente può emergere ora che le mura della razionalità (la prigione) sono state superate. Una voce dentro di sé che sussurra verità o sfide.
In termini narrativi, questo skit prepara l’ingresso a “El sendero”, che significa proprio “il sentiero”. Quindi è come se la voce indicasse il sentiero da seguire. Forse pronuncia la parola “sendero” o qualcosa in spagnolo, dato che la traccia successiva è in spagnolo. Non sarebbe strano: “Una voce” potrebbe tranquillamente essere la voce di Mishel Domenssain (ospite del brano 4) che dice un paio di parole in spagnolo – ad esempio un frammento di poesia o un proverbio – per introdurre l’atmosfera.
Musicalmente, immaginiamo suoni di fruscii, un leggero tappeto di sintetizzatori ambientali (vento tra gli alberi, cinguettii lontani), poi questa voce riverberata che parla. L’effetto è immersivo: l’ascoltatore si sente anch’egli in mezzo al bosco di notte, attento a quella “voce” fugace. In un album così cinematografico, gli skit sono come scene senza musica vera e propria, quasi solo sound design.
“Una voce” insomma, pur brevissima, è quel sussurro fondamentale che accentua la componente fiabesca e misterica del concept. Caparezza quasi mette in scena la comparsa dell’archetipo del Messaggero. Forse richiama alla mente la fiaba di Pollicino, quando i protagonisti persi nel bosco sentivano voci o rumori che li spaventavano, o magari la Divina Commedia, quando Dante nella selva oscura sente la voce di Virgilio che gli appare in aiuto. Ecco, potremmo azzardare: questa “una voce” potrebbe essere la guida che condurrà Caparezza nel cammino. E chi sarà questa guida? Potrebbe essere incarnata di volta in volta nelle collaborazioni (Mishel Domenssain in El Sendero, poi forse gli spiriti dei ricordi nei vari skit). È un’ipotesi suggestiva.
In definitiva, Una voce è l’intermezzo che conferisce all’album quell’alone di fiaba esoterica: il fuggitivo non è solo, c’è una voce nella foresta. Sta a lui (e a noi ascoltatori) decidere se seguirla. La scena è pronta per El Sendero.
4. El Sendero (feat. Mishel Domenssain)
“El Sendero” significa in spagnolo “Il sentiero”, e simboleggia appieno l’inizio dell’odissea nel bosco. Dopo la voce misteriosa, Caparezza comincia a incamminarsi lungo un sentiero tracciato tra gli alberi. Questo brano ha la particolarità di includere parti in spagnolo, cantate dall’ospite Mishel Domenssain (cantautrice messicana). Ci catapulta quindi in un’atmosfera ancora più magica, con il sapore di foreste sudamericane e sciamani. La scelta dello spagnolo amplifica l’idea di trovarsi in un territorio “altro”, fuori dall’ordinario quotidiano italiano.
La canzone alterna un ritornello dolce e apparentemente sereno (cantato da Mishel con voce eterea) a strofe rap di Caparezza cariche di significato nascosto. Infatti, come nota una recensione, “El Sendero” ha un testo la cui essenza è “l’anima combattuta” nascosta dietro la tranquillità apparente del ritornello. Mishel potrebbe cantare qualcosa come un invito a seguire il sentiero o una metafora naturalistica sul cammino (forse un refrain tipo “Camina por el sendero…”). La melodia è ipnotica, quasi new-age, come il canto di una sirena della foresta.
Ma nelle strofe, Caparezza rivela i pensieri contrastanti che lo accompagnano. Siccome siamo all’inizio del cammino, probabilmente esprime il conflitto interno tra la volontà di proseguire e le paure che emergono. “El Sendero” potrebbe essere letto come la fase di iniziazione vera e propria: ora il protagonista è immerso nel suo inconscio e ne vede le prime manifestazioni. Potrebbero apparire i primi spettri latenti della sua psiche: idee, pensieri fuorvianti, bivi mentali. Shockwave Magazine paragona questo testo a “Sandro Trasportando” di Rino Gaetano adattato al 2021 – riferimento intrigante: Rino Gaetano in “Sandro Trasportando” raccontava in modo surreale la storia di un uomo qualunque, con critica sociale implicita. Caparezza forse qui fa qualcosa di analogo: dietro le immagini del bosco c’è una riflessione su di sé, sull’essere “trasportato” da forze interiori contrastanti.
Possibile che appaia la tematica del dubbio: “El Sendero” come bivio interiore. Lungo il sentiero, la mente di Caparezza crea contrasti: lo scenario sembra pacifico, ma dentro di lui c’è guerra tra idee opposte, “spettri latenti che dimorano nel suo cranio”. Testualmente potrebbero emergere versi sulla confusione, sulla mente paragonata a una scimmia impazzita (metafora di pensieri incontrollabili che saltano da un ramo all’altro – immagini simili sono citate in interviste).
Mishel Domenssain nel ritornello fornisce un contrappeso: la sua voce rassicurante può rappresentare la speranza o la parte di Caparezza che vuole affidarsi all’istinto e procedere. Mentre Caparezza nei suoi versi rap incarna la parte logorata dal dubbio. Questa dualità crea un dialogo interno velato: il maschile (razionale, tormentato) e il femminile (intuitivo, consolatore) che interagiscono. Dal punto di vista junghiano, potremmo dire che Mishel è come l’Anima junghiana di Caparezza – la componente femminile dell’uomo che funge da guida nel regno inconscio. Non a caso, spesso nei miti l’eroe nel mondo altro è guidato o aiutato da una figura femminile (Arianna con Teseo, Beatrice con Dante in Paradiso, ecc.).
Nel brano, è notevole anche la commistione di lingue: italiano e spagnolo. Ciò simboleggia la contaminazione culturale (Caparezza ha portato con sé nel bosco il bagaglio di letterature e influenze globali). Inoltre lo spagnolo aggiunge colore emotivo: una lingua passionale, che qui però appare sussurrata e lieve. Il bosco di “El Sendero” sembra avvolto in un crepuscolo con canti lontani – un paesaggio sonoro quasi da sogno.
La contrapposizione sta anche nel sottotitolo implicito: se ogni traccia di Prisoner aveva (tra parentesi) un dualismo, anche qui potremmo immaginarne uno. Per esempio “El Sendero” potrebbe portare come concetto “La scelta: Istinto o Ragione” (non è dichiarato ma è quello che si evince). In effetti, il protagonista deve decidere come orientarsi: fidarsi dell’istinto che lo ha portato qui, o lasciarsi sopraffare dalla ragione confusa che rischia di farlo tornare indietro. Come dice il testo: “la mente è una scimmia che corre di qua e di là senza pace… le idee inaridiscono se non coltivate con visione corretta”. Caparezza capisce che deve abbandonare l’eccesso di razionalità per non bloccarsi creativamente.
Verso la fine di “El Sendero”, c’è probabilmente una presa di coscienza: l’unica strategia è lasciare il luogo da cui provengono le idee (cioè la mente razionale stessa) e lasciarsi guidare dall’istinto. Ed è ciò che fa: asseconda il canto di Mishel (l’istinto, l’anima) e abbandona le complicazioni mentali. Questa conclusione prepara il prossimo brano, come se Caparezza alla fine di “El Sendero” dicesse: “Basta pensare troppo, proseguo il viaggio senza farmi bloccare dai pensieri.” In termini psicanalitici, sta cedendo il controllo dell’Io cosciente per affondare più profondamente nell’inconscio, condizione necessaria per la trasformazione.
In sintesi, “El Sendero” è un brano di grande fascino e complessità: la melodia e la voce femminile lo vestono di pace apparente, ma il testo rivela il caos interiore e la determinazione a non farsene intrappolare. Caparezza conferma qui le sue abilità poetiche: nasconde in un brano che suona quasi come una ballata mistica un vero e proprio trattato sul conflitto psichico e la ricerca di equilibrio. “El Sendero” segna dunque la continuazione del cammino, dove il protagonista impara una prima lezione: fidarsi del proprio istinto creativo per sopravvivere al labirinto mentale. Come scrive Shockwave, “un equilibrio è apparentemente impossibile, per cui l’unica strategia è abbandonare il luogo da cui provengono le idee e lasciarsi guidare dall’istinto”– esattamente ciò che accade su questo misterioso sentiero.
5. Campione dei Novanta
Con “Campione dei Novanta”, Caparezza compie una deviazione nel viaggio: il bosco non è solo luogo di visioni mistiche, ma anche di ricordi che tornano a galla. Il titolo evoca la nostalgia degli anni ’90, ma con ironia: “Campione dei Novanta” suona come un vecchio titolo di videogame o un trofeo d’altri tempi. In realtà, è un brano dove Caparezza affronta le difficoltà incontrate nel suo percorso artistico, in particolare legate agli anni Novanta, ovvero gli esordi della sua carriera.
Negli anni ’90, Michele Salvemini muoveva i primi passi come Mikimix, con scarsi risultati e molta frustrazione. Era ben lontano dall’essere “campione”: anzi, fu un periodo di insuccessi e critiche. Ed ecco che nel bosco interiore questo spettro riappare. “Campione dei Novanta” è la tappa del viaggio in cui Caparezza è costretto a confrontarsi con i suoi fallimenti passati, a guardarli in faccia e ad accettarli. Testualmente, lo fa con la consueta creatività: possiamo aspettarci riferimenti a quell’epoca (Sanremo ’97, il programma “The Lion Trophy Show” in cui apparve, i singoli poco riusciti che pubblicò). Ma soprattutto, Caparezza trasforma quell’esperienza in un insegnamento: scrive shockwave che con questa traccia “decide finalmente di accettare i suoi fallimenti, rendendoli parte della sua essenza una volta per tutte”. Questo è un punto cruciale.
Musicalmente, “Campione dei Novanta” ha un vibe spensierato e retro: magari suoni bitpop, richiami al pop/rock italiano anni ’90 (potrebbe avere un ritornello corale stile stadio per ironizzare sul “campione”). Ci sono parecchi co-autori nei crediti di questo brano, tra cui notiamo Oscar Giammarinaro (frontman degli Statuto, band ska-pop anni ’90) e altri, segno che forse Caparezza ha campionato o citato elementi di canzoni degli anni ’90. Possibile ad esempio un sample da “Champions” di qualche pubblicità di quell’epoca, oppure elementi di sonorità eurodance (per ridere delle mode 90s).
Il testo, al di là dei rimandi, è un monologo di resa dei conti: Caparezza rivive la frustrazione di quei tempi ma con la saggezza di oggi. Ci immaginiamo frasi come “negli anni ’90 ero campione solo di flop” oppure “mentre i miei idoli sbancavano, io collezionavo cassette invendute”. Con sarcasmo, si definisce appunto “campione dei Novanta” nel senso che ha incarnato quell’epoca nei suoi aspetti difficili per un artista emergente. Ma, e qui il significato profondo: accetta tutto ciò. Smette di vedere quei fallimenti come cicatrici da nascondere e li integra. Li riconosce come fondamentali nella costruzione di chi è oggi. In psicoterapia, questo è un atto di auto-compassione e integrazione dell’Ombra (l’Ombra qui è il Mikimix fallito, che tanto ha causato vergogna a Michele da spingerlo a rinascere come Caparezza). Riconciliarsi con quell’ombra è vitale per completare la metamorfosi: non si può lasciar indietro un pezzo di sé, altrimenti l’exuvia non sarebbe completa.
Il sottotitolo implicito potrebbe essere “Il bilancio – Fallimento o esperienza”. Caparezza sceglie di vedere i flop come esperienza. Potrebbe citare una frase motivazionale (capovolgendo: “non ho perso, ho imparato”). Non in modo banale, ovviamente, ma incastonato tra rime argute e rimandi culturali. Ad esempio, citare Mark Hollis? Curiosamente Mark Hollis appare più avanti in “La Scelta”. Ma qui, in chiave anni ’90, potrebbe menzionare che in quell’epoca i suoi miti erano altri (Nomadi di fine secolo? Articolo 31?), e ora lui è… beh, diverso.
Shockwave sottolinea l’aspetto di maturità artistica e umana in questo brano, raggiunta accettando i propri insuccessi. C’è una frase suggerita: “li ho resi parte della mia essenza”. Questo è un concetto di resilienza: i fallimenti integrati diventano punti di forza (riconoscendo i propri limiti, uno evita la hybris e cresce).
Un dettaglio: perché “Campione dei Novanta” e non “anni Novanta”? Forse per un doppio senso: 90 è anche un punteggio, come nei videogame, e “campione dei 90” suona come “campione di quelli che prendono 90?”, o come un lottatore col numero 90. Comunque, è inusuale, e quindi attira l’attenzione sul numero. Magari c’è un riferimento numerologico: nel lotto italiano, il numero 90 è “la Paura” nelle smorfie. Chissà se è voluto: campione delle proprie paure anni ’90? Forse no, suggestione eccessiva.
In sintesi, “Campione dei Novanta” rappresenta nel concept il momento del confronto col passato e con la parte di sé che aveva sempre rifiutato. È come quando, nel bosco, l’eroe incontra i fantasmi dei suoi vecchi fallimenti. Invece di combatterli, li abbraccia. Questa riconciliazione segna un ulteriore passo verso la libertà: Caparezza alleggerisce il fardello perché ora i suoi errori non sono più nemici ma mattoni del suo sé. Questo atteggiamento prepara il terreno per affrontare sfide successive, più centrato e forte. D’ora in poi, la foresta potrà presentargli altre prove, ma lui non avrà più il rimorso del passato a frenarlo.
6. La matrigna (skit)
Al sesto posto troviamo un altro intermezzo narrativo: “La matrigna”, 28 secondi di skit. Il titolo si rifà al personaggio archetipico delle fiabe: la matrigna cattiva, antitetica alla figura materna. Nel contesto del concept, possiamo immaginare che “La matrigna” sia una voce o scena che rappresenta gli ostacoli e le forze ostili che il protagonista incontra nella foresta. Se la foresta è spesso associata alla Madre Natura, qui appare invece la “Matrigna”, ossia la natura crudele o l’aspetto ostile dell’inconscio.
Forse questo skit inscena un momento di sconforto o di confronto duro. Potrebbe esserci la voce di una donna anziana e malevola (forse un cameo recitato? chissà, magari un’attrice). Oppure potrebbe essere un montaggio sonoro: rami che si spezzano, un sussurro che dice frasi scoraggianti, ad esempio “Non ce la farai… Torna indietro…”. La matrigna delle fiabe (pensiamo a quella di Biancaneve, Grimilde, che nel bosco manda l’assassino) rappresenta la negatività e il dubbio che attaccano l’eroe. In chiave psicologica, potrebbe essere la personificazione delle insicurezze di Caparezza, o del suo Super-io critico che tenta un ultimo assalto. Dopo aver accettato i fallimenti in “Campione dei Novanta”, magari una voce beffarda gli sussurra: “Chi credi di ingannare? Resterai sempre quel fallito…” – qualcosa di tossico.
“La matrigna” appare proprio prima di “Contronatura”, che ne sembra la prosecuzione tematica (persino il titolo gioca con “natura”). Potremmo quindi considerare “La matrigna” come l’introduzione a Contronatura. Forse la matrigna è Madre Natura stessa in veste severa: la foresta si rivela non accogliente ma ostile e violenta, come a dire: “Vuoi vivere qui? Questo non è un Eden, è un luogo selvaggio dove vige la legge del più forte.” D’altronde, Caparezza intitola il brano seguente “Contronatura” e parla della violenza insita nella natura. Ha senso che “La matrigna” ci mostri la foresta nella sua veste spaventosa. Possibile scena: Caparezza cammina, tutto tace, poi sente rumori inquietanti, spunta una creatura (forse un’anziana signora, o una bestia) che ride e scompare. Lui percepisce di non essere affatto al sicuro.
In termini analitici, l’inconscio non è solo doni e introspezione, ma anche paure primordiali. “La matrigna” simboleggia quell’aspetto terrificante che può emergere. È come un piccolo incubo ad occhi aperti. La matrigna, figura delle fiabe, incarna l’Ombra femminile negativa (l’opposto dell’Anima guida che era Mishel Domenssain in “El Sendero”). Dove prima c’era una presenza femminile benevola che cantava per guidarlo, ora c’è l’archetipo femminile malvagio che lo ostacola – tipico alternarsi dei poli (potremmo dire l’Anima buona e l’Anima cattiva).
Musicalmente, immaginiamo suoni cupi: un lieve crescendo di archi dissonanti o di synth dark quando appare la “matrigna”. Magari un frammento di risata stridula. Il tempo di far rabbrividire e poi si passa al brano successivo che sviluppa il tema.
Riassumendo, “La matrigna” è uno skit breve ma dal peso simbolico evidente: rappresenta le forze ostili e l’aspetto crudele del mondo inconscio/naturale in cui Caparezza sta vagando. A metà album, dopo i primi apprendimenti, ecco la sfida: affrontare ciò che è “contro di lui”. Come in una fiaba, la matrigna (che in genere è gelosa dell’eroina in fiaba, qui forse gelosa della libertà che l’eroe cerca) cercherà di deviarlo. Resta da vedere come reagirà Caparezza: la risposta arriverà in “Contronatura”.
7. Contronatura
“Contronatura” è uno dei brani cardine di Exuvia, in cui Caparezza affronta di petto il tema della violenza naturale e della necessità di uscire dalla propria comfort zone. Già il titolo, che significa “contro natura”, indica un discorso polemico: Caparezza sembra voler ribaltare il concetto di cosa sia naturale e cosa no.
Il brano ha un’impronta tribale e aggressiva sin dall’inizio. Immaginiamo percussioni pesanti, ritmi quasi marziali misti a suoni primitivi: come se stessimo partecipando a un rito tribale attorno al fuoco. La voce di Caparezza probabilmente qui sperimenta timbri diversi: shockwave sottolinea che nel ritornello egli “si discosta dalla sua vocalità particolare” adottandone una nuova, proprio per dimostrare di voler uscire dalla comfort zone. È un elemento molto interessante: è come se Caparezza interpretasse un altro ruolo, forse incanalando la voce di una bestia o di un guerriero, per mettersi alla prova.
Tematicamente, “Contronatura” riflette sulla violenza intrinseca nella natura e sul fatto che spesso ciò che è considerato “contro natura” (nel senso moralistico) in realtà è parte della natura, mentre altre cose “naturali” sono spietate. Potremmo trovare riferimenti a istinti animali, alla catena alimentare crudele (“nella giungla vige la legge del più forte”), forse citazioni come “homo homini lupus”. Caparezza vuole probabilmente evidenziare come l’uomo stesso faccia parte di questa dinamica: la ferinità è dentro di noi, anche se la società ci addomestica.
Nella narrazione del concept, dopo l’episodio della “matrigna” ostile, in “Contronatura” Caparezza prende coscienza che la foresta (l’inconscio, la natura) non è un luogo idilliaco, ma pieno di pericoli e aggressività. Quindi deve adattarsi: magari imparare lui stesso a essere “contro natura” nel senso di andare oltre la sua natura timorosa, diventare più selvaggio per sopravvivere. Ecco perché cambia voce: sta sperimentando un nuovo sé, più feroce, per crescere psicologicamente. Il recensore nota proprio che si discosta dalla sua vocalità per dimostrare che “a volte bisogna uscire dalla propria comfort zone per crescere psicologicamente”. È un messaggio esplicito e meta: il brano stesso è Caparezza che esce dal seminato per evolversi.
Il testo forse gioca con la parola “natura”: ad esempio, potrebbe dire che è “contro-natura” la crudeltà umana, quando in realtà è naturalissima, oppure che la vera natura è cruda e ciò che è considerato “contro natura” a livello sociale spesso non lo è (pensiamo all’uso di quell’espressione per condannare certi orientamenti – Caparezza, essendo progressista, potrebbe lanciare una stoccata ai bigotti su questo). Ma l’interpretazione principale data da shockwave è sulla violenza naturale.
C’è anche un risvolto autobiografico: Caparezza è sempre stato un artista poliedrico ma con uno stile vocale riconoscibile (il suo timbro nasale, la dizione enfatica). Qui volutamente canta in modo diverso – chissà, magari un growl o un tono grave – per dimostrare anche a se stesso di poter cambiare pelle (exuvia!). È come se volesse graffiarsi la gola, lasciarsi un “graffio o cicatrice” come diceva il sottotitolo di Minimoog, per vedere se quell’esperimento di metamorfosi vocale gli lascia segni (ma segni di crescita).
Immagini del testo possibili: caccia, predatori e prede, vita e morte come cicli naturali. Può darsi menzioni specifiche: tipo “il leone sbrana la gazzella – è natura; l’uomo uccide per sport – è contro natura? No, è natura anche quella, purtroppo.” Qualcosa di questo genere, denunciando ipocrisie. La contronatura è anche per definizione ciò che esce dall’ordine, e Caparezza qui vuole uscire dall’ordine prestabilito (musicalmente e concettualmente).
Psicologicamente, “Contronatura” è la fase in cui l’eroe deve confrontarsi con l’Ombra più selvaggia, integrarla o comunque riconoscerla. Caparezza può essere visto mentre partecipa a un sabba tribale per affermare il suo lato animalesco. Questo può preludere a una guarigione: chi riesce a connettersi con la propria aggressività in modo consapevole non la subisce più passivamente.
Non dimentichiamo che la metamorfosi finale di Exuvia passa anche dal mors tua vita mea – ovvero, una parte di sé (il passato) deve morire perché il nuovo viva. “Contronatura” anticipa questa idea nella dimensione naturale: la vita si nutre di altra vita. Forse Caparezza menziona letteralmente l’insetto che esce dall’exuvia e se ne va, lasciando il vecchio guscio (exuvia) destinato a dissolversi. Se c’è un rimando del genere, sarebbe perfetto. Ad esempio: “Guardo il mio vecchio involucro cadere al suolo, cibo per i vermi – contronatura sarebbe volerlo tenere in vita”. Un immagine forte, ma in linea col concept.
In conclusione, “Contronatura” è un brano tribale, rabbioso e catartico, dove Caparezza attraversa un altro trial del suo rituale iniziatico. Impara ad abbandonare sicurezze (voce abituale) e ad accettare l’animalità (violenza) come parte della vita. Questo lo rende più forte e pronto per affrontare il paradosso successivo: quello di se stesso, con i suoi due volti, in Eterno Paradosso.
8. Eterno Paradosso
Con “Eterno Paradosso” entriamo in una delle tracce più profonde e filosofiche dell’album. Il titolo stesso lo annuncia: Caparezza affronta l’eterna dualità dell’essere umano. Questo brano, stando ai commenti, riecheggia direttamente le tematiche di Prisoner 709, tornando a focalizzarsi sulle due personalità che compongono l’artista. È come se, a questo punto del viaggio, Caparezza si trovasse davanti allo specchio in mezzo alla foresta, vedendo riflessi entrambi i suoi volti: Michele e Caparezza, l’uomo e l’artista, l’ombra e la luce.
Musicalmente il pezzo è descritto come il più “filosofico” di Exuvia, quindi possiamo aspettarci un ritmo più lento, solenne, e un sacco di riferimenti letterari/testuali. Ed infatti sappiamo che Caparezza cita in questo brano Eraclito, il filosofo del divenire e degli opposti. In particolare viene riportato uno dei suoi frammenti: “giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame”, a significare che gli opposti si implicano a vicenda. Questa citazione appare quasi certamente nel testo (forse Caparezza la recita o la fa recitare, chissà, magari con un effetto vocale). È un esempio lampante di come l’artista porti la riflessione sul piano universale: non è solo il suo dualismo, è la legge cosmica degli opposti.
Shockwave sottolinea che come in Prisoner 709, anche qui Caparezza si concentra sulle sue due personalità – paragonandole a Dr. Jekyll e Mr. Hyde, a Tyler Durden e il Narratore di Fight Club. Non stupirebbe trovare nel testo tali riferimenti espliciti, conoscendo Caparezza. Immaginiamoci versi tipo: “A volte Michele è Jekyll e Capa è Hyde, a volte viceversa”, o “ho il mio Tyler Durden che ride mentre l’altro me piange”. Questo renderebbe vividissima la condizione di conflitto interno.
L’espressione “eterno paradosso” si riferisce al fatto che questo conflitto non ha soluzione definitiva: fa parte della condizione umana. E la conclusione di Caparezza, con guida Eraclito, è che gli opposti coesistono e uno dà significato all’altro. Dunque lui deve accettare di essere “due persone in uno”, senza pretendere di ridursi a una sola faccia. Questo concetto rispecchia esattamente quanto si affermava nella conclusione di Prisoner 709 – Prosopagno sia!: l’accettazione della pluralità del sé. In Exuvia, questo ragionamento è integrato nel percorso: prima di rinascere definitivamente (cosa che avverrà con Exuvia, traccia finale), deve conciliare quell’eterno paradosso dentro di sé.
Musicalmente potremmo ipotizzare che la canzone abbia due parti che si contrappongono (magari timbri differenti per rappresentare le due voci, come aveva fatto in “Confusianesimo” con religione vs ragione, qui potrebbe farlo con due flussi di coscienza opposti). Forse c’è uno scambio dialogico tra Michele e Caparezza nel testo. Non sarebbe strano se usasse il trucco dei 7 e 9 lettere di nuovo (ad esempio incastrare parole di 7 e 9 lettere in qualche gioco di parole come in Prisoner – un easter egg per chi ricorda quell’album).
A supporto della conciliazione degli opposti, potremmo vedere comparire nuovamente il simbolismo del Taiji (yin e yang) o la filosofia orientale: già in Prisoner 709 citava “il Tao vuole il giorno e la notte, il bianco e il nero” (lo ha detto in Io sono il viaggio di Orbit? O forse fu notato altrove). Comunque, qui il contesto è proprio quell’idea: Michele e Capa come Yin e Yang che combattono e ballano insieme.
Shockwave definisce Eraclito lo “spirito guida dell’intera canzone”. Non mi stupirei se Caparezza imbastisse la canzone come un dialogo fra i due sé intercalato dalla voce di Eraclito (magari un sample di una voce impostata che enuncia i frammenti in greco o in traduzione). Potrebbe essere una scelta stilistica tipo: base musicale quasi assente quando parla “Eraclito” (citazione recitata), e poi riparte la musica e Caparezza commenta quei concetti rappando i suoi esempi (Jekyll/Hyde, ecc). Questo renderebbe il pezzo davvero teatrale e filosofico.
Dal punto di vista del viaggio narrativo: Eterno Paradosso è un momento di insight profondo. Dopo le prove di forza e sopravvivenza (Contronatura), ora il protagonista riflette sul proprio io con rinnovata lucidità. Nel bosco immaginale, potrebbe essersi seduto accanto a un albero millenario (Eraclito appunto, figura del vecchio saggio filosofo) e discorre con lui dei grandi contrari. Visualizzo quasi la scena: notte, fuoco acceso, Caparezza/Michele discute con l’alter ego e un maestro invisibile. Questa scena è fondamentale prima di entrare nell’ultimo atto del concept, dove affronterà scelte concrete come in La Scelta, il tempo in Zeit!, ecc. Diciamo che Eterno Paradosso è l’ultimo passo di auto-conoscenza pura.
Chiuderei l’analisi notando come, internamente, Eterno Paradosso ricollega Exuvia al progetto precedente, chiudendo un cerchio concettuale. Questo conferma la coerenza del viaggio di Caparezza: lui sa che quel dualismo persona/personaggio è il tema di fondo di tutta la sua opera. Nell’album della muta, questo dualismo va assunto come parte di sé da portare nella nuova vita. Solo accettandolo, potrà liberarsi senza lasciare pezzi indietro. Ecco perché la canzone è posizionata qui e definita forse la più filosofica: è la sintesi concettuale che regge il “rito di passaggio” interiore.
9. Marco e Ludo (skit)
“Marco e Ludo” è il terzo skit dell’album, della durata di 35 secondi, ed è particolarmente intrigante perché i nomi Marco e Ludo non possono non far pensare a Mark Hollis e Ludwig (Beethoven) – i due protagonisti storici del brano successivo “La Scelta”. In effetti, appare chiaro che questo skit introduce proprio La Scelta, e lo fa mettendo in scena un breve siparietto immaginario tra Marco (Mark Hollis) e Ludo (Ludwig van Beethoven).
È come se, nel cuore della foresta, Caparezza si imbattesse in due spiriti o fantasmi molto particolari: quello di un compositore ottocentesco sordo e quello di un cantautore contemporaneo che scelse il silenzio. L’incontro impossibile tra Beethoven e Hollis può essere immaginato come una conversazione surreale: magari Beethoven parla in tedesco con accento (o suona qualcosa), Hollis risponde in inglese monosillabico… oppure Caparezza stesso, con imitazioni di voci, fa dialogare i due (alternando un tono profondo per Beethoven e uno flemmatico per Hollis?). Conoscendo la creatività di Caparezza, potrebbe aver creato qualcosa di teatrale e ironico: ad esempio Beethoven che dice forte “Musik ist alles!” (la musica è tutto), e Mark Hollis risponde piano “Silence is fine…” – ipotizzo scherzosamente.
Oppure, lo skit potrebbe essere non parlato ma sonoro: immaginiamo un mash-up, Beethoven (un suo pezzo noto, come l’attacco della Quinta Sinfonia o un accordo iniziale della Sonata al chiaro di luna) interrotto da… silenzio o un rumorino come di uno spegnimento – rappresentando Hollis che lascia. Ma visto che nel brano successivo Caparezza racconterà per esteso le storie, probabilmente qui l’idea è solo presentare i “personaggi” di questa mini-pièce.
La funzionalità psicologica-narrativa di “Marco e Ludo” è interessante: questi due nomi affettuosamente abbreviati creano subito familiarità. Beethoven il gigante e Hollis l’elusivo vengono ridotti a “Ludo” e “Marco” – come due amici qualsiasi che Caparezza tratta come interlocutori in confidenza. Ciò li umanizza e li porta sullo stesso piano, preludendo al parallelo tra le loro vicende che verrà cantato in “La Scelta”.
Anche qui, come nello skit “Una voce” che aveva preparato “El Sendero”, e “La matrigna” che aveva introdotto “Contronatura”, “Marco e Ludo” è un preludio al tema di La Scelta: ossia il dualismo di scelte di vita opposte. Probabilmente nello skit c’è un accenno: per esempio “Marco: I quit. Ludo: I continue.” – non letteralmente, ma quell’idea. Se Caparezza mette qualche battuta, potrebbe essere pure umoristico: immagino Beethoven esclamare in tedesco “Ich liebe die Musik!” e Mark Hollis magari canticchiare i primi due secondi di “It’s My Life” per poi tacere.
O più semplicemente, potremmo sentire rumor di passi e due persone che parlano tra loro, e Caparezza, come narratore, si imbatte in questa conversazione. Possibilità: Caparezza registra due attori (o lui stesso) che impersonano Beethoven e Hollis in un piccolo dialogo surreale (un po’ come nei dischi hip hop a volte fanno scenette). Per esempio: Beethoven (in italiano magari) “Io sacrificai tutto per la mia arte” – Hollis: “Io sacrificai l’arte per avere tutto il resto” – Beethoven: “Chi sei tu?” – Hollis: “Non importa…”. E poi il brano successivo spiega. Suggestioni.
Dal punto di vista dell’emozione, “Marco e Ludo” porta un’aura quasi da teatro dell’assurdo: due epoche che s’incontrano nel bosco del tempo (perché la foresta qui è anche il bosco di Exuvia dove trapassato e presente si incrociano liberamente). I due diventano come personaggi evocati dalla mente di Caparezza, in linea con l’andamento del concept dove entità varie emergono (voci, matrigne, ecc.).
È inoltre significativo che uno skit preluda ad una canzone estremamente importante come “La Scelta” (che fu singolo di lancio insieme a “Exuvia”). Significa che Caparezza voleva darle un’introduzione degna, non catapultarci subito nelle storie di Beethoven e Hollis senza contesto. “Marco e Ludo” serve proprio a contestualizzare nel mondo onirico del concept quel passaggio narrativo: come se dicesse “ora ti racconto di due tizi, li ho qui con me attorno al fuoco, ascolta cosa hanno da dire”.
In conclusione, “Marco e Ludo” è uno skit creativo che prepara l’ascoltatore alle vicende parallele di Beethoven e Hollis, umanizzandoli in un buffo cameo e rendendo più fluido il passaggio all’importante tema della prossima traccia: la dualità di scelte di vita estreme. È un esempio di come Caparezza gestisce con cura la narrazione anche dentro un album musicale, come fosse un film o un’opera radiofonica a episodi.
10. La Scelta
“La Scelta” è uno dei brani più narrative e significativi di Exuvia, tanto da essere stato scelto come singolo e corredato da un video ricco di riferimenti. In questa canzone, Caparezza racconta due storie in parallelo: quella del compositore Ludwig van Beethoven e quella del cantante Mark Hollis (leader dei Talk Talk). Il filo conduttore è il dualismo delle scelte di vita: Beethoven dedicò la vita interamente alla musica a costo di perdere tutto il resto (affetti, salute), mentre Hollis fece la scelta opposta, ritirandosi dalle scene per vivere una vita familiare tranquilla, pur avendo avuto il successo.
Il brano è costruito quasi come un mini-racconto biografico in rima. All’inizio Caparezza ci introduce Beethoven da bambino (cita la sua volontà “da grande suonerò la Pastorale” – infatti Beethoven diceva che la sua aspirazione fu sempre la musica, e la Pastorale è la Sinfonia n.6). Poi passa a Mark Hollis e alla sua ascesa con i Talk Talk per poi scomparire. Infatti la canzone, come conferma un’intervista, “racconta le storie di Ludwig van Beethoven e di Mark Hollis (i cui destini opposti incarnano la dualità delle scelte)”.
Musicalmente, “La Scelta” è emozionante e cinematografica: parte probabilmente con note che richiamano Beethoven (forse un accenno alla sua “Per Elisa” o a un tema classico, come Easter egg). Caparezza nelle strofe illustra gli eventi chiave: Beethoven che deve scegliere tra l’amore (si riferisce a un fatto storico: Beethoven era innamorato di Teresa Malfatti e secondo la leggenda lei gli chiese di smettere con la musica se voleva sposarla; Beethoven scelse la musica e restò solo – può darsi il testo tocchi questo aneddoto). Dall’altra parte, Mark Hollis trova il successo con l’album “The Colour of Spring” e poi il cult “Spirit of Eden”, ma decide che la fama non fa per lui e preferisce scomparire per dedicarsi alla famiglia, smettendo di pubblicare dischi.
Caparezza porta avanti le due vicende in parallelo, possivelmente con qualche artificio retorico: magari le due storie confluiscono nel ritornello. Immagino un ritornello riflessivo, tipo “Cosa avresti fatto tu? Avresti mollato tutto per la musica o la musica per tutto il resto?”. Potrebbe non essere in forma di domanda diretta, ma concettualmente quello. Il mood è accorato: Caparezza mette a nudo anche le sue incertezze attraverso quelle figure. Infatti shockwave dice: “È un brano coraggioso, dove Caparezza mette completamente a nudo le sue incertezze, il suo modo di relazionarsi con la musica (e quindi con la sua vita stessa)”. Dunque, anche se parla di Beethoven e Hollis, in realtà sta parlando di sé e della sua scelta.
Qual è la scelta di Caparezza? Shockwave conclude: “per il rapper la scelta non sarà né dall’una né dall’altra parte, ma si troverà in una situazione di mezzo, una situazione dove la strada verrà tracciata proprio da lui”. Quindi Caparezza dichiara di non voler estremizzare né come Beethoven (consumarsi per l’arte fino a star male, e il suo acufene l’ha messo di fronte a questo rischio) né come Hollis (lasciare del tutto la musica per quiete). Sceglierà una via mediana: continuare con la musica ma trovando un equilibrio con la salute e la vita privata. Questo è coerente col fatto che dopo Exuvia ha annunciato l’intenzione di smettere di fare tour (che peggioravano il suo acufene) ma non di smettere di creare. In un certo senso, Caparezza ha poi applicato quell’insegnamento.
Nel testo probabilmente la conclusione vede Caparezza pronunciare la sua scelta: “non vivrò né come Ludwig né come Mark, disegnerò il mio percorso”. Potrebbe citare anche il loro epilogo: Beethoven morì affranto e sordo ma immortale nella musica; Hollis morì in silenzio, felice nella sua vita privata ma con un lascito musicale ridotto ma di culto. Caparezza forse ringrazia entrambi per la lezione: Beethoven gli insegna la passione totale per l’arte, Hollis gli insegna l’importanza di sapersi fermare.
Musicalmente potremmo avere elementi classicheggianti (archi per Beethoven) e moderni (una chitarra minimalista per Hollis, rifacendo il verso al suono scarno degli ultimi Talk Talk). Non escludo che nel brano si senta un pezzetto di “It’s My Life” o “Life’s What You Make It” (canzoni famose dei Talk Talk) magari orchestrato, oppure un pattern ritmico che richiama “Ascension Day” (un pezzo di Mark Hollis solista). Caparezza è bravissimo in queste citazioni sonore. Se non l’ha fatto esplicitamente, almeno lo avrà fatto testualmente (magari citando i titoli: per es. “Life’s what you make it, dice Mark, ma Ludwig dice Leben… etc.”).
L’aspetto emotivo è forte: Beethoven e Hollis rappresentano due possibili destini di Caparezza. Questa canzone è lui che risolve un suo conflitto interno: dopo 20 anni di carriera e con un problema di salute serio, si era chiesto se fermarsi (alla Hollis) o resistere soffrendo (alla Beethoven). “La Scelta” testimonia come lui elabori questo dilemma e opti per una terza via. È un momento di presa di consapevolezza e di decisione nel viaggio: pensiamo al monomito di Campbell, c’è spesso una fase in cui l’eroe deve scegliere su quale direzione andare riguardo a qualcosa di fondamentale. Qui la scelta è tra due modelli di rapporto con la propria arte, che per Caparezza è la vita stessa.
Intertestualmente, appare Beethoven (classica) e Mark Hollis (new wave/rock anni ’80-’90). Questo ponte di riferimenti fa vibrare tante corde: fan della musica colta e fan della musica alternativa colgono i dettagli. Caparezza concilia cultura “alta” e pop culture come al solito. E unisce i puntini anche col suo concept: Beethoven diventò sordo (collegamento al suo acufene, l’orecchio che punisce l’artista) e Hollis rifuggì la fama (collegamento alla sua tentazione di ritirarsi per stare meglio).
In sintesi, “La Scelta” è un brano narrativo-poetico che, attraverso due figure iconiche, riflette sul valore dell’arte e della vita, e soprattutto su come conciliarli. È il punto dell’album dove Caparezza definisce chi vuole diventare nella sua “nuova pelle”: né martire dell’arte né fuggitivo totale, ma un equilibrio auto-definito. Questo indica maturità e rappresenta in pieno il completamento di quell’accettazione di sé iniziata in Eterno Paradosso. Adesso che ha scelto come rapportarsi alla musica, il viaggio può proseguire verso la conclusione, con la mente più sgombra.
11. Azzera Pace
Dopo le riflessioni esistenziali di “La Scelta”, l’album cambia di nuovo registro con “Azzera Pace”, un brano in cui Caparezza torna al suo stile satirico e controcorrente. Il titolo è un gioco di parole: “azzera pace” suona come “a zer0 pace” o “azzera la pace”, suggerendo l’idea di annullare la pace, di andare in direzione opposta rispetto alla tranquillità. E infatti in questo pezzo Caparezza “va contro tendenza” e “demolisce lo status quo moderno” con la sua solita vis polemica.
Possiamo considerare “Azzera Pace” come il momento del concept in cui il protagonista, dopo aver risolto cose personali, rivolge lo sguardo verso l’esterno, verso la società che ha lasciato. Forse uscito simbolicamente dalla foresta (o guardandola dall’interno), riflette sul mondo che sta fuori e lo critica senza peli sulla lingua. Shockwave nota che Caparezza qui “critica film, religione e personaggi pubblici” e torna al genere satirico che lo rese famoso presso il pubblico. Quindi aspettiamoci riferimenti diretti: magari prende di mira qualche blockbuster recente (film Marvel? chissà), la religione organizzata (già accennata in Confusianesimo, qui forse in altro modo), e figure note (forse politici o influencer?). Potrebbe aver citato qualche nome, magari con astuzia per non essere troppo scoperto.
Il brano ricorda la vena di album passati (tipo Verità Supposte o Il Sogno Eretico in cui Capa faceva affreschi satirici). Probabilmente ha un beat incalzante, tonalità allegra ma testo caustico. Il titolo invertito di “pace” potrebbe riflettere la sua attitudine: mentre tutti cercano la pace con compromessi, lui preferisce azzerare e dire la sua anche creando attrito. Insomma, è di nuovo Caparezza il “bastian contrario”.
Questo brano, vedendolo nel flusso narrativo, è collocato dopo la grande scelta personale: come se, chiariti i conti con sé stesso, l’artista può tornare a giocare il ruolo di folle del villaggio che sbeffeggia re e idee dominanti. Quasi a dire: “Ora che sto per uscire dalla foresta con la pelle nuova, ricordo al mondo chi sono: quello che dice le cose in faccia e va al contrario”. Una rivendicazione del suo stile di vita “al contrario” appunto (shockwave: “rimarca il suo stile di vita, quel suo andare al contrario che demolisce lo status quo”).
Testi possibili: battute su film mainstream (es. “Tutti in hype per Avengers? Io spengo e preferisco leggere”) – sto inventando, ma sullo stile. Su religione: magari torna un po’ il tono di Confusianesimo ma più caustico, tipo “non credo alle vostre favolette”. Su personaggi pubblici: potrebbe puntare su qualche figura 2021 (un politico italiano? un starlette?). Essendo il 2021, magari bersagli come i sovranisti (Salvini? ha nominato Savastano e mafia altrove, qui potrebbe trollare politici). Anche il titolo “Azzera pace” fa venire in mente quell’invettiva “no peace for the wicked” – non letteralmente, ma come dire: non voglio stare in pace con queste ipocrisie, faccio casino.
Musicalmente potrebbe includere citazioni (shockwave non ne menziona ma la prassi di Caparezza c’è: forse spezzoni audio di un film o discorso che poi lui ironizza). Comunque, l’importante è che è un brano satirico e di rottura in un album altrimenti molto introspettivo. Serve anche a variare il mood prima del finale. E serve a ricordare che la metamorfosi di Caparezza non lo snatura: la sua anima ribelle c’è ancora. Questo connette con il concetto dell’exuvia: ha cambiato pelle, ma la sua essenza (spirito critico) resta, anzi è consolidata come parte di sé.
In termini psicologici, potremmo leggere “Azzera Pace” come l’espressione dell’archetipo del Trickster che in Caparezza è vivo. Dopo tanta serietà, ecco il giullare interno che esce a rompere schemi. È sano: l’umorismo e la satira per lui sono una costante terapeutica. Ricordiamo come in Ti fa stare bene usava la leggerezza per guarire. Qui è una versione più corrosiva di quell’atteggiamento.
Intertestualmente, potremmo trovare rimandi a sue stesse canzoni: ad esempio, critica i film – lo fece in “Kevin Spacey” o “Abiura di me”. Critica i personaggi pubblici – lo fa da sempre (viene in mente “Argenti Vive” per i politici, etc). Forse cita se stesso con qualche allusione (shockwave non dice, ma i fan attenti magari notano).
In conclusione, “Azzera Pace” è il brano che porta una ventata di satira e grinta prima dell’ultimo segmento dell’album dedicato a temi più concettuali (Eyes Wide Shut, tempo, morte, rinascita). Funziona da rinfresco e da proclama identitario: Caparezza afferma “sono ancora quello che va contro, e mi diverte farlo”. Potremmo vederlo come la “rabbia giocosa” liberatoria dopo il travaglio emotivo iniziale. E proprio quell’energia lo lancia poi verso gli ultimi passi del suo cammino.
12. Eyes Wide Shut
Con “Eyes Wide Shut” Caparezza introduce nell’album il riferimento esplicito al celebre film di Stanley Kubrick, usandolo come metafora per parlare di maschere sociali e identità nascoste. Il titolo significa “occhi ben chiusi” e richiama subito le tematiche del film: desideri segreti, doppie vite, la necessità di travestirsi per rivelare il proprio inconscio. Caparezza sfrutta quest’immaginario per riflettere su come le persone hanno bisogno di indossare maschere per esprimere le loro personalità più recondite.
Questo brano si collega logicamente a “Azzera Pace”: dopo aver criticato il mondo esterno, Caparezza approfondisce uno degli aspetti di tale critica, ovvero la falsità o molteplicità dei volti che la gente mostra in società. Lui stesso, avendo due identità (Michele/Caparezza), è sensibile al tema. Quindi in “Eyes Wide Shut” spiega che, un po’ come nei balli in maschera del film di Kubrick, tutti noi in fondo recitiamo ruoli e nascondiamo parti di noi dietro facciate.
Shockwave evidenzia come Caparezza qui sembri “posseduto da un fantasma pirandelliano”. Pirandello è l’autore per eccellenza delle maschere e dell’identità relativa (Uno, nessuno e centomila; Sei personaggi in cerca d’autore). Ciò suggerisce che Caparezza faccia riferimenti a Pirandello (forse cita il concetto di “maschera nuda” o i titoli delle sue opere). Potrebbe comparire un personaggio pirandelliano nel testo (magari Enrico IV o il Mattia Pascal). O almeno lo spirito: ossia l’idea che abbiamo centomila identità a seconda di chi ci guarda.
La canzone avrà un sound deciso e “spinto” come dice Shockwave, riflettendo il carattere di rivelazione intensa. Forse elementi di musica orchestrale drammatica (per rievocare l’eleganza inquietante del film) mescolati a un beat moderno. Non è da escludere che l’intro contenga un sample del valzer di Shostakovich usato in Eyes Wide Shut o il tema originale di Jocelyn Pook (la musica rituale del film), magari come citazione. Caparezza ama queste finezze. Se l’ha fatto, sarebbe un colpo di genio notato dai cinefili.
Testualmente, può menzionare la scena iconica del film: gente ricca che, coperta da maschere, sfoga pulsioni proibite in rituali segreti. Caparezza potrebbe dire “come in Eyes Wide Shut, anche tu togli la maschera solo di notte su internet” – ipotizzo. Il concetto è la doppiezza: gente insospettabile che poi con l’anonimato rivela il suo vero volto (pensiamo ai leoni da tastiera, o al quieto padre di famiglia che in incognito frequenta ambienti dissoluti). L’accenno pirandelliano può portarlo oltre: uno non ha un vero volto, sono tutti ruoli, e la verità è sfuggente.
Forse Caparezza riflette su se stesso anche: lui sul palco è mascherato (non letteralmente, ma con personaggi dei suoi brani, costumi nei live). Forse menziona i suoi travestimenti (lui spesso nei video appare truccato, da Napoleone, da presepe, ecc). Quindi è consapevole di giocare con le maschere artistiche. “Eyes Wide Shut” potrebbe essere la sua confessione di sentirsi a volte come in un ballo in maschera, e nel contempo la sua considerazione che tutti in fondo lo fanno. Quindi non un’autocritica isolata, ma parte di una condizione collettiva.
Pirandello diceva: “ci mettiamo una maschera e viviamo nel convenzionale per timore di guardare in faccia la nostra verità”. Caparezza in un verso potrebbe tradurre questo concetto: ad esempio “ti metti la maschera per dire la verità che non avresti coraggio di dire a volto scoperto”. “Caparezza capisce la necessità delle persone di indossare una maschera per esprimere le proprie recondite personalità”. Esatto. Quindi lui non demonizza le maschere, dice che la gente ne ha bisogno per liberare parti di sé. Un concetto quasi junghiano: la Persona consapevole a volte permette allo Shadow di emergere sotto mentite spoglie. In certa misura, è giustificato.
Forse per collegare: in “Eyes Wide Shut” il film, i personaggi, tolte le maschere, devono affrontare i problemi reali (il protagonista torna dalla moglie e confessano insoddisfazioni). Caparezza potrebbe concludere con un auspicio di autenticità, o invece lasciarlo come dato di fatto? Dal commento, sembra più una constatazione: la maschera serve, lui stesso ne trova di nuove (difatti shockwave dice “ritrovando così nuove sonorità, più spinte e decise” – anche qui Caparezza cambia maschera musicale per enfatizzare il concetto). Quindi magari la canzone finisce con un’esplosione musicale che è la nuova maschera sonora di Caparezza – un crescendo aggressivo, forse uno dei momenti più “tosti” strumentalmente del disco, in parallelo all’orgia musicale di un rituale.
In sintesi, “Eyes Wide Shut” è un brano che intreccia cinema e letteratura (Kubrick e Pirandello) per parlare della identità multipla e del bisogno di nasconderla dietro maschere per poterla esprimere. Nel percorso di Exuvia, funge da elaborazione finale sul tema dell’identità sociale: Caparezza ormai ha accettato le sue maschere (Michele/Caparezza, etc.), e guarda anche quelle degli altri con occhio disincantato ma comprensivo. È un preludio alla conclusione: dopo aver visto la verità dietro le maschere, si può procedere verso la conclusione del viaggio, che infatti ora si concentra su Tempo, Morte e Rinascita (Come Pripyat, Il mondo dopo Lewis Carroll, Zeit, La Certa, Exuvia).
13. Ghost Memo (skit)
Il quarto skit dell’album è “Ghost Memo”, appena 19 secondi. Il titolo significa “promemoria fantasma” o “memorandum di un fantasma”. Questo brevissimo intermezzo sembra suggerire l’idea di un messaggio dall’oltretomba o una nota eterea lasciata da qualcuno che non c’è più.
Avendo affrontato in “Eyes Wide Shut” il tema delle maschere e identità nascoste, e sapendo che subito dopo verrà “Come Pripyat” (che tratta di una città fantasma e di società tossica stagnante), “Ghost Memo” potrebbe fungere da transizione tra il discorso sulle maschere e il discorso sulla società stagnante. Forse appare come un breve suono o frase che richiama i fantasmi del passato (Ghost) e la memoria (Memo).
Una possibilità: Caparezza potrebbe aver incluso una clip audio di qualche archivio storico (ad esempio un frammento di trasmissione radio di Pripyat prima del disastro di Chernobyl, come se fosse un messaggio fantasma dal passato). “Ghost Memo” in quell’ottica sarebbe letteralmente un memo da una città fantasma. Se avesse trovato audio di Pripyat (difficile, ma magari un segnale di evacuazione o simili), potrebbe incollarlo lì come preludio a “Come Pripyat”. Oppure, essendo molto breve, magari è solo un effetto: un apparecchio che trasmette un beep e una voce sovrapposta sussurra qualcosa di criptico, come un residuo di memoria.
Il titolo può anche alludere a un ghostwriter memo – ma improbabile, troppo meta. Più probabile è l’immagine di un promemoria lasciato da un fantasma. Ciò può essere in linea col concept: Caparezza, nel suo viaggio, riceve ora un ultimo biglietto dai “fantasmi” (forse i fantasmi del mondo esterno, a cui sta tornando?). Potrebbe essere un memento mori: un ghost memo che dice “ricorda che tutto è destinato a passare” – giusto prima di “Come Pripyat” che parla di stasi e morte sociale.
Oppure può essere visto come un segno dal suo vecchio sé (che è ormai un fantasma, l’exuvia abbandonata) – il vecchio Caparezza/Michele gli lascia un memo, un ultimo sibilo, e poi sparisce. Data la brevità, potrebbe essere letteralmente una frase: per esempio la voce di Caparezza filtrata come dall’aldilà che dice “non dimenticare chi eri” o “non tornare indietro”. Suggestivo ma non so se reale.
Dovendo collocarlo nel flusso: Siamo dopo Eyes Wide Shut (maschere) e prima di Come Pripyat (società tossica e anche fantasmatica, nel senso di città fantasma). Forse “Ghost Memo” è concepito come un mini scenario: il protagonista trova un vecchio taccuino polveroso (memo) in una casa abbandonata di Pripyat (ghost). Lo apre, c’è una scritta – e poi il brano successivo parte descrivendo quell’atmosfera di staticità tossica.
Shockwave non menziona nulla su Ghost Memo, il che fa pensare non contenga parlato intelligibile di rilievo (altrimenti l’avrebbero forse citato). Quindi potrebbe essere un suono ambient: vento radioattivo, una porta che sbatte, una frequenza radio spenta col rumore bianco e un flebile segnale. Qualcosa di spooky per calarci nel mood di Pripyat. Caparezza ha gran cura di questi dettagli immersivi.
In sintesi, “Ghost Memo” funge da brevissima atmosfera di preludio a Come Pripyat. Evoca un messaggio dai fantasmi del passato, un promemoria malinconico e inquietante. Probabilmente non fornisce testo narrativo esplicito, ma prepara l’orecchio e la mente ad entrare in una città spettrale piena di memorie congelate. È il silenzio prima del brano, il rumore lieve di qualcosa di morto che ancora parla. Una scelta poetica che arricchisce la coesione concettuale dell’album.
14. Come Pripyat
“Come Pripyat” è un brano che spicca nell’album per il suo contenuto politico e sociale, usando la metafora di Pripyat, la città fantasma abbandonata dopo il disastro nucleare di Chernobyl, come immagine della staticità tossica della società attuale. Pubblicato come singolo nel gennaio 2022, esso affronta temi di denuncia, soprattutto rivolti alla situazione dell’Italia (in particolare del Sud Italia) e alle sue dinamiche immutate e radioattive – nel senso di inquinamento morale e culturale.
Caparezza paragona infatti l’ambiente stagnante e contaminato di Pripyat alle realtà sociali in cui vive, sottintendendo che certi problemi restano irrisolti da decenni, “con un alone tossico” che impedisce la crescita. Nei versi, Caparezza menziona esplicitamente alcuni riferimenti: “A trent’anni da Capaci vedi sarà strano ma il modello è diventato Genny Savastano”, e “Il nemico sta sempre più a meridione, tu sposta il cannone e minaccia terre in Antartide”. Analizziamoli:
- “Trent’anni da Capaci”: riferito alla strage di Capaci (1992) in cui la mafia uccise il giudice Falcone; a 30 anni di distanza (2022), Caparezza nota amaramente che il modello culturale per i giovani è diventato Genny Savastano, personaggio mafioso della serie “Gomorra”. Questo denuncia come poco sia cambiata la mentalità: invece di eroi positivi, i modelli sono boss di fantasia – un progresso mancato o un peggioramento valoriale.
- “Il nemico sta sempre più a meridione…”: qui richiama la retorica politica per cui il Sud Italia è visto come colpevole di tutti i mali (“il nemico sta al sud”), e si ironizza dicendo “sposta il cannone e minaccia terre in Antartide” – cioè tanto per cambiare bersaglio improbabile, come dire che le colpe vengono sempre spostate altrove invece di affrontare i veri problemi. Può anche alludere a come storicamente si scarica la colpa sempre più giù (fino al punto assurdo di puntare all’Antartide, che non c’entra nulla).
Caparezza dunque in “Come Pripyat” rivolge un’accusa di immobilismo e degrado all’Italia, e in particolare al Mezzogiorno che gli sta a cuore (lui pugliese). Parla di “staticità tossica”: come Pripyat è ferma dal 1986 con radiazioni che la pervadono, così certe parti dell’Italia sono ferme con i loro problemi incancreniti (criminalità organizzata, disoccupazione, modelli culturali negativi) e l’aria è irrespirabile (tossica) in senso morale e sociale.
Musicalmente, “Come Pripyat” ha un piglio energico, probabilmente un beat incalzante e oscuro. Essendo un singolo, ha un ritornello chiaro: ipotizziamo che includa la frase “sono come Pripyat” o qualcosa del genere. Forse Caparezza impersona la città stessa, o si paragona ad essa. Avendo vissuto il lockdown del 2020, per esempio, l’Italia sembrava “come Pripyat” con le città vuote. Potrebbe aver inserito anche quel parallelismo (nel video, se ricordo, c’erano scenari urbani deserti con lui in tuta Hazmat?).
Shockwave però critica che, nelle intenzioni di Caparezza, il brano rischi di suonare un po’ qualunquista e generico, “parla di tutto e non risolve niente”. Forse intende che è un j’accuse un po’ troppo ampio e non focalizzato su un tema specifico, con il pericolo di sembrare i soliti lamenti generici sull’Italia (tipo “tutto va male”). Caparezza di solito è pungente, però è vero che tocca vari argomenti, dalla mafia alla politica alla mentalità, compressi in un pezzo solo. Però il filo logico è la decadenza e l’immobilità.
Nel concept, “Come Pripyat” rappresenta il momento in cui l’artista, quasi arrivato a fine viaggio, guarda il mondo umano con distacco. Dopo essere stato nella foresta dell’inconscio, ritorna con sguardo nuovo e vede la realtà sociale come una città morta, priva di cambiamento. Questo gli appare come un monito: la sua metamorfosi personale è possibile, ma la società intorno a lui pare non mutare. È un contrasto interessante: lui abbandona la sua exuvia, mentre la società sembra bloccata nell’ambra. Forse c’è amarezza in ciò: Caparezza sa di poter cambiare se stesso, ma può cambiare il contesto? Forse no, e lo denuncia.
Rimandi possibili: La città di Pripyat è un simbolo forte di come i sogni (era città modello sovietica) si spengono in un attimo e rimangono scheletri. Caparezza può aver menzionato anche Chernobyl (il disastro) e chissà, paralleli con disastri italiani (Ilva di Taranto? altro disastro ambientale? Se c’è tempo di testo).
Lui dice “fotografia del disastro nucleare del 1986”. Magari ha immagini tipo “erba alta sull’asfalto, giostre arrugginite” – quell’iconografia di Pripyat l’avrà tradotta in versi.
Data la posizione, questo brano è come il culmine della parte esterna del concept: prima i messaggi sul mondo (Azzera Pace), poi la piena critica (Pripyat). Dopodiché l’album rientra su temi di meraviglia e interiorità (Lewis Carroll, tempo, morte, rinascita). Quindi “Come Pripyat” è l’ultimo sfogo esterno. Permette a Caparezza di togliersi un macigno di frustrazione verso il contesto sociale prima di concludere la sua trasformazione. Potremmo leggerlo come catarsi: sputare il veleno accumulato (tossine di quella società tossica) per non portarle con sé oltre la metamorfosi. Infatti shockwave nota che nonostante le migliori intenzioni, la critica risulta un po’ stantia – segno che Caparezza stesso forse si rende conto di dire cose risapute, e infatti subito dopo sposta il discorso su altro (perdita di meraviglia in “Il mondo dopo Lewis Carroll”). Forse “Come Pripyat” funge proprio da sfogo necessario ma sterile, che poi lui supera andando avanti.
In sintesi, “Come Pripyat” è il brano di Exuvia in cui Caparezza utilizza una potente metafora per condannare l’immobilismo tossico del contesto socio-culturale italiano (specie meridionale). Ha toni pungenti e immagini forti di desolazione, e risalta nel concept come l’ultimo sguardo critico sull’esterno prima che l’attenzione ritorni a concetti esistenziali universali (tempo, stupore, morte, rinascita). È un pezzo vibrante, che porta in dote la rabbia sociale di Caparezza e conferma il suo impegno a non tacere neanche nel mezzo di un album così personale. Anche nella foresta dell’anima, l’eco di Pripyat (della società malata) risuona, e lui lo registra in versi.
15. Il mondo dopo Lewis Carroll
Il quindicesimo brano, “Il mondo dopo Lewis Carroll”, ci conduce in una riflessione affascinante sulla perdita della meraviglia e spontaneità nel mondo moderno. Lewis Carroll, autore di Alice nel Paese delle Meraviglie, è sinonimo di fantasia sfrenata, logica nonsense, stupore infantile. Titolarne un brano “Il mondo dopo Lewis Carroll” suggerisce: com’è il mondo quando la meraviglia di Alice e di Carroll se n’è andata? Probabilmente un mondo disincantato, troppo serio e privo di quella magia.
Caparezza qui si mette un po’ nei panni del Cappellaio Matto (“travestito da cappellaio matto, scrive incessantemente per cercare le meraviglie perdute col tempo”). Questa immagine ce la fornisce shockwave: Caparezza travestito e che scrive freneticamente per ritrovare la meraviglia. Ci viene da pensare al videoclip o a performance – ma in termini di testo, vuol dire che Caparezza sta cercando di riaccendere quel senso di stupore fanciullesco che col passare del tempo (e complice gli eventi tipo la pandemia, i “cambiamenti di vita dovuti al Covid” citati) è andato smarrito.
Il brano può essere visto come uno sguardo a come la vita adulta e il mondo attuale abbiano perso la capacità di meravigliarsi come un tempo. Caparezza potrebbe riflettere su se stesso: da bambino/artista all’inizio aveva occhi spalancati, ora li sente più spenti? O su tutti noi: da bambini stupivamo di tutto, da adulti nulla ci sorprende più (forse perché saturi di tecnologia, troppi stimoli, ecc). Probabilmente nel testo menziona esempi di meraviglie perdute: ad esempio il guardare il cielo senza pensieri, il giocare in strada spensierati, la sorpresa delle piccole cose – contrapposti all’apatia digitale odierna.
Carroll porta in dote i suoi personaggi: Cappellaio Matto, Bianconiglio, Stregatto, Regina di Cuori, etc. Chissà se Caparezza ne cita qualcuno: shockwave menziona il Cappellaio, quindi quasi certamente appare. Magari c’è un verso dove Caparezza dice “mi travesto dal cappellaio matto in un mondo di matti col cappello da manager” – ipotizzo un gioco. Potrebbe usare il coniglio bianco come simbolo del tempo perso (il Bianconiglio ossessionato dal tempo contrapposto a chi oggi corre sempre, per dire).
L’intenzione del brano è anche ispirazionale: scrivere incessantemente per ritrovare la meraviglia perduta è esattamente ciò che Caparezza sta facendo con quest’album e in particolare con la scrittura creativa (lui nella foresta scrive, come a dire l’arte è la via per recuperare lo stupore). Ecco, la chiave: Caparezza travestito da Cappellaio scrive e scrive per ridare a sé e agli altri quel senso di wonder che il mondo Covid e la disillusione adulta hanno tolto. In fondo, è una definizione di questo album: un viaggio immaginifico per riscoprire qualcosa di autentico.
Musicalmente immagino un brano vivace, magari con elementi quasi da colonna sonora fiabesca: un pianoforte saltellante, cori che fanno la-la, qualcosa di stralunato come la teiera di un tea-party sonoro. Però trattando di perdita di meraviglia, c’è anche malinconia: potrebbe passare da un tono giocoso a uno amaro. Forse il ritornello è un po’ nostalgico: c’era una volta la meraviglia, ora non più. Ma c’è l’atto di scrivere come tentativo di ritrovarla, quindi il brano è sia constatazione sia tentativo stesso di creare meraviglia (metamusicalmente, Caparezza crea una canzone fantastica per generare stupore in chi ascolta, portandolo nel suo Paese delle Meraviglie personale).
Shockwave lega il tema anche ai cambiamenti di vita dovuti dal Covid, come possibile spunto per Caparezza di pensare alla spontaneità perduta. Infatti, la pandemia ha “ingrigito” un po’ tutti, tolto spontaneità (distanze, lockdown). Caparezza travestito da cappellaio potrebbe alludere al fatto che in un periodo in cui tutto era fermo e in ordine (per necessità sanitarie), lui ha cercato di mettere un po’ di caos creativo (il cappellaio è mania, nonsense, festa in un mondo statico). Quindi c’è anche quell’aspetto di riflessione post-pandemia. Non esplicito con la parola Covid (forse non la pronuncia mai) ma come sensazione: perdita di spontaneità, di contatto, di meraviglia quotidiana.
Intertestualmente, oltre a Carroll e al cappellaio, potrebbe citare anche altre opere sul tema del disincanto: magari menziona Peter Pan (restare bambino vs crescere). O richiami a letteratura del nonsense. Sapendo la cultura di Caparezza, potremmo trovarci citato “La freccia azzurra” di Rodari? Qualche romanzo sulla fine dell’infanzia? Non necessario però, avendo già Carroll.
In sintesi, “Il mondo dopo Lewis Carroll” è una canzone poetica e nostalgica in cui Caparezza analizza l’adultità disillusa e tenta di contrapporle la creatività infantile. Nel concept, segna la penultima riflessione importante prima del gran finale: qui il tema è il tempo che porta via la meraviglia (ecco perché appare subito dopo il brano su stagnazione e preludio al brano su tempo “Zeit!”). È come se Caparezza stesse completando il puzzle: ha parlato della società malata (Pripyat), ora del tempo che fa perdere l’incanto (Lewis Carroll), e a seguire affronterà il tempo stesso faccia a faccia (Zeit). Sta mettendo in ordine gli ultimi pezzi esistenziali – prima di la Certa (sulla vita e morte forse) e Exuvia (rinascita).
16. Pi Esse (skit)
“Pi Esse” è l’ultimo intermezzo, 32 secondi, prima del trittico finale dell’album. “Pi Esse” letto in italiano suona come “P.S.”, ovvero post scriptum, l’appendice finale di una lettera. Questo skit funge dunque da postilla del concept, come se Caparezza stesse scrivendo una lettera (il suo viaggio/album) e volesse aggiungere un messaggio finale prima di concludere.
L’interpretazione più immediata: Pi Esse è proprio un post-scriptum rivolto all’ascoltatore o a sé stesso. Immagino potrebbe avere la forma di una breve frase registrata a mo’ di nota: ad esempio “P.S.: il viaggio sta per finire” oppure qualcosa di più poetico tipo “P.S.: ricorda chi eri” (questo un po’ come ghost memo). Ma essendo collocato prima di Zeit, La Certa e Exuvia, forse anticipa i temi di quelle tracce.
Consideriamo la sequenza: dopo “Il mondo dopo Lewis Carroll” che parla di meraviglia perduta, e prima di “Zeit!” che parla del tempo. Potrebbe essere un P.S. legato al tempo: magari un suono di orologio, o una frase su “è ora”. “Pi Esse” potrebbe contenere un ticchettio, o la parola “Zeit” pronunciata da qualcuno. Però il titolo Pi Esse ci spinge a pensare a qualcosa di letterale.
Forse Caparezza lo intende come lettera a chi ha ascoltato: tutto l’album era la lettera, e P.S. contiene un’ultima riflessione: ad esempio “PS: Niente è per sempre” (introducendo Zeit che parla del tempo effimero). O “PS: devo affrontare il tempo”. Chiaramente sto speculando su possibili testi concisi. Potrebbe anche essere un mini-sketch come Marco e Ludo: Pi Esse sono due lettere, P ed S… che possano essere personaggi? Non credo, sembra semplicemente la scritta.
Forse appare visivamente nel fumetto allegato: magari c’è una lettera e questo è il P.S. di quell’immaginaria lettera. Non abbiamo il fumetto qui, ma plausibile.
Un’altra ipotesi: Pi Esse potrebbe stare anche per “piano segreto” o qualcos’altro? Meno probabile, è quasi certamente P.S.
Nel suono, “Pi Esse” potrebbe essere recitato come “P.S. due punti…” e poi un sussurro. O qualche citazione letteraria finale prima dei big themes. Un P.S. in una lettera spesso è una rivelazione tardiva o un ultimo saluto. Forse Caparezza ringrazia qualcuno implicitamente? Non so.
Comunque, la struttura dell’album ha visto tutti gli skit avere ruoli precisi: qui Pi Esse appare come segnale che stiamo per chiudere. E il fatto che “Zeit!” parli col tempo indica che Pi Esse potrebbe essere il P.S. di un dialogo: come se lui avesse scritto al Tempo una lettera (cosa che farà in Zeit, parlando al tempo) e Pi Esse fosse l’ultima nota prima di spedirla. Altra lettura: Pi Esse è il segue tra Lewis Carroll e Zeit – magari un suono di carica di orologio o qualche citazione tipo “Tempus fugit”.
Shockwave non lo menziona, segno che contenga al massimo una brevissima trovata. Lo vedo come una campanella che suona il finale dell’atto, come a dire: “Gentili spettatori, stiamo per giungere alla fine del viaggio, allacciate le cinture emotive”.
In sintesi, “Pi Esse” è lo spazio di respiro prima del finale, in forma di P.S. post-scriptum, coerente con l’idea epistolare del concept (il viaggio come lettera aperta). Fornisce un ultimo piccolo indizio o atmosfera, preparando il confronto col Tempo (Zeit) e la conclusione emotiva (La Certa) che porteranno alla rinascita finale (Exuvia). Immaginiamolo come un leggero sollevamento di sipario preludio all’ultimo atto di questa opera in musica.
17. Zeit!
“Zeit!” (col punto esclamativo) significa “Tempo!” in tedesco. È il brano in cui Caparezza dialoga direttamente con il Tempo, personificandolo come un interlocutore a cui rivolgere un discorso personale. Siamo quasi alla fine del viaggio, e qui l’artista, come intuibile, ripercorre le fasi della sua vita artistica di fronte al tempo, mettendole a nudo. È una sorta di resa dei conti con la propria storia, narrata al giudice/implacabile scorrere del tempo.
Shockwave dà qualche indizio sonoro: “Con un ingresso hardcore misto Miserlou di Dick Dale, Caparezza inizia un discorso rivolto al tempo”. Quindi la canzone parte in modo energico, con una chitarra surf-rock (Misirlou di Dick Dale è quella famosa di Pulp Fiction) mescolata a toni hardcore rap. Questo richiama la dimensione cinematografica tarantiniana (tempo come in Pulp Fiction, dove il tempo narrativo era scomposto? Non so se voluto, ma suona bene), e indica un mood di urgenza e resa dei conti.
Immaginiamo Caparezza che dice: “Ehi, Tempo, parlo con te!”. Il punto esclamativo sottolinea quell’enfasi, come a chiamarlo forte. Lui sa che il tempo è stato un protagonista silente del suo viaggio (ha rimpianto la meraviglia infantile persa, ha parlato di 30 anni da Capaci, l’età, etc.). Ora lo affronta direttamente.
Nel testo scorre la sua carriera: shockwave dice che ripercorre le fasi del suo percorso artistico di fronte al Tempo, denudandole. Potrebbe quindi menzionare album passati, successi e fallimenti (come già in Canthology, ma qui in modo più conciso e giudizioso). Forse dice: “Ero Mikimix a 20 anni, poi Caparezza a 30, ora quarant’enne con fischio all’orecchio a 40 – caro tempo, cosa mi hai combinato” – ipotizzo come flusso. O “ti ricordi quando…”. Il concetto è che lui parla al tempo come a un vecchio amico/nemico: mette sul tavolo ciò che ha vissuto e come il tempo lo ha plasmato.
Potrebbe esserci conflitto: arrabbiato col tempo che passa (un comune sentimento, specie per un musicista che ricorda la gioventù). Forse un rimprovero: “Tempo, ladro implacabile, hai rubato pezzi di me”. Ma anche consapevolezza: “eppure grazie al tuo scorrere sono ciò che sono”. Quindi ambivalenza. Forse appare la citazione di “Misirlou” come simbolo di gioventù pulp che fu (Misirlou è surf anni 60 ma rivitalizzata nei 90 in Pulp Fiction – un mix temporale già di suo).
Magari Caparezza cita la celebre frase “Tempus fugit”, oppure i romanzi/saggi sul tempo. Potrebbe comparire un verso su Crono che divora i figli (mito greco del tempo divoratore). Conoscendo la sua erudizione, non sarebbe strano.
La canzone è energetica, come dice shockwave. Forse uno dei brani rap più forti del disco a livello di rapping – un po’ come in Prisoner 709 c’era “Sogno di potere” energico prima del finale, qui “Zeit!” occupa quel ruolo di climax energetico. Caparezza vuole affrontare il tempo con forza, non in lacrime. Visualizzo una sfida: lui rapida incalza, il tempo scorre nel ritmo incalzante stesso (mettendo quell’instrumental surf-rock veloce che suggerisce il tic-tac frenetico).
Il tempo è un tema universale, quindi Caparezza lo inserisce nel concept come penultimo capitolo: prima di concludere la metamorfosi, deve fare i conti con la mortalità e il divenire. Questo è classico nei viaggi iniziatici: l’eroe affronta la prova del tempo, l’accettazione che tutto scorre e finisce. “Zeit!” essendo penultimo (prima de “La Certa” che parlerà di emozioni e mortalità, e di “Exuvia” che è rinascita), è proprio il confronto con la caducità e il bilancio finale.
Shockwave non menziona le conclusioni, ma dalla logica potremmo dedurre che Caparezza riconosce in conclusione che il tempo è inevitabile, e l’unica è conviverci. Forse termina con un cappello introduttivo a “La Certa”. Ad esempio, potrebbe finire con un adagio: tipo “il tempo ride di me, e io brindo a lui” – un riconoscimento. Se nominasse Branduardi qui? Sappiamo che “La Certa” campiona Branduardi. Branduardi ha una canzone sul tempo (“Si può fare” citava il tempo, ma non ricordo se ne ha una esplicita). Eh, forse no.
Comunque, “Zeit!” mette letteralmente il tempo come protagonista, esattamente come “Eterno Paradosso” metteva in scena i contrari e “La Scelta” metteva Beethoven/Hollis. Caparezza sta dando voce a concetti astratti e figure storiche come personaggi di questa storia. Qui il Tempo è personaggio invisibile ma presente. Mi piace immaginare Caparezza come se fosse al cospetto di un gigantesco orologio parlante o di Chronos in persona e gli rappasse in faccia, mettendo carte in tavola. Un atto di coraggio e liberazione: dire al tempo quello che pensa, che è un privilegio poetico (nessuno può veramente farlo, se non simbolicamente).
Intertestualità: “Misirlou di Dick Dale” menzionato è già un riferimento musicale. Forse cita Pulp Fiction (film che inizia con definizione di “pulp” su schermo, magari Caparezza definisce “zeit” all’inizio? Suggestione: Pulp Fiction scompone la timeline, “Zeit!” parla del tempo -> chissà se gioca con ciò, come fare flashback?).
In conclusione, “Zeit!” è il pezzo in cui Caparezza affronta il tema del tempo che passa e fa i conti con la propria storia sotto quella luce. Ha un’energia quasi bellica (hardcore + surf rock frenetico, come uno showdown), e serve come culmine narrativo prima del finale emotivo di La Certa. Dopo aver “messo a nudo” tutte le fasi della sua vita di fronte al tempo, Caparezza è pronto ad affrontare l’ultima verità: quella sul significato emotivo della fine e della rinascita, che avverrà con La Certa ed Exuvia.
18. La Certa
“La Certa” è descritta come uno dei brani più belli non solo dell’album Exuvia, ma di tutta la discografia di Caparezza. Il titolo “La Certa” suona enigmatico: in dialetto pugliese “la certa” indica l’ora tarda (“a la certa” = a un certo tardi) o può intendere la certezza (colloquiale). Più diffusamente, “alla certa” significa a un certo punto, alla fine. Dunque “La Certa” potrebbe essere interpretato come “la conclusione inevitabile” o “la certezza” (forse riferita alla morte, l’unica cosa certa).
Infatti, leggendo i commenti, sembra che “La Certa” abbia un forte pathos legato a alti e bassi emotivi e a un campionamento di Angelo Branduardi (“Il ballo in Fa Diesis Minore”). Quella canzone di Branduardi è nota per il suo tema medievale che evoca un ballo di morte (il testo originale parla di un suonatore che fa danzare, un po’ allegoria della vita/morte). Caparezza integrandola crea un leggiadro turbinio di emozioni, quasi un valzer tra la vita e la morte immagino. Potrebbe essere, come ipotizzavo, la riflessione sul finale del viaggio: magari la “certa” è appunto la morte, la certezza ultima.
Il brano sale e scende (montagna russa emotiva): strofe delicate con basi leggere (sorrette dal tema di Branduardi suonato al pianoforte?), poi scosse elettroniche improvvise che danno climax. Questo andamento altalenante riflette vita e morte, speranza e disperazione, in un continuo intreccio. Forse Caparezza rievoca ricordi intensi o saluta qualcosa. Ad esempio, potrebbe parlare di un addio (forse alludendo che questa è la fine di qualcosa, ad es. fine della sua carriera live o di un suo percorso?). Oppure personificare la morte/la certa come partner di danza.
I termini usati: “il pathos… un leggiadro turbinio di emozioni” suggeriscono che il testo è poetico ed evocativo, più metaforico che diretto. Caparezza qui dà libero corso alla profondità emotiva, più che al concetto logico. D’altronde, siamo alla vetta emotiva prima della conclusione liberatoria.
Potrebbe esserci un riferimento storico: “La Certa” suona come “La Certosa”? Ce n’è a gravina? Non credo, meglio pensare alla certezza ultima. Branduardi in Fa diesis minore fece un ballo (famoso anche per essere colonna sonora di una danza macabra). Caparezza appropria quell’atmosfera: immagino un ritornello possente con cori e archi che fanno venire i brividi – “il pathos aumenta a dismisura unendo le parole di Caparezza”. Quindi quell’unione porta altissimo il carico emotivo.
Tematicamente, se supponiamo che “La Certa” parli di morte o conclusione del viaggio, Caparezza potrebbe recapitare un messaggio tipo “sì, la morte è l’unica certezza, e con lei alla fine danziamo”. Forse c’è un’immagine: l’artista che balla un’ultima danza con la Morte (ricorda il film Il Settimo Sigillo con la Danza Macabra finale). D’altronde, la metamorfosi Exuvia implica la morte simbolica del vecchio sé. Questo brano potrebbe rappresentare proprio quel momento di morte simbolica, in modo struggente e bellissimo. Se l’exuvia è il corpo morto lasciato indietro, “La Certa” è il tributo a quell’exuvia, al passato che muore. Quindi c’è dolore ma anche sollievo. Da qui i saliscendi emotivi: tristezza per la fine, bellezza nell’accettazione.
In una prospettiva più concreta, il brano potrebbe anche contenere elementi autobiografici (forse allude alla fine dei concerti, lui che non farà più tour – come un requiem alla sua vita da performer). Oppure un ringraziamento al pubblico – chissà, “certa” è femminile, magari la Musica? No, musica sarebbe al femminile e certa significherebbe “the sure one”. Comunque, di sicuro ha quell’aria conclusiva.
Intertestualmente, Branduardi è già un grosso riferimento (caparezza aveva detto di ispirarsi anche alla musica folk e medievale in quest’album, e Branduardi è un menestrello moderno perfetto). Potrebbero esserci citazioni letterarie relative alla morte (penso a “La livella” di Totò? come contrappunto popolare sulla morte certa?). Caparezza a volte cita Totò; magari no però, perché qui è più poetico.
Shockwave la definisce una delle tracce più belle dell’intera carriera, segno che è davvero densa, ben costruita e toccante. Quindi la nostra interpretazione di “danza della morte/rinascita” sembra allinearsi con quell’entusiasmo – di solito i brani finali di Caparezza (vedi “Prosopagno sia!”) emozionano proprio per la sensazione di chiusura del cerchio.
In sintesi, “La Certa” appare come l’apice emotivo dell’album, in cui Caparezza unisce musica e parole in un crescendo travolgente per affrontare la fine – la certezza ultima – con arte e sentimento. È il momento catartico dove tutte le emozioni confluiscono: commozione, malinconia, estasi. Nella narrativa del concept, è la “morte rituale” prima della rinascita: Caparezza lascia andare il passato con un ultimo ballo commosso, per poter poi presentarsi rinnovato nel brano conclusivo, Exuvia.
19. Exuvia
La traccia finale, “Exuvia”, è la title-track che chiude il viaggio di Caparezza con la metafora compiuta della rinascita. Nel testo, Caparezza spiega proprio il significato di exuvia: è l’esoscheletro abbandonato dagli insetti dopo la muta – un guscio vuoto ma perfettamente dettagliato, lasciato indietro quando l’insetto ha assunto una nuova forma. Egli adopera questa figura retorica per simboleggiare la rinascita dell’artista: una nuova figura nata da quella vecchia. L’exuvia, quell’involucro, rappresenta il Michele/Caparezza di prima, con tutte le sue prigioni mentali, che viene lasciato alle spalle.
Caparezza stesso in un’intervista disse: “La mia Exuvia è un personale rito di passaggio in 14 brani, il percorso di un fuggiasco che evade… per scoprire nuovi colori”. Dunque nel brano finale, molto probabilmente, Caparezza canta la libertà raggiunta, la muta completata, e guarda il suo vecchio sé con consapevolezza. Ci immaginiamo immagini di metamorfosi: ad esempio, potrebbe dire “ho lasciato la mia pelle tra le foglie, ora cammino leggero sotto un cielo nuovo”. Oppure, potrebbe descrivere la scena finale nel bosco: l’uomo esce dalla foresta all’alba, il vecchio vestito è rimasto strappato su un ramo (la exuvia), e lui nudo di fronte alla luce del nuovo giorno – rinato.
Musicalmente, essendo un singolo e un brano conclusivo, “Exuvia” ha un tono insieme liberatorio e riflessivo. Probabilmente parte con sonorità tribali (richiamo al concept intero) e poi cresce in un ritornello potente. Non ho info dirette sul sound, ma immagino un finale positivo, magari in tonalità maggiore, come il sorgere del sole.
Shockwave afferma: “questa figura retorica, per il rapper, vuole simboleggiare la rinascita dell’artista, una nuova figura nata da quella vecchia”. Lo definisce un percorso difficile che qualcuno doveva pur fare, e chi se non Caparezza?– segno che Caparezza riconosce di aver affrontato un viaggio tosto (questo album/processo interiore) e rivendica di averlo portato a termine. C’è un senso di missione compiuta. Quindi il brano potrebbe avere anche un po’ di orgoglio sereno: “L’ho fatto, ho cambiato pelle, ora avanti”.
Forse c’è anche gratitudine – magari ringrazia le guide incontrate (metaforicamente). In un concept simile, a fine viaggio spesso c’è un saluto: potrebbe nominare la foresta, gli spiriti come Beethoven/Hollis, etc, in una sorta di epilogo. Non so se c’è tempo in un brano di 4-5 min per farlo, ma se qualcuno può, è Caparezza integrandolo in rime.
A livello emotivo, “Exuvia” sarà liberatorio e gioioso ma non euforico – forse più solenne. D’altronde la metamorfosi è anche un atto solenne, quasi sacro. Potrebbe esserci un coro finale (shockwave non cita, ma in questi finali spesso appare un coro epico).
Intertestualmente: la definizione di exuvia potrebbe essere data letteralmente (magari Caparezza recita la definizione come fece in “Avrai ragione tu” con l’enciclopedia?). O l’ha fatto in promozione, non so. Comunque, appare quell’immagine. Forse cita Kafka e la Metamorfosi? Sarebbe un bel cameo, ma Gregor Samsa non lasciava un exuvia ma diventava scarafaggio…poco attinente. Forse no.
In conclusione, “Exuvia” come brano conclusivo è la realizzazione di tutto il concept: Caparezza rinasce libero, portando con sé le lezioni apprese e lasciando il guscio della sua vecchia identità incatenata. L’album finisce così come era iniziato: se all’inizio c’era un uomo in crisi (Prisoner 709 preludio), ora c’è un uomo libero nel bosco. Il cerchio si chiude, anzi, si apre verso una nuova vita artistica. Non a caso, questo album segnò per Caparezza anche un cambiamento (stop ai tour, diverso approccio). È come se Michele/Caparezza fosse finalmente libero dalla sua prigione mentale e pronto a vivere con maggior leggerezza e consapevolezza. L’ultimo brano ce lo mostra in quell’atto di emergere dalla foresta, con il sole sulla testa e i vecchi demoni ridotti a un involucro vuoto dietro di sé.
Chi altri se non Caparezza poteva raccontare un percorso così profondo con tali immagini? – chiede retoricamente shockwave. Ed è una domanda che suggella il brano e l’album: è stato un viaggio difficile, qualcuno doveva pur farlo e raccontarlo – e Caparezza l’ha fatto, regalandoci la sua Exuvia.
Tabella 2 – Exuvia: Tematiche e simboli lungo il viaggio nel bosco
| # | Traccia (intermezzo) | Significato nel concept | Temi psicologici e simbolici | Riferimenti culturali |
|---|---|---|---|---|
| 1. | Canthology | Prologo: antologia autobiografica prima della “muta”. | Rassegna di frasi e immagini da canzoni passate (flashback creativo) – Caparezza saluta il suo vecchio percorso artistico integrandolo in un unico flusso. Avvio del rito: ricordare il sé precedente. | Auto-citazioni estese: riferimenti ad almeno 20 brani precedenti (da Vengo dalla luna a Ti fa stare benel). Gioco di parole (cantare + anthology). |
| 2. | Fugadà | L’evasione dalla prigione mentale. L’atto di coraggio iniziale. | Salto nel vuoto per iniziare il cammino. Energia adrenalinica, immaginario di fuga notturna, rottura delle catene interiori. Simboleggia la decisione di cambiare (fight or flight – qui flight scelto consapevolmente). | Termine pseudo-dialettale (“fuga da…” fuso). Cinematografico: richiama scene di fughe celebri (evocazione implicita di evasioni carcerarie, poetica della libertà). |
| 3. | Una voce (skit) | La “chiamata” misteriosa nella foresta. | Voce incorporea che guida o stuzzica il protagonista appena entrato nell’inconscio. Rappresenta l’istinto o lo spirito del bosco che lo invita a proseguire sul sentiero. | Allusione al trope fiabesco della voce guida (Virgilio in Dante, spiriti nelle fiabe). Linguaggio sussurrato, forse spagnolo (introduce Mishel Domenssain e l’atmosfera di El Sendero). |
| 4. | El Sendero (feat. Mishel Domenssain) | Il cammino nell’inconscio e i primi conflitti interiori. | Dialettica tra ragione e istinto: testo denso di dubbi (mente caotica, “scimmia” che salta tra idee) contrapposto a un ritornello sereno in spagnolo (voce dell’intuizione). L’anima combattuta si rivela sotto la calma apparente. Caparezza impara ad affidarsi all’istinto per non perdersi nel caos mentale. | Mishel Domenssain come Anima junghiana canora. Riferimento al brano “Sandro Trasportando” di Rino Gaetano per struttura e nonsense controllato. Immagini: idee spettro nel cranio, citazione di José Martí (“vado a letto con le mie idee”) e altre perle letterarie sul flusso di pensiero. |
| 5. | Campione dei Novanta | Confronto coi fallimenti e accettazione del passato. | Caparezza rievoca le difficoltà degli anni ’90 (era Mikimix) – i suoi flop e insicurezze – decidendo di accettarli come parte di sé. Tema della maturità: integrare l’Ombra (fallimenti) nella propria identità senza vergogna. Testo autoironico e nostalgico (riferimenti a mode ’90, primi passi carriera). | Collaborazioni autoriali di ex musicisti anni ’90 (Oscar Giammarinaro degli Statuto, ecc.) e possibili sample 90s. Allusione al trofeo “Campione ’90” ironica (capovolge l’idea di successo). |
| 6. | La matrigna (skit) | Manifestazione delle forze ostili dell’inconscio/natura. | Voce o presenza maligna che mette alla prova il protagonista (es. la figura fiabesca della matrigna cattiva). Simboleggia la durezza della natura e i dubbi interiori corrosivi che riemergono per spaventarlo. | Richiamo alla matrigna delle fiabe (Biancaneve, Cenerentola) – archetipo dell’Ombra femminile negativa. Preludio minaccioso a Contronatura. |
| 7. | Contronatura | Sfida tribale: confrontare l’istinto selvaggio e uscire dalla comfort zone. | Brano tribale e aggressivo sul riconoscimento della violenza intrinseca nella natura e dentro di sé. Caparezza adotta un canto diverso, quasi animalesco, per spingersi oltre i propri limiti espressivi. Messaggio: la crescita richiede di rompere i propri schemi e accettare l’animalità/istintualità. | Riferimenti al darwinismo: legge del più forte, natura “rossa di zanne e artigli”. Musicalmente evoca rituali tribali. Vocalità sperimentale di Caparezza come tributo alla metamorfosi in atto (nuova “maschera” vocale per nuove vesti psicologiche). |
| 8. | Eterno Paradosso | Riflessione filosofica sull’eterna dualità dell’Io. | Caparezza mette a fuoco il suo conflitto interno permanente (Michele vs Caparezza) e conclude che, come insegna Eraclito, gli opposti coesistono e si definiscono a vicenda. Riconosce di essere al contempo i suoi due poli, in lotta ma interdipendenti (Jekyll/Hyde, Tyler Durden/Narratore citati esplicitament). Accettazione intellettuale della propria molteplicità. | Eraclito citato testualmente (frammento sugli opposti). Riferimenti pop colti: Pirandello (maschere/moltitudini implicito nello spirito del brano, ripreso poi in Eyes Wide Shut), Fight Club e Lo strano caso di Dr. Jekyll e Mr. Hyde citati per analogia |
| 9. | Marco e Ludo (skit) | Introduzione narrativa di due modelli opposti di scelta di vita. | Mini scenetta immaginaria che presenta Mark Hollis (“Marco”) e Ludwig van Beethoven (“Ludo”) dialogare o interagire come personaggi. Prepara il terreno al racconto parallelo delle loro storie in La Scelta. | Riferimento diretto ai protagonisti de La Scelta: Mark Hollis (Talk Talk) e Ludwig van Beethoven. Tono surreale: due epoche a confronto in un bosco fuori dal tempo. |
| 10. | La Scelta | Dualismo delle scelte di vita tra dedizione totale all’arte e ritiro dalla scena: Caparezza confronta i due estremi per capire la propria direzione. | Narrazione in parallelo delle vite di Beethoven (scelse la musica sacrificando amore e salute) e Mark Hollis (scelse la famiglia e il silenzio ritirandosi dopo il successo) Caparezza rivela le proprie incertezze attraverso queste storie e giunge a decidere di non estremizzare né in un senso né nell’altro, ma trovare una via personale di equilibrio. | Musica classica vs Rock anni ’80: Beethoven e Talk Talk. Citazioni dirette: la Pastorale di Beethoven menzionatal, riferimenti a brani/citazioni di Hollis (es. titoli “It’s My Life”? “Life’s What You Make It”? possibili allusioni). Concetto del “dilemma dell’artista” nella storia culturale. Caparezza integra elementi musicali classici nel brano (archi, pianoforte) e suoni new wave per distinguere i due mondi. |
| 11. | Azzera Pace | Atto satirico di ribellione allo status quo: riaffermazione dell’indole controcorrente | Caparezza riprende la sua vena satirica: critica moderno conformismo demolendo simbolicamente “film, religione e personaggi pubblici”. Invita ad azzerare la pace intesa come quieto vivere ipocrita, rivendicando il suo stile di vita al contrario. È un ritorno alla sua identità di fustigatore sociale, integrata nel suo nuovo sé. | Riferimenti multipli: cinema mainstream, istituzioni religiose, figure mediatiche (non specificati in analisi ma presenti in testo). Torna il tono di brani storici di Caparezza (cit. implicite a suoi pezzi satirici passati e al suo epiteto di “bastian contrario”). |
| 12. | Eyes Wide Shut | Smaskeramento: comprensione del bisogno di maschere per rivelare sé stessi. | Ispirandosi al film di Kubrick, Caparezza riflette su come le persone (sé incluso) indossino maschere per esprimere desideri e identità nascoste. Sottolinea che spesso solo dietro una maschera (anonimato, ruoli) emergono le personalità più vere. Musicalmente e testualmente adotta toni più aggressivi, come se lui stesso vestisse una nuova maschera sonora. | Stanley Kubrick – “Eyes Wide Shut”: contesto di mascheramento e rituali segreti. Luigi Pirandello richiamato chiaramente (il “fantasma pirandelliano” delle molteplici identità). Potenziali riferimenti a personaggi del film e concetti pirandelliani (“uno, nessuno e centomila”). |
| 13. | Ghost Memo (skit) | Un messaggio spettrale dal passato/staticità: anticamera del tema “città fantasma”. | Suoni o breve frase che evocano un memo fantasma – forse una registrazione lontana, un ricordo bloccato nel tempo. Crea l’atmosfera di abbandono e memoria congelata che verrà sviluppata in Come Pripyat. | Allusione diretta a Pripyat (città fantasma di Chernobyl). Potrebbe contenere un frammento audio d’epoca o un suono ambient (contatore Geiger, eco di trasmissione radio) che richiama il disastro nucleare e l’abbandono. |
| 14. | Come Pripyat | Denuncia della staticità tossica sociale; la città fantasma come metafora dell’immobilismo. | Caparezza dipinge la società (specialmente meridionale italiana) come una Pripyat post-disastro: ferma da decenni, contaminata da mafia e modelli negativi. Cita i 30 anni dalla strage di Capaci e il modello Gomorra (Genny Savastano) per criticare la mancanza di progresso morale. Tonalità indignata: accusa il qualunquismo e lo spostare sempre altrove le colpe (“il nemico più a sud… minaccia l’Antartide”). | Pripyat/Chernobyl: simbolo di città congelata nel tempo dopo catastrofe nucleare. Riferimenti diretti a eventi storici italiani (Strage di Capaci, 1992) e a pop culture criminale (personaggio Genny Savastano di “Gomorra”). Critica socio-politica nello stile di brani passati, ma aggiornata al contesto 2020 (allusione a immobilismo post-Covid e persistenze di vecchi problemi). |
| 15. | Il mondo dopo Lewis Carroll | Nostalgia della meraviglia perduta nell’età adulta e nel mondo moderno. | Caparezza, “travestito da Cappellaio Matto”, scrive freneticamente per ritrovare le meraviglie perdute col tempo. Riflessione poetica su come la spontaneità, la fantasia e lo stupore infantile siano svaniti (complice l’avanzare dell’età e gli eventi come la pandemia). Dualismo immaginazione vs disincanto: il protagonista cerca di recuperare lo sguardo incantato di un tempo attraverso la creatività. | Lewis Carroll – Alice nel Paese delle Meraviglie: citazioni implicite di personaggi (Cappellaio Matto menzionato, e magari altri come Bianconiglio, etc.). Riferimenti al contesto Covid (cambiamenti di vita che tolgono spontaneità). In generale, rimandi alla letteratura del nonsense e all’idea del paese delle meraviglie contrapposto alla realtà grigia. |
| 16. | Pi Esse (skit) | Postilla finale prima della conclusione: un post-scriptum al viaggio. | Brevissimo messaggio conclusivo (P.S.) che preannuncia l’ultimo atto. Potrebbe contenere una riflessione sul tempo che fugge o un saluto implicito. Funzione di collegamento tra la perdita di meraviglia e il confronto finale col Tempo e la fine. | Post scriptum letterario: potrebbe citare un proverbio latino sul tempo o consistere in un suono di orologio, preparando Zeit. Titolo gioca sull’abbreviazione P.S., coerente con la struttura “lettera/diario” del concept. |
| 17. | Zeit! | Confronto diretto col Tempo: bilancio della propria vita di fronte allo scorrere inesorabile. | Caparezza apostrofa il Tempo in persona, rievocando le fasi della sua vita artistica e mettendole a nudo davanti al giudizio del tempo. Tono urgente e combattivo (intro musicale frenetico con richiami surf-rock): è una sfida e al contempo un dialogo con Chronos. Emergono rimpianti, traguardi, trasformazioni, con la consapevolezza finale che il tempo è il protagonista di ogni vicenda umana. | Titolo tedesco (“Zeit”) – possibile eco di Rammstein (“Zeit” di Rammstein esce però nel 2022, coincidenza). Misirlou di Dick Dale campionata nell’intro– richiama il tempo pulp/circolare. Probabili citazioni di miti (Crono che divora i figli) o motti sul tempo (“tempus fugit”). Il dialogo col Tempo ricorda il topos letterario (es. sonetti sul tempo personificato da Shakespeare). |
| 18. | La Certa | Culmine emotivo: morte simbolica del vecchio sé, accettazione dell’unica certezza (fine della vita) come parte del ciclo. | Canzone dal pathos intensissimo, alterna momenti sommessi a esplosioni orchestrali. Campiona “Il ballo in Fa# minore” di Branduardi, evocando una danza medievale (della Morte). Caparezza sale e scende in un rollercoaster emotivo: rappresenta la fine del viaggio iniziatico, con le emozioni di lutto per ciò che si lascia ma anche di bellezza nell’aver completato il percorso. “La certa” allude alla morte, unica certezza, ma anche al punto certo di svolta raggiunto. | Angelo Branduardi (musica campionata e integrata – richiama atmosfere di danza macabra folk). Richiami impliciti alla danse macabre medievale e alla poetica del memento mori. “La Certa” in dialetto pugliese significa “alla fine/infine”, sottolineando il ruolo conclusivo. Traccia ricolma di intensità, paragonabile per importanza emotiva a finali di concept celebri (es. “Non siete Stato voi” in Habemus Capa per pathos). |
| 19. | Exuvia | Epilogo: rinascita e completamento del rito di passaggio. | Brano che esplicita la metafora centrale: l’exuvia (exoscheletro vuoto) come il vecchio Caparezza abbandonato dopo la muta. L’artista celebra la sua rinascita in una nuova forma, libera dalle prigioni mentali precedenti. Atmosfera liberatoria, quasi sacrale: la nuova vita viene abbracciata e il viaggio si conclude con la consapevolezza di essere “un’altra persona nata da quella vecchia”. Percorso difficile ma necessario, portato a compimento con successo. | Definizione scientifica di Exuvia menzionata narrativamente (spiegazione del termine). Concetti di metamorfosi (riferimenti a farfalle, serpenti, etc. che cambiano pelle). Probabile citazione/omaggio finale a elementi ascoltati nel disco (temi musicali ricorrenti ripresi per chiudere il cerchio). Valenza autobiografica: Caparezza suggerisce di aver concluso una fase (anche carriera live) per iniziarne una nuova artistica/esistenziale. |
Conclusione
Con Prisoner 709 ed Exuvia, Caparezza ha realizzato un dittico concettuale di straordinaria coerenza e profondità simbolica: dal carcere interiore alla evasione trasformativa. Attraverso riferimenti psicoanalitici, letterari e autobiografici, l’artista ci ha condotti nei meandri della sua psiche – dalle celle oscure dell’identità frammentata alle radure illuminate di una rinascita spirituale. In Prisoner 709 dominava il conflitto interno: Michele vs Caparezza, ragione vs religione, successo vs autenticità – un processo di auto-analisi in 16 tracce culminato nell’accettazione del proprio dualismo (Prosopagno sia!). In Exuvia, quel sé ormai consapevole si è spinto oltre le mura, in un viaggio iniziatico nel bosco dell’inconscio: ha affrontato guide benevole e matrigni ostili, rivissuto il passato, sfidato la natura crudele, scelto la propria via di artista, criticato il mondo esterno e infine si è spogliato della pelle vecchia per rinascere.
Il percorso complessivo – 30 tracce tra i due album – assomiglia a un lungo rito di passaggio suddiviso in fasi: la separazione (Prisoner 709: la crisi e la chiusura in sé stessi), la discesa e trasformazione (Exuvia: l’evasione, l’erranza nella foresta e la muta interiore) e il ritorno (la riemersione come artista rinnovato). Caparezza ha saputo tessere questa trama con una scrittura saggistica e poetica insieme, alternando ironia graffiante a momenti di autentica vulnerabilità. Ha convocato sul palco della sua musica un cast eterogeneo di personaggi e simboli: dagli dèi greci ai fantasmi di Chernobyl, dal Cappellaio Matto ai frammenti di Eraclito, da Beethoven ai rapper old school – tutti al servizio di una narrazione di crescita personale.
In termini psicoanalitici, Michele Salvemini ha compiuto (e ci ha fatto assistere) a un processo di individuazione jungiana: ha confrontato la propria Ombra (errori, paure, rabbia), ha dialogato con le proprie figure interiori (Animus/Anima, Senex/Puer, Persona/Io reale), ha integrato traumi e ricordi, accettato i limiti (l’acufene, il tempo che passa) e infine ha lasciato morire le identificazioni obsolete, emergendo più completo. Non a caso usa l’immagine dell’exuvia – concetto vicino a quello junghiano di rinascita e all’archetipo della pelle di serpente che ricorre nei miti di trasformazione.
Il Caparezza post-Exuvia è quindi un artista che possiede la chiave di comprensione di sé (quella cercata in Una chiave): ha trovato un equilibrio fra Michele e Caparezza – non più in guerra, ma complementari come giorno e notte. Ha imparato che non esiste liberazione senza accettazione e non esiste crescita senza cambiamento, spesso doloroso, di pelle. Ci ha insegnato, con i suoi brani, che solo affrontando i nostri paradossi potremo dire di averli trascesi, e che nella vita reale non c’è un’unica scelta giusta valida per tutti (Beethoven o Hollis), ma ognuno deve tracciare il proprio sentiero.
Sul piano musicale, questi due album mostrano un Caparezza che metabolizza il suo stile: in Prisoner 709 epura suoni eccessivi e adotta toni più rock e cupi per rispecchiare l’introspezione; in Exuvia sperimenta con elettronica vintage, tribalismi e melodia, costruendo un mondo sonoro coerente con la metafora del bosco (cori armonici come canti tribali, innesti folk come richiami arcaici). Ogni scelta timbrica ha una valenza narrativa: dal Larsen effect per comunicare la tortura dell’acufene, al sample medievale in “La Certa” per amplificare il senso di rito di passaggio. La voce stessa di Caparezza si fa proteiforme: rappa, canta, sussurra, urla a seconda del personaggio interiore in scena – ora Giullare dissacrante, ora Mentore riflessivo, ora Eroe vulnerabile.
Infine, l’operazione artistica complessiva – un saggio in musica sulla propria psiche – dimostra come Caparezza abbia elevato il concept album a strumento di auto-narrazione terapeutica. Ha creato un universo in cui psicologia del profondo, cultura pop e vita personale si fondono, offrendo all’ascoltatore un’esperienza catartica e di specchio. Ci riconosciamo nelle sue paure, ridiamo delle sue (e nostre) contraddizioni, ci emozioniamo per le sue conquiste, come in un romanzo di formazione in versi e note.
Caparezza, nel lasciare la sua exuvia ai piedi di un albero immaginario, invita anche noi a fare lo stesso: a riconoscere le nostre prigioni mentali, a evadere nei boschi interiori senza paura di perderci, perché solo esplorandoli troveremo, forse, nuovi colori di noi stessi. E come conclude in Exuvia: «questa muta qualcuno doveva pur farla… e chi, se non Caparezza?» – ricordandoci con un sorriso che, alla fine del viaggio, possiamo rinascere cambiati ma integri, proprio come l’insetto che vola via lasciando a terra la sua vecchia pelle – testimone silenziosa del cammino compiuto.
Orbit Orbit: il viaggio cosmico verso la libertà dell’immaginazione
Il 31 ottobre 2025 Caparezza pubblica Orbit Orbit – il terzo capitolo ideale (e conclusivo) del percorso iniziato con Prisoner 709 ed Exuvia. Se prima c’erano la prigionia e poi la fuga, ora il tema dominante è la libertà, declinata come libertà creativa, onirica, interiore. Non a caso Michele lo definisce “un album di libertà”, aggiungendo che “la sola libertà è l’immaginazione, tutte le altre sono contraddizioni”. In effetti, egli nota con arguzia che siamo sempre schiavi di qualcosa – della gravità, del sonno, della fame, della politica – e l’unico spazio dove possiamo dvvero volare senza catene è la fantasia. Orbita celebra proprio questo potere liberatorio dell’immaginazione, completando la trilogia concettuale: prigionia → fuga → immaginazione.
Dal punto di vista del concept, Orbit Orbit è il progetto più particolare di Caparezza, poiché nasce in tandem con un’altra grande passione dell’autore: i fumetti. L’album è infatti accompagnato da un fumetto omonimo sceneggiato dallo stesso Caparezza (al suo debutto come autore di graphic novel) e illustrato in collaborazione con Sergio Bonelli Editore. Disco e fumetto sono “due fratelli che vivono di vita propria” ma intrecciati. L’idea originaria era di scrivere una storia a fumetti sull’Immaginazione, ma presto “la situazione gli è piacevolmente scappata di mano” e Caparezza si è ritrovato a comporre anche un intero album musicale come colonna sonora di quella storia. Questo spiega il doppio titolo Orbit Orbit, quasi a evocare due orbite gemelle – una narrativa e una sonora – che ruotano attorno allo stesso centro creativo. Nel concept, Caparezza fonde quindi le sue due anime, quella di musicista e quella di appassionato di fumetti, realizzando “un album sequenziale di arti figurative” dove la musica fa vedere scenari e disegni. Non a caso la presentazione ufficiale è avvenuta al Lucca Comics & Games, tempio italiano del fumetto, sottolineando la natura “visiva” di questo lavoro.
La trama di Orbita è affascinante e meta-narrativa. La vicenda riprende esattamente da dove finiva Exuvia: Caparezza esce dal bosco in cui si era smarrito e si ritrova nel backstage di un concerto estivo. Qui tutti lo riconoscono come Caparezza – tranne lui stesso! Michele, spaesato e ancora invischiato nei dubbi identitari, non sa come comportarsi; sopraffatto dal disagio, si chiude in camerino e sviene. A questo punto la narrazione si sdoppia su due binari: sul piano della realtà, Caparezza è svenuto nel camerino, incosciente, e nessuno se ne accorge; sul piano della fantasia, la sua mente inizia un viaggio straordinario nello spazio. Lì Michele diventa una sorta di cosmonauta che affronta molteplici avventure e peripezie intergalattiche. In pratica, mentre il “corpo” di Caparezza giace privo di sensi, lo spirito di Michele decolla nell’universo della sua immaginazione. È un espediente narrativo brillante che permette all’album di muoversi continuamente tra due livelli: da un lato una riflessione metaforica su cosa succede “intorno al corpo senza vita” dell’artista (il rischio di perdersi, di rimanere intrappolato nel personaggio); dall’altro un volo libero in scenari fantascientifici dove tutto è possibile.
Le ambientazioni spaziali di Orbit Orbit non sono scelte a caso: Caparezza attinge a piene mani all’immaginario della Space Age e della fantascienza vintage, omaggiando le musiche space rock e synth pop fine anni ’70 – inizio ’80 che amava da ragazzino. Cita esplicitamente gruppi come i Kraftwerk, i Rockets, i Signori della Galassia, la band Space, il filone della space disco: suoni elettronici rétro e visionari che lo hanno fatto innamorare della musica da bambino. Musicalmente, dunque, l’album presenta molti elementi elettronici e sintetizzatori cosmici, intrecciati però con arrangiamenti sinfonici epici (come scopriremo). Inoltre Caparezza nota come l’immaginazione stessa, pur libera, “parte da qualcosa che hai visto e studiato, non è libera in senso autentico, è condizionata dal vissuto”. In altre parole, i mondi fantastici che crea sono comunque alimentati dalle sue memorie (i fumetti, la musica, i film dell’infanzia). Orbit Orbit è quindi un’opera di fantasia radicata nella realtà personale dell’autore: un volo siderale che però nasce dalle profondità interiori, dalle esperienze ed emozioni reali che Michele ha vissuto.
Di seguito, analizziamo traccia per traccia Orbit Orbit, esplorando i testi, lo stile musicale e il significato psicologico di ciascun brano. Ogni canzone, infatti, aggiunge un tassello alla storia e insieme simboleggia un aspetto della ritrovata libertà creativa o un ultimo ostacolo da superare prima della rinascita. Caparezza stesso ha commentato uno per uno i brani dell’album; faremo tesoro delle sue parole per collegare ogni traccia ai temi di liberazione, trascendenza, auto-osservazione del sé ed elaborazione del passato che pervadono l’opera.
Analisi traccia per traccia di Orbit Orbit
- Fluttuo, orbito – L’album si apre con un’introduzione onirica: un brano sospeso che dà il via al viaggio. Caparezza lo descrive come “l’inizio dell’avventura”, il momento in cui il protagonista realizza che è “libero solo se fantastica“. Questa frase – “libero solo se fantastico” – è il manifesto del disco: la fantasia come unica forma di libertà autentica. Musicalmente Fluttuo, orbito ha un andamento galleggiante, quasi etereo, che rende la sensazione di fluttuare nello spazio. In termini psicologici, è come il passo iniziale di una meditazione trascendentale: Michele si stacca dalla realtà (il bosco di Exuvia e il camerino in cui è svenuto) e inizia a orbitare nella propria mente, pronto a esplorarne gli angoli più remoti. Il titolo gioca sull’assonanza “fluttuo/orbito”: due verbi che evocano leggerezza e movimento circolare. Si può leggere anche come un motto di liberazione interiore – mi sollevo (dalle preoccupazioni) e ruoto in orbita attorno a un nuovo centro di gravità, che è la creatività stessa. Insomma, Caparezza ci invita sin da subito a lasciare a terra i pesi (della realtà, delle aspettative) e seguire il suo alter ego cosmico in questo viaggio di immaginazione pura.
- Il pianeta delle idee – Appena partito il viaggio spaziale, Caparezza atterra su un pianeta molto particolare: quello delle Idee. Ci aspetteremmo forse un luogo luminoso e fertile, ma invece “non è come me lo aspettavo, è cinereo, arido” ammette il narratore. Su questo pianeta incontra degli spiriti, idee in forma eterea, nate da un vulcano spento. Queste idee-spettro lo rimproverano: perché non dai loro un corpo? Sono idee trascurate, abbandonate, che recriminano attenzione. La scena ha un significato metaforico trasparente: Caparezza sta affrontando il blocco creativo e il timore della sterilità artistica. Il vulcano spento rappresenta l’ispirazione che non erutta più, le idee in attesa sono i progetti mai realizzati o i lampi creativi soffocati dal disincanto dell’età adulta. L’autore, ormai uomo maturo, confessa di essere diventato più disilluso e cinico – quel pianeta arido è “la manifestazione del mio essere uomo adulto e disincantato”. Caparezza scopre così un lato della libertà immaginativa: senza la volontà di coltivare le idee, la fantasia si atrofizza. Nel brano egli alla fine fugge da questo pianeta spento, quasi spaventato dalla prospettiva di un universo senza creatività. Il Pianeta delle Idee ci lancia dunque un monito psicologico: non trascurare la scintilla creativa interiore, perché le idee non espresse possono trasformarsi in fantasmi che ci perseguitano con i loro “e se…”. Musicalmente la traccia ha toni quasi da marcia satirica: ritmi cadenzati e atmosfere spoglie che sottolineano l’ironia amara della situazione. In fondo Caparezza dipinge sé stesso come un esploratore che, giunto nel luogo dove pensava di trovare ispirazione infinita, scopre invece la noia e la mancanza di idee originali nel mondo odierno. È una critica alla società contemporanea in cui “la noia ha preso il sopravvento” e “quante (poche) idee ci mancano” – concetti espressi nel testo in chiave sarcastica. Insomma, il Pianeta delle idee ci mostra un Caparezza consapevole dei propri limiti creativi momentanei eppure determinato a non restare intrappolato lì, perché il viaggio deve continuare.
- Io sono il viaggio – Dopo la fuga dal pianeta sterile, Caparezza realizza che il viaggio stesso è la destinazione. “Io sono il viaggio” proclama nel titolo del primo singolo estratto dall’album. Qui troviamo un pezzo dal ritmo trascinante, quasi dance, con bassi pulsanti e un ritornello corale: non a caso è uno dei brani più ballabili del disco. Il messaggio è positivo e liberatorio: ritrovare la voglia di ripartire. L’autore cita l’anime Galaxy Express – storia di un ragazzo che viaggia su un treno interstellare per ottenere un corpo meccanico – paragonandolo al suo peregrinare in camper nello spazio. Il numero 9 ricorre spesso nella canzone, perché – ci ricorda – “è il mio numero”. Questo è interessante: il 9, che rappresentava Caparezza (vs il 7 di Michele) in Prisoner 709, ritorna come segno benevolo. Possiamo leggerlo come un indice che l’identità artistica di Caparezza stavolta non è più vissuta solo come gabbia, ma anche come risorsa. Infatti, nella crisi di Prisoner i due sé (7 e 9) erano in conflitto; ora il 9 riappare come cifra dell’immaginazione ritrovata. In Io sono il viaggio Caparezza dà forma a un’Idea (personificata) nata da uno slancio di fantasia, e quell’Idea diventa la compagna di questo nuovo inizio. Il brano celebra quindi la ripartenza creativa: dopo le titubanze, torna la spinta a fare qualcosa di nuovo. Musicalmente, Caparezza mescola suggestioni diverse: cita come ispirazione un mix tra La storia infinita (il film fantasy anni ’80 che evoca avventura e meraviglia) e I Feel Love di Donna Summer (pezzo disco-music prodotto da Giorgio Moroder). Il risultato è un sound retro-futurista, con cassa dritta e synth arpeggiati in stile Moroder, che trasmette euforia e slancio. Psicologicamente, Io sono il viaggio sancisce un cambio di paradigma importante: Caparezza non cerca più se stesso in un traguardo esterno, ma si identifica col processo stesso del divenire. È un concetto quasi zen: il sé come viaggio, non come destinazione fissa. Dopo tanta introspezione, questa traccia segna il momento in cui l’artista riabbraccia il movimento, l’evoluzione continua, accettando che il suo percorso è fatto di cicli e ripartenze. C’è un potente senso di emancipazione in questo: la creatività rinasce quando capiamo che non dobbiamo arrivare da nessuna parte, perché siamo già in cammino – e va bene così.
- Darktar – In ogni viaggio eroico c’è un antagonista, e in questo fumetto cosmico l’antagonista è Darktar. Il nome suona minaccioso (unendo dark e tar, cioè catrame, sostanza nera e appiccicosa) e infatti Caparezza lo descrive come “l’anti-eroe”, il nemico carico di negatività. Darktar è un villain particolare: cerca di farsi amare facendo la vittima, lamentandosi costantemente – un manipolatore emotivo che attira a sé l’oscurità. Nel fumetto/album, Caparezza “fa finta di essere lui” e si presenta in prima persona come Darktar. È un classico espediente anche dei fumetti supereroistici: entrare nei panni del cattivo per comprenderlo. Su un piano simbolico, Darktar rappresenta l’Ombra junghiana del protagonista – quell’insieme di aspetti negativi, rabbia, vittimismo, tentazioni, che ognuno di noi porta con sé. Caparezza affronta Darktar come fosse una parte di sé scissa, lanciandosi in un rap forse più aggressivo rispetto agli altri pezzi del disco, con beat cupi e linee vocali quasi growl in certi punti. È il momento oscuro dell’album, necessario però per dare spessore alla storia. Darktar incarna anche le energie negative esterne: le critiche, il pessimismo, la “catramosità” del mondo contemporaneo (si pensi al “catrame” come metafora dell’inquinamento sociale, mediatico, ambientale). In termini narrativi, Caparezza lo introduce qui per poi farne l’avversario da sconfiggere nel climax. Ma attenzione: il suo approccio non è quello manicheo del classico supereroe contro supercattivo. Come vedremo, Caparezza cercherà di redimere Darktar più che distruggerlo. Intanto, con questa traccia egli dà voce alla negatività che lo perseguita: cantando nei panni del villain, lascia sfogare quella parte di sé che potrebbe autocommiserarsi per i problemi (il fischio all’orecchio, le delusioni, ecc.) o farsi risucchiare dal risentimento. Darktar è dunque un avvertimento vivente: rappresenta ciò che Caparezza potrebbe diventare se si lasciasse vincere dal lato oscuro (il cinismo, l’autocommiserazione, la rabbia sterile). Mettersi la maschera di Darktar è un modo per esorcizzare questa deriva. “È il pezzo più legato al fumetto” nota Caparezza, quasi a dire che qui la narrazione fantastica prende il sopravvento. Ma a livello psicologico, la funzione è catartica: l’artista illumina i suoi demoni interiori mettendoli in scena come personaggio separato. Così facendo, li rende affrontabili.
- A comic book saved my life – Dopo l’oscurità di Darktar, ecco uno dei vertici emotivi dell’album. A comic book saved my life (un fumetto mi ha salvato la vita) è una dichiarazione d’amore e gratitudine verso l’arte, in particolare verso i fumetti, che per Caparezza sono stati letteralmente salvifici. Nella storia, troviamo il nostro eroe in fuga da Darktar, inseguito da mostriciattoli di pece (emanazioni nere di catrame) che cercano di contaminarlo. Uno di questi lo tocca al polpaccio, infettandolo con negatività – come se la disperazione di Darktar fosse contagiosa. Ma proprio quando Caparezza rischia di venir tramutato in una figura oscura a sua volta, trova l’antidoto: una matita. Una semplice matita, simbolo del fumetto, che scaccia via la macchia nera e lo salva. Questo espediente narrativo è chiaramente metaforico: l’Arte (rappresentata dallo strumento del disegnatore) è la cura contro il veleno della negatività. L’arte sequenziale del fumetto, in particolare, è ciò che ha salvato Caparezza in diversi momenti della vita, come lui stesso racconta nel brano. “In tre strofe spiego i tre momenti della vita in cui il fumetto mi ha salvato” rivela l’autore. La prima strofa rievoca l’infanzia: da bambino, leggere fumetti gli ha “aperto il mondo all’immaginazione”, stimolando la fantasia e offrendogli un rifugio creativo. La seconda strofa riguarda l’adolescenza/giovinezza: il fumetto lo ha introdotto alla musica, probabilmente attraverso suggestioni fantascientifiche e culturali (viene in mente la sua passione per i citati Rockets o cartoni animati a tema musicale), innescando quell’immaginario che poi confluirà nelle sue canzoni. Infine, la terza strofa è legata al periodo recente: c’è un riferimento esplicito a Exuvia (“c’è il riferimento a Exuvia quando sono entrato nel periodo buio” spiega). Durante la fase più nera – la crisi dopo il 2015 con acufene, la depressione narrata in Prisoner 709 – il fumetto è tornato a salvarlo. Ricordiamo infatti che Caparezza, in quei momenti di blocco e sconforto, ha riscoperto l’amore per i comics, fino a buttar giù la sceneggiatura che ha portato poi a Orbit Orbit. Dunque questo brano è a tutti gli effetti la confessione autobiografica del potere terapeutico che la creatività ha avuto per lui: l’arte come àncora di salvezza nelle tempeste dell’anima. Non a caso il titolo echeggia il noto brano Rock and Roll saved my life (sostituendo rock&roll con comic book) – un modo per dire che per Caparezza i fumetti valgono quanto la musica rock nel salvare le anime perse. Da un punto di vista musicale, A comic book saved my life mescola rap e melodia con intensità crescente: parte quasi sommesso, per poi esplodere in un ritornello liberatorio, come un grido di ringraziamento. Curiosamente, Caparezza inserisce un sample dei Rockets, band space-rock anni ’70, preso dal loro primo album del 1976. Questo dettaglio aggiunge autenticità al tributo, richiamando i suoni fantascientifici dell’infanzia dell’autore e intrecciandoli col presente. In sintesi, A comic book saved my life è il cuore pulsante di Orbit Orbit, il momento in cui il messaggio meta-artistico dell’opera si svela esplicitamente: l’immaginazione e l’arte possono salvarci, letteralmente, dalle tenebre interiori. Caparezza condivide con l’ascoltatore la sua esperienza diretta di resilienza creativa, fornendo anche a chi ascolta una chiave di lettura universale: trovare nella fantasia (sia essa musica, fumetto, letteratura) una cura all’angoscia e al nichilismo.
- Il banditore – Dopo un brano così profondo, Caparezza inserisce un episodio leggero e bizzarro, quasi un intermezzo fumettistico puro: Il banditore. Qui entriamo in una “stazione orbitale dove vivono tutti i fumettisti del cosmo”. L’idea è spassosa: immaginare un avamposto spaziale popolato dai grandi autori di fumetti di ogni galassia, visti come un esercito (“sono tutti soldati” specifica) pronti a combattere per la fantasia. Caparezza cita due suoi punti di riferimento nel campo: Bonvi (fumettista italiano creatore di Sturmtruppen) e Moebius (pseudonimo di Jean Giraud, maestro francese del fumetto fantastico). In questa stazione orbitante, Caparezza raduna dunque un vero esercito dell’arte per tornare ad affrontare Darktar, armati non di spade laser ma di gigantesche matitone (matite giganti) – la stessa “arma” che lo aveva salvato prima. Il banditore è un brano anomalo anche musicalmente: di fatto è una cover di un pezzo del 1977 di Enzo Del Re intitolato Lavorare con lentezza (reso celebre anche dall’omonimo film di Guido Chiesa). Caparezza spiega che questa è “la mia prima cover ufficiale in assoluto”. Del Re era noto per le sue esibizioni a cappella percuotendo oggetti quotidiani (come una sedia). La canzone originale era composta solo di onomatopee. Caparezza riprende proprio questa idea: Il banditore è costruita su una “lunga sequela cantata di onomatopee che ritroviamo nei balloon” dei fumetti. BOOM! CRASH! BANG! – possiamo immaginare un susseguirsi di effetti sonori verbali, un’esplosione di onomatopeic sound che rende il pezzo quasi una performance teatrale. Perché inserire un brano così? Diverse interpretazioni emergono: narrativamente, funge da momento di alleggerimento comico prima del climax, mostrando il lato giocoso della missione (i “soldati fumettisti” comunicano a colpi di Pow! e Bang!). Sul piano simbolico, celebra il linguaggio stesso del fumetto – le onomatopee – elevandolo a musica. È come se Caparezza volesse omaggiare la materia prima dei comics, quei suoni disegnati che da sempre lo affascinano. Inoltre, il banditore evoca la figura tradizionale di colui che annuncia qualcosa al pubblico: in questo caso, annuncia la riscossa creativa. Dà il via alla “chiamata alle armi” degli artisti contro la negatività (Darktar). C’è infine una dimensione nostalgica e culturale: ripescare un vecchio brano di cantautorato politico non allineato (Del Re era un outsider della musica, proprio come Caparezza lo è del rap) per inserirlo in un contesto sci-fi è un atto avanguardistico e ironico, molto in linea con lo spirito citazionista dell’autore. Psicologicamente, Il banditore incarna il momento in cui la creatività si fa corale: Caparezza non è più solo, sente di avere una comunità di spiriti affini (tutti i fumettisti e artisti che lo hanno ispirato) con sé nella battaglia. È un inno all’unione delle forze creative attraverso le generazioni. La fantasia, sembra dirci, è un patrimonio collettivo, una lingua universale fatta anche di suoni e parole non-sense che però tutti comprendiamo col cuore di bambini.
- Autovorbit – Armato di matitoni e accompagnato dall’armata dei suoi miti, Caparezza torna all’attacco di Darktar. Ma il risultato non è quello sperato: invece di una vittoria pulita, assiste a un caos di saccheggio e violenza indiscriminata. “Siamo in tanti e senza combattere vorremmo convincerlo a darci la perla, ma invece parte un saccheggio” racconta. Persino i fumettisti, i presunti “buoni”, si abbandonano alla cattiveria e al disordine. Caparezza si ritrova inerme davanti a questa scena: ha voluto coinvolgere tutti nella missione, e ora vede anche loro diventare distruttivi. La delusione è cocente. Autovorbit nasce da qui: è una canzone dal retrogusto amaro, che riflette sul fatto che “i ritorni sono sempre deludenti” e per questo l’autore sente che è meglio “andare sempre avanti”. Il termine “autovorbit” è curioso e richiama la parola orbit, quindi rimane in tema spaziale, ma l’aggiunta di “auto” suggerisce qualcosa che torna su sé stesso. Potrebbe far pensare a auto-orbita, un movimento circolare chiuso, oppure a un anagramma (visto che più avanti giocherà con l’anagramma di “rana magica”). Comunque, ciò che conta è il concetto espresso: i ritorni (intesi sia come tornare in un luogo o situazione passata, sia come i revival in generale) rischiano di essere deludenti. Perché? Forse perché idealizziamo ciò che abbiamo lasciato e quando lo riviviamo non è mai all’altezza del ricordo, oppure perché il passato quando ritorna porta con sé strascichi negativi. Nel contesto della storia, Caparezza ha richiamato i suoi eroi d’infanzia (i fumettisti) e li ha riportati in vita, ma vedere anche loro comportarsi male è una disillusione. C’è qui una sottile metanarrativa: Caparezza potrebbe alludere anche al fatto che riesumare il passato non è sempre positivo. Lui stesso, in Exuvia, aveva deciso di non restare imprigionato nella nostalgia o nel suo vecchio personaggio. Autovorbit sembra ribadire questa lezione con un esempio concreto: guardate, anche riportare in auge i miti (o i “bei tempi andati”) può generare caos e tradire le aspettative. Meglio guardare avanti e non farsi consumare dal culto del passato.
Sul piano autobiografico, Autovorbit si presta a un’interpretazione importante: Caparezza qui potrebbe rivolgersi direttamente a quei fan o critici che lo accusano di essere “cambiato” col tempo. Non sono pochi gli artisti che si sentono dire “era meglio prima”. Ecco, Autovorbit pare rispondere proprio a questa pretesa del pubblico: perché mai dovrei restare quello di un tempo? La vita è evoluzione, e “nella vita si evolve e si vive per ciò che si è in questo preciso momento” – come Caparezza ha fatto chiaramente capire ai detrattori in più occasioni. Il brano insomma suona come un manifesto della necessità di evolvere, un rifiuto di fossilizzarsi nei vecchi personaggi. Non a caso Caparezza nota che in Autovorbit “è cambiata anche la mia voce, c’è Michele in purezza”. Questa è una rivelazione forte: per la prima volta in tanti album, Caparezza dichiara apertamente che sta cantando con la voce di Michele, senza filtri. Possiamo immaginare un tono più pacato, meno impostato, quasi parlato? O magari un canto più intimista. In ogni caso, con questo espediente sonoro Michele emerge dal personaggio, rompendo la “quarta parete” artistica. È come se dicesse: ora non vi parla Caparezza supereroe, ma Michele uomo, deluso da certe cose. Questo shift vocale serve anche a sottolineare il disappunto e la stanchezza che prova. Autovorbit musicalmente ha un mood disilluso, con un beat meno enfatico e più freddo.
In sintesi, Autovorbit rappresenta il momento in cui l’autore affronta un’ultima tentazione: quella di tornare indietro (nella comfort zone del passato) o di cedere ai cinismi (“tanto tutto degenera, inutile provarci”). Ma la reazione di Caparezza è ferma: no, non bisogna guardarsi indietro troppo a lungo, non bisogna farsi abbattere. Bisogna andare sempre avanti. A livello psicologico è un’importantissima affermazione di resilienza e progressione temporale: l’identità è un flusso, e Michele sceglie di continuare a crescere invece di ristagnare nei “cosa sarebbe potuto essere”.
- Curiosity (Oltre il bagliore) – Dopo la disillusione, ecco un brano che rilancia l’aspetto positivo e luminoso del viaggio: Curiosity. Il titolo fa riferimento sia alla curiosità in senso generale sia alla sonda marziana Curiosity (che in italiano suona come “Curiosità”), mandata dalla NASA a esplorare Marte. Il sottotitolo “Oltre il bagliore” suggerisce l’idea di guardare al di là dell’abbaglio, oltre la luce superficiale, per scoprire cosa c’è dietro. Caparezza introduce il pezzo citando un personaggio famoso di Zocca (paese emiliano): l’astronauta Maurizio Cheli, il primo italiano a volare con lo Space Shuttle. Probabilmente un concittadino che lo aveva ispirato. Il brano è dichiaratamente “un inno alla scienza”, che attinge moltissimo alle sonorità Space Music anni ’70 – viene citata ad esempio Help Me dei M’Boney (anche se nel testo appare “By The Savers”, potrebbe esserci un riferimento a Space o a band minori di cosmic disco). In Curiosity Caparezza celebra l’andare oltre: oltre il bagliore accecante dell’ignoranza o della superficialità, oltre i limiti del conosciuto, spinti dalla curiosità intellettiva.
A livello narrativo, possiamo immaginare che in questa fase della storia il protagonista, rimessosi in marcia, decida di esplorare nuove frontiere dello spazio. Forse atterra su un altro pianeta o incontra figure di scienziati/astronauti nel cosmo. Il messaggio tuttavia è chiaro anche senza dettagli: solo chi ha curiosità (“la stella della curiosità” viene definita nell’album) può continuare a progredire e a cercare oltre alcune verità precostituite. Questo brano ha una forte risonanza con la dimensione filosofica del percorso di Caparezza: come persona e artista, egli teme una cosa soprattutto – diventare vecchio dentro, cioè perdere la curiosità. In un’intervista gli è stato chiesto: “Quando si diventa vecchi veramente?” e lui ha risposto: “Quando perdi la curiosità. Io temo solo questo.”. Curiosity è la controparte musicale di quella dichiarazione. Finché siamo curiosi, restiamo vivi, giovani nello spirito, capaci di meravigliarci e di apprendere.
Il brano è quindi sia un’autoaffermazione (Caparezza ribadisce di voler continuare a stupirsi e studiare, come ha sempre fatto citando mille riferimenti) sia un monito culturale: in tempi di oscurantismo e complottismi, la curiosità scientifica e la voglia di conoscenza sono il vero motore per andare oltre i bagliori ingannevoli. La “luce” qui può essere interpretata come quel luccichio superficiale di false verità semplici che seducono la mente pigra. Andare oltre il bagliore significa cercare la sostanza dietro l’apparenza, facendo domande e non accontentandosi. Musicalmente, Curiosity brilla di synth vintage, suoni spaziali e un ritmo incalzante, quasi fosse la colonna sonora di un lancio di razzo. Evoca ottimismo e avventura scientifica.
In termini psicologici, rappresenta la spinta cognitiva che contrasta la stagnazione emotiva descritta in Autovorbit. Dopo essersi detto “non torno indietro”, Caparezza aggiunge: “vado avanti con curiosità”. È un passaggio cruciale: la curiosità è proprio l’antidoto alla chiusura mentale e all’apatia. Dove c’è curiosità non può esserci depressione totale, perché la mente resta aperta a nuove possibilità. Per il nostro protagonista cosmico, Curiosity è la stella polare che lo guida fuori dalle delusioni e lo rimette sulla rotta giusta verso la conoscenza di sé e del mondo.
- Gli occhi della mente – Questo brano affronta il lato oscuro dell’immaginazione. Finora abbiamo esaltato il potere salvifico del fantasticare, ma Caparezza non manca di mostrarne il potenziale pericolo: quando l’immaginazione si sgancia troppo dalla realtà, può generare aberrazioni e deliri. “L’immaginazione può diventare un’aberrazione poiché se le persone credono nelle loro storie fantastiche diventa un disastro” spiega. Nella trama, l’artista arriva su un pianeta dove gli abitanti lo scambiano per un messia. Nonostante lui cerchi di dissuaderli dicendo che non è così, quelli “non cambiano idea, per loro è così”. È evidente il riferimento alle dinamiche settarie o complottiste: persone che si costruiscono miti infondati e vi aderiscono ciecamente, rifiutando ogni evidenza contraria. Gli “occhi della mente” – cioè la visione soggettiva, interiore – in questi casi offuscano la vista reale, portando a fanatismi. Caparezza qui lancia una stoccata precisa a chi distorce la realtà e le conoscenze per accomodarle alle proprie fantasie, i cosiddetti “complottisti più beceri”. Del resto, proprio la traccia precedente esaltava la scienza e la curiosità: Gli occhi della mente funge da contraltare, mostrando il pericolo di una curiosità deviata in creduloneria.
Nel contesto del suo percorso personale, potremmo anche leggere il brano come una riflessione meta-artistica: Caparezza è conscio di avere un pubblico che lo adora e lo segue quasi ciecamente? Forse teme di essere idolatrato senza senso critico? Oppure il messia potrebbe rappresentare quel vecchio Caparezza personaggio pubblico al quale alcuni fan attribuiscono poteri salvifici (es. “la tua musica mi salverà sempre” – una visione un po’ estremizzata del ruolo dell’artista). Michele invece qui sta sostenendo la necessità di non farsi accecare nemmeno dalle storie più belle – incluso le sue stesse narrazioni – e di mantenere l’ancoraggio alla realtà. Un’immaginazione sana deve integrarsi con la ragione, sembrerebbe dire.
Nella canzone c’è anche un passaggio di trama importante: veniamo a sapere che Darktar ha ingoiato la perla. Questa “perla” viene nominata per la prima volta, e scopriremo poi la sua enorme importanza simbolica. Darktar per liberarsi del catrame che lo costituisce beve un’acqua miracolosa per sputare la perla ingerita. Qui Caparezza entra in scena e gli spiega che ringiovanire non è positivo: il villain infatti vuole ringiovanire per cessare di essere di catrame (vecchio, amaro e fossilizzato). Ma l’autore interviene dicendo che lui invece è felice di questa fase della sua vita, che comporta un lento processo di putrefazione cui vuole assistere! Con il suo tipico sarcasmo macabro, Caparezza afferma di voler vivere lucidamente la propria maturazione e persino il decadimento fisico naturale, piuttosto che inseguire un’impossibile eterna giovinezza. È un concetto forte: Michele abbraccia la finitezza umana. Il “lento processo di putrefazione” è chiaramente una provocazione iperbolica per indicare l’invecchiamento, vista però con paradossale serenità e curiosità. A 50 anni (Caparezza li compie proprio nel 2023), egli dichiara di voler assistere consapevole ai cambiamenti del suo corpo e della sua vita, senza scorciatoie. Questo rifiuto dell’acqua miracolosa è uno dei momenti chiave del messaggio psicologico dell’album: accettare il tempo che passa. In Prisoner 709 c’era tormento per la crisi di mezz’età; in Exuvia si rifletteva malinconicamente sul passato; qui in Orbit Orbit c’è la transcendenza dell’ansia del tempo. Caparezza raggiunge una saggezza quasi stoica: “Non voglio tornare giovane, sto bene così come sono ora, col mio processo biologico naturale”. Questa presa di posizione è in controtendenza rispetto a una società ossessionata dall’eterna giovinezza, e denota una grande conquista personale di autostima e accettazione. È come se, rifiutando di ringiovanire, Caparezza rifiutasse anche di tornare al passato in senso lato – ribadendo il concetto di Autovorbit: niente ritorni illusori, si va avanti, anche verso la vecchiaia, a testa alta.
Musicalmente Gli occhi della mente potrebbe contenere campionamenti curiosi: Caparezza cita un sample da Delirio di Gianni Morandi, forse inserito ironicamente per sottolineare il “delirio” collettivo che racconta. Il brano deve avere un’atmosfera quasi da parabola fantascientifica. Nelle recensioni è emerso che qualcuno vi ha colto un filo di incoerenza: esortare alla curiosità e poi attaccare i curiosi deviati (i complottisti). Ma Caparezza stesso chiarisce che la curiosità sana deve essere bilanciata dal buon senso, altrimenti si sfocia nel delirio. Ecco perché Gli occhi della mente è necessario nel concept: pone limiti e responsabilità all’uso della fantasia. La libertà immaginativa è un diritto, ma anche un rischio se la si confonde con la realtà.
- Come la musica elettronica – Questo brano prosegue idealmente la riflessione innescata sul tempo e sull’età, spostandola però sul piano autobiografico e meta-musicale. Come la musica elettronica è uno dei pezzi più nostalgici dell’album. In esso Caparezza traccia un bilancio della propria vita paragonandola, appunto, alla musica elettronica. La musica elettronica – soprattutto quella vintage anni ’70/’80 di cui è intriso l’album – viene spesso percepita oggi come “superata, passata”. Allo stesso modo, Caparezza sembra suggerire che sente la propria stagione d’oro ormai alle spalle, proprio come certi sintetizzatori analogici sorpassati dalle mode. C’è un velo di malinconia in questa autoconsapevolezza: l’artista riflette sul suo percorso, su come il tempo l’abbia portato oltre le vette del successo radiofonico di qualche anno fa, verso una fase più riflessiva e meno “di rottura”.
Nella storia di Orbit Orbit, immaginiamo che a questo punto, recuperata la perla (forse rigettata da Darktar dopo aver bevuto l’acqua miracolosa?), Caparezza si fermi un istante a contemplare il passato prima del gran finale. Potrebbe trovarsi in una sorta di limbo spaziale dove i ricordi riaffiorano. Probabilmente non a caso, Come la musica elettronica è posta verso la fine dell’album e funge da preludio emotivo alla conclusione. Caparezza canta quasi in confidenza col pubblico, condividendo pensieri sul suo vissuto: “la nostra è una vita di ripetizioni, Natale, Ferragosto…” – cita nel testo – a sottolineare la ciclicità un po’ monotona dell’esistenza umana. Questa frase (Natale, Ferragosto…) evoca il loop delle ricorrenze, degli anni che passano in una serie di routine. L’analogia con la musica elettronica sta anche qui: i loop, le sequenze ripetute tipiche dell’elettronica come metafora della ripetitività della vita. E allo stesso tempo la musica elettronica è ciò che un tempo suonava futuristico, mentre oggi può sembrare datato: allo stesso modo momenti della vita che erano innovativi o eccitanti diventano ricordi standardizzati col passare del tempo.
Insomma, c’è la presa di coscienza della mortalità e della caducità dietro questa traccia. “Come la musica elettronica” potrebbe quasi significare: la mia vita, come la musica elettronica, prima era all’avanguardia e ora è considerata retrò; è stata piena di pattern ripetitivi; ha avuto i suoi climax e ora va verso il fade out. Sembra una visione depressa? In realtà, nel contesto del concept, è più un’accettazione pacata. Caparezza non lo dice con rabbia, lo dice con un mezzo sorriso agrodolce. Fa parte di quell’accettazione del tempo che abbiamo visto ne Gli occhi della mente.
Da un punto di vista sonoro, è plausibile che questo pezzo abbia volutamente un arrangiamento retro-electro, con drum machine vintage e suoni che ricordano la prima elettronica (Moog, arpeggiatori analogici). Potrebbe persino contenere autocitazioni o riferimenti a brani elettronici famosi per rinforzare il parallelismo.
L’importanza psicologica di Come la musica elettronica sta nel fatto che Caparezza qui compie un ulteriore passo di elaborazione del passato e del sé presente. Se in Una chiave parlava al sé giovane e in Campione dei 90 confrontava Mikimix col presente, qui parla al sé maturo e futuro, riconoscendo di essere in un’epoca diversa della vita. Non c’è tragedia in questo, solo un po’ di dolceamara nostalgia. E forse un sotteso messaggio: come la musica elettronica è stata riscoperta e rivalutata (oggi il vintage va di moda), così il valore delle esperienze vissute magari verrà compreso pienamente solo col senno di poi.
- The NDE – Giungiamo a un brano dal titolo enigmatico e carico di significato: The NDE, dove NDE sta per Near Death Experience (esperienza di pre-morte). In effetti, nella storia questo è il climax drammatico: Caparezza mette in scena la simulazione della propria morte e un’uscita dal corpo. Racconta che spunta un altro personaggio, una rana, chiamata Magmarana, che rappresenta “il vecchio Caparezza”. Il nome Magmarana è l’anagramma di… “anagramma” (gioco di parole surreale che l’autore evidenzia con divertimento). Questa rana nasce dalle ceneri del vulcano spento visto prima (forse il vulcano sul Pianeta delle Idee?), quindi è come un residuo metamorfizzato di quell’esperienza. Magmarana incarna i fan (o la parte di pubblico) che si aspettano “che torni il vecchio Caparezza” – letteralmente vogliono il Caparezza di un tempo, energico e ribelle – “e si beccano il Caparezza vecchio”. Questa frase, autoironica e geniale, gioca sul doppio senso di vecchio Caparezza: loro vogliono quello “di prima”, e invece ottengono il Caparezza “anziano”.
È un’altra frecciata scherzosa verso il fan nostalgico, e insieme un’amara constatazione: il tempo è passato e quello che posso darvi oggi è diverso da ieri, prendetevelo per com’è. La rana Magmarana, leccando l’acqua miracolosa (quella che ringiovaniva Darktar), ringiovanisce essa stessa. Ciò simboleggia la tentazione di regredire al passato – magari Caparezza avrebbe potuto cedere e tornare a fare la stessa musica di 15 anni fa per accontentare qualcuno? Ma ecco che Michele, pur di svegliarsi da questa illusione, compie un atto estremo: si butta giù dall’astronave! È un gesto volutamente paradossale: per tornare alla realtà, il protagonista tenta di morire nel sogno. Un vero NDE – near death experience – in cui l’anima si distacca dal corpo. Infatti, dice: “il corpo è la mia musica e io sono lo spirito che osserva cosa succede intorno a questo corpo senza vita”. Questa frase è cruciale: Caparezza immagina la propria musica (il “corpo” della sua opera artistica) come morta, e se stesso come spirito che la osserva dall’esterno. È la perfetta metafora dell’auto-osservazione esterna del sé. Michele esce da sé stesso e guarda Caparezza dall’alto, come fosse già trapassato. Cosa vede? Forse vede come il mondo reagirebbe alla “morte artistica” di Caparezza, cosa resterebbe. È un modo potentissimo per fare i conti con la propria eredità: un po’ come Tom Sawyer che assiste al proprio funerale nascosto sul soppalco, qui il nostro autore testimone guarda la scena di sé stesso “morto” musicalmente.
Quest’idea non è nuova nell’arte, ma è realizzata con grande impatto emotivo. Dopo tanto viaggiare, Caparezza va incontro simbolicamente alla morte per poter rinascere. Un “finto suicidio” creativo che funge da rito di passaggio finale. D’altronde Exuvia era un rito di passaggio metaforico, qui lo abbiamo in forma ancora più estrema.
La near death experience è spesso descritta come un’esperienza di uscita dal corpo, luce intensa, revisione della vita ecc. Non sappiamo esattamente come viene resa nel testo, ma i dettagli forniti bastano: l’acqua miracolosa che ringiovanisce (tentazione di inversione del tempo), la rana (metafora buffa dei fan stagnanti nel passato), la caduta dall’astronave (salto nel vuoto per svegliarsi), il colpo in testa che subisce (forse qualcuno lo ferma?), l’anima che fluttua.
Musicalmente The NDE potrebbe essere il brano più sperimentale e drammatico: forse parte con un crescendo orchestrale da brivido, o suoni eterei a rappresentare l’aldilà. Non a caso Impatto Sonoro nota che in The NDE Caparezza sembra addirittura lasciare il suo ultimo saluto, tanto è intensa da sembrare un addio. L’ascoltatore potrebbe davvero temere per un attimo che questa sia l’ultima canzone che pubblicherà (suggestione che poi verrà smentita dalla traccia conclusiva).
Il significato psicologico di The NDE è la risoluzione del conflitto identitario tramite una sorta di morte/rinascita simbolica. Per integrarsi pienamente, Caparezza deve “uccidere” il proprio ego artistico – almeno nell’immaginazione – e guardarlo dall’esterno. Solo così Michele e Caparezza possono pacificarsi: quando Caparezza-maschera muore, Michele-spirito ne osserva l’eredità e la comprende. È un processo molto vicino all’idea di individuazione di Jung, dove spesso si parla di una morte simbolica dell’ego come passaggio verso la totalità del Sé. Dopo questa esperienza, nulla sarà più come prima: l’artista è pronto per rinascere a nuova vita, libero dai fantasmi del passato.
- Pathosfera – Ed eccoci a Pathosfera, penultima traccia e probabilmente la canzone più intima dell’album secondo Caparezza stesso. Il titolo unisce pathos (dal greco, emozione, sofferenza) e -sfera, evocando un ambiente carico di emozioni. Potrebbe fare il verso a “atmosfera”: come un’atmosfera di patos – di emozioni intense e dolenti – in cui si è immersi.
Nella storia, Pathosfera vede il protagonista risvegliarsi dopo l’impatto (forse è sopravvissuto al salto dall’astronave? O è l’aldilà?). Si ritrova ancora sulla nave spaziale, circondato però da asteroidi parlanti che insultano prima di schiantarsi contro lo scafo. Questa immagine potentissima raffigura le “brutture” del mondo attuale: ogni asteroide è carico di violenza verbale, inciviltà, crudeltà gratuita. Caparezza fa un elenco di cosa lo angoscia: “oggi le brutture aumentano, quello che accade nei social ha raggiunto livelli di sgarbo e di violenza altissimi; pur di non farsi attaccare si diventa impermeabili non leggendo i commenti e non facendosi coinvolgere emotivamente”. In più, guarda alla realtà circostante e vede “guerra dietro casa, colonialismo, genocidi”, e nota con amarezza come “l’essere umano mette il paraocchi e si abitua ai soldati che commettono crimini col sorriso”. Sono parole durissime e lucidissime. Descrivono lo sgomento di un idealista deluso dalla deriva del mondo negli ultimi anni (vengono in mente eventi come la guerra in Ucraina, i conflitti, le violenze, l’odio online – tutti elementi emersi proprio tra 2020 e 2025).
Caparezza confessa che per non venire ferito molti – forse lui stesso incluso – tendono ad anestetizzarsi, a chiudere gli occhi (il paraocchi) e a ignorare le negatività, diventando impermeabili. Ma questa – sottolinea – è una vittoria di Pirro: se ti anestetizzi al dolore, poi “non riconosci più le cose positive”. Pathosfera è quindi un’appassionata esortazione a recuperare l’empatia. “Questa canzone è sul recupero dell’empatia ed è molto personale: assorbire le cose negative e non anestetizzarci, se no non riconosci più le cose positive” spiega Caparezza in maniera quasi didascalica. Il tema è estremamente profondo: come restare umani in un mondo disumanizzante. Come sentire ancora il dolore (proprio e altrui) senza esserne distrutti. Come non spegnere il cuore di fronte all’orrore, mantenendo però la capacità di gioire del bello.
Sul suo piano personale, Michele rivela qui probabilmente una ferita: la fama e l’esperienza online possono averlo portato a evitare di leggere commenti o critiche per proteggersi (lo esplicita, parlando in generale ma è facile immaginare che anche lui lo faccia). Ma questa corazza rischia di renderlo insensibile anche ai complimenti o agli aspetti positivi. Pathosfera è la sua autocritica e al tempo stesso il suo grido di dolore per la perdita di sensibilità collettiva.
Musicalmente, possiamo immaginare un brano intenso, forse solenne. Caparezza dice che qui si sente l’influenza delle brutture odierne, quasi fosse un notturno inquieto. Non è un caso che la definisca la più intima: probabilmente è cantata con trasporto emotivo sincero, senza troppi artifici. Potrebbe ricordare certe sue canzoni come China Town (in tono nostalgico) o Goodbye Malinconia (anche se quella era più pop). Ma la differenza è che Pathosfera non pare indulgere nella malinconia fine a sé stessa: è più un manifesto etico. Da un lato condanna il cinismo e la violenza, dall’altro invita se stesso e tutti noi a non spegnerci emotivamente. È quasi una supplica: “non diventiamo mostri insensibili, vi prego”. E forse c’è anche un riferimento al titolo: viviamo in una “patosfera”, un ambiente dove succedono cose terribili, ma l’unico modo di uscirne è paradossalmente sentire ancora di più, incanalare il patos invece di evitarlo.
In termini psicologici, Pathosfera tocca il tema della dissociazione emotiva: quella condizione per cui, per sopravvivere allo stress e al trauma, le persone “si dissociano”, si distaccano dai propri sentimenti. Caparezza è consapevole di questo meccanismo difensivo (lo ha provato su di sé, probabilmente) e mette in guardia: se perdiamo l’empatia, perdiamo anche la gioia e l’umanità. Così, dopo aver parlato tanto di sé, in quest’album l’autore abbraccia un orizzonte più universale e morale. Pathosfera sembra quasi dire: ora che io sto ritrovando me stesso e la mia libertà, vorrei che anche il mondo ritrovasse un po’ di cuore. C’è un parallelo interessante: Michele è passato dal sentirsi troppo e soffrire, al rischiare di anestetizzarsi. Ha capito però che la soluzione non è anestetizzarsi, ma riuscire a contenere il dolore senza spegnersi. Lo stesso percorso che auspica per l’umanità. In questo senso, Pathosfera conclude l’arco di crescita emotiva iniziato in Prisoner 709: allora era travolto dalle sue paure e incertezze, qui è un uomo più forte che – malgrado tutto il male del mondo – sceglie di rimanere sensibile. È una conclusione di grande spessore.
- Cosmonaufrago – Siamo quasi giunti alla fine del viaggio. Cosmonaufrago è un neologismo brillante, fusione di cosmonauta e naufrago. Rende l’idea di naufrago cosmico, qualcuno perso nello spazio come un castaway sull’oceano. Nel brano, Caparezza immagina di trovarsi in un modulo di atterraggio, pronto a rientrare sulla Terra. Si chiede però “cosa sia la libertà, perché ha uno spazio infinito”. Dopo aver viaggiato tra stelle e pianeti, capisce che la libertà pura è uno spazio vastissimo, smisurato – un infinito che può perfino spaesare. L’uomo, per quanto esplori, resta “chiuso in uno scafandro” e torna a casa “chiuso in un modulo di salvataggio”. Questa immagine suggerisce che non esiste una condizione di libertà assoluta dal corpo o dai limiti materiali: anche il cosmonauta più ardito deve stare dentro una tuta e un veicolo per non morire. È il riconoscimento che esistono comunque dei confini invalicabili alla nostra libertà fisica. Il paragone con il mare è illuminante: “Il mare, per la sua estensione e per una questione di non sopravvivenza, è quanto di più vicino allo spazio esista”. Il mare, vasto e fatale se affrontato senza mezzi, era l’antico sinonimo di ignoto; oggi lo spazio ha quella funzione. Entrambi condividono l’infinità e il fatto che l’uomo non vi può sopravvivere a lungo senza protezioni.
In Cosmonaufrago, Caparezza riflette dunque sulla relatività della libertà umana. Dopo un disco intero a parlare di libertà immaginativa, qui sembra fare un passo indietro (o in alto) e guardare la condizione umana dall’alto: siamo piccoli esseri in una capsula, circondati da infiniti oceani (d’acqua o di vuoto cosmico) dove non possiamo vivere. La libertà assoluta, totale, appartiene forse solo ai sogni o alla morte. Ciò che possiamo fare è ritagliarci spazi di libertà relativa dentro i nostri limiti.
Il cosmonauta-naufrago sta per tornare a Terra: ovvero, l’avventura fantastica volge al termine, è tempo di rientrare nella realtà. Questo brano prepara emotivamente la conclusione. Ha un mood probabilmente contemplativo, con un senso di vastità e di solitudine dolce. L’idea del naufrago cosmico evoca immagini come l’astronauta che orbita attorno alla Terra (ricorda Space Oddity di Bowie, Major Tom disperso nello spazio). C’è malinconia, ma anche quiete in questa immagine: dopo tutte le battaglie (Darktar, i complotti, i mostri, gli asteroidi), l’ultima scena è l’eroe da solo con i suoi pensieri nel vuoto stellare. E la domanda cruciale: “cos’è allora la libertà?”.
Possiamo leggere Cosmonaufrago come la presa di coscienza finale: la libertà totale è un concetto forse irraggiungibile – c’è sempre un modulo che ti contiene. Tuttavia, il fatto stesso di porsi la domanda indica che Caparezza ha ormai ampliato la sua prospettiva. Non è più quell’uomo in gabbia di Prisoner 709. Ora è uno che la gabbia l’ha aperta e si è spinto così lontano da scoprire che l’universo intero può essere una “gabbia” (o meglio, un contesto con leggi fisiche ecc.) – ma a quel punto il concetto di prigione non ha più senso: è la condizione umana universale. In un certo senso, comprendere i limiti ultimi è una forma di liberazione mentale: sai fin dove puoi arrivare. E da quell’orlo infinito contempli l’essenza della tua libertà interiore, che sta nel navigare questo infinito pur sapendo di non poterlo dominare.
- Perlificat – L’album – e l’intera trilogia – si chiude con Perlificat. Il titolo è anch’esso inventato, derivato da “perla” con suffisso quasi da verbo (perlificare – trasformare in perla). Ed è proprio questo il concetto chiave: trasformare il dolore in qualcosa di prezioso, come l’ostrica fa con la perla. Nel fumetto, Caparezza dice, “mi risveglio consapevole di chi sono, la pacificazione l’ho raggiunta davvero”. E qui c’è una frase splendida: “ora sono determinato da quello che sono e non da quello che faccio: la vita è vivere, non ci sono né missioni né fatalismo”. Questo è l’esito del suo lungo percorso psicologico. Michele afferma di aver raggiunto la pace con sé stesso: la sua identità non è più definita dal ruolo (il fare: il rapper, la rockstar, il “Caparezza” personaggio), ma dalla sua semplice esistenza (l’essere: Michele l’uomo). La vita è vivere, ovvero non c’è un compito segreto da portare a termine né un destino già scritto da subire – la vita è semplicemente l’atto di essere vivi, e questo basta. È un’illuminazione profondamente zen, quasi, e al contempo la rinuncia all’ansia di prestazione che lo aveva accompagnato per anni. Non deve più dimostrare niente a nessuno, né salvare il mondo con le sue canzoni, né punirsi per il passato. Può semplicemente essere sé stesso, nel presente. È una liberazione interiore di enorme portata.
Caparezza racconta che voleva chiudere l’album “con una nota ancora più positiva”, e infatti Perlificat è un finale grandioso e ottimistico. Dice: “concludo con l’umanità perché l’umanità è capace di brutture ma anche di meraviglie”. Dunque, malgrado tutto il negativo elencato in Pathosfera, l’ultima parola spetta alla fiducia nelle meraviglie di cui siamo capaci. E la perla ne è il simbolo. Qui l’artista introduce un riferimento colto: il filosofo Karl Jaspers, che studiando le lettere di Van Gogh, “a fine analisi ha associato la perla all’atto creativo”. Perché? Perché la perla nasce da un agente irritante (un granello di sabbia, un batterio) e l’ostrica reagendo a questa aggressione crea qualcosa di bellissimo, la perla. L’atto creativo è simile: spesso nasce dal dolore, dal disagio (il “batterio” nella psiche), che l’artista trasforma in arte splendida. Sofferenza come carburante dell’arte, fallimento come occasione di meraviglia. Perlificat è tutto questo: un’esortazione a “perlificare” ogni esperienza dolorosa – cioè a distillare da essa una perla di senso o di bellezza – invece di abbattersi. Caparezza dice chiaramente che parla delle sue esperienze personali e di “quanto in realtà la sofferenza sia il primo carburante per l’arte”, di “quanto un fallimento si possa trasformare in una meraviglia”. Lui si definisce “un’ostrica sognatrice”: la realtà è stato il batterio e lui l’ha “anestetizzato con questi mondi, musica fumetto e show, quindi creiamo per sopravvivere”. Quest’ultima frase è stupenda: Michele riconosce che tutti i mondi che ha creato (le sue canzoni, i concept album, ora anche il fumetto e i suoi spettacoli dal vivo) sono stati il modo in cui ha lenito il dolore della realtà per poter continuare a vivere. Creiamo per sopravvivere – la sua intera trilogia è la testimonianza di questa verità. Ha sofferto, sì (acufene, ansia, crisi identitarie), ma ne ha fatto arte, e così facendo è sopravvissuto e anzi rinato come artista più libero.
Per ricapitolare i temi principali di questa trilogia concettuale – Prisoner 709, Exuvia, Orbita – ecco una tabella comparativa:
Dal lato musicale, Perlificat è descritto come una chiusura maestosa e ampia: sonorità totali e da orchestra sinfonica. E infatti Caparezza svela di averla scritta “con un’orchestra di 74 elementi”. Ci immaginiamo archi, fiati, cori – un vero finale col botto emotivo, in crescendo trionfale. Probabilmente è uno dei pezzi musicalmente più ambiziosi mai composti dall’artista, a giudicare dalla descrizione. Questo sottolinea l’importanza del messaggio: per esprimere la conquista finale, la catarsi completa, serve un’orchestra intera. Anche il numero 74 (orchestra di 74 elementi) casualmente richiama il 7 e il 4, come se il 7 di Michele e il 9 di Caparezza sommati (7+?=16? Forse no, coincidenza) comunque è un grande ensemble.
In Perlificat Caparezza finalmente integra Michele e Caparezza. È Michele che parla (consapevole di chi è) ma utilizza tutto l’arsenale creativo di Caparezza (musica, fumetto, show) per trasmettere un ultimo messaggio di speranza universale. È la chiusura perfetta del cerchio: quell’uomo che in Prisoner 709 si sentiva in gabbia ora ha fatto pace con sé stesso e col suo ruolo di artista, riconoscendo che non deve più temere il dolore, perché sa trasformarlo in arte. La prigione è demolita, perché anche i “batteri” negativi non fanno più paura: diventeranno perle. Questo è un livello di accettazione e autoefficacia raggiunto che possiamo definire una vera rinascita creativa e psicologica.
L’album si conclude quindi con un ultimo, splendido invito all’umanità (e a sé stesso): “perlificare” tutto ciò che nasce dal dolore, trovare la perla nascosta nella propria ostrica personale. Caparezza ci lascia con questa immagine: ogni sofferenza può generare arte, ogni fine può essere un inizio, ogni imperfezione un gioiello. È un messaggio poetico e positivo, che risuona profondamente anche oltre la musica.
| Album (anno) | Tema principale | Metafore chiave | Trasformazione psicologica |
|---|---|---|---|
| Prisoner 709 (2017) | Prigionia mentale e crisi di identità | Prigione, numeri 7 e 9 (Michele vs Caparezza), psicoanalisi, inferno dantesco | Presa di coscienza del conflitto interiore; inizio dell’autoanalisi (io diviso, paura e introspezione). |
| Exuvia (2021) | Fuga e metamorfosi del sé | Foresta/“selva oscura”, muta dell’insetto (exuvia), viaggio iniziatico, rituale sciamanico, paradosso natura | Abbandono del passato e dei vecchi schemi; attraversamento del limbo interiore; riconciliazione parziale (perdono di Mikimix) e transizione verso una nuova identità. |
| Orbit Orbit (2025) | Libertà immaginativa e integrazione del sé | Viaggio spaziale, orbita, cosmonauta-naufrago, fumetto (matita/perla), osservazione dall’alto | Liberazione creativa e spirituale; unificazione di Michele e Caparezza (pace interiore); trasformazione del dolore in arte (perla) e rinascita consapevole. |

Conclusione: Musica, psiche e rinascita creativa
Ripercorrere questa trilogia di album significa assistere alla trasformazione di un artista che ha usato la musica come specchio dell’anima e strumento di evoluzione. Caparezza è partito intrappolato in una gabbia invisibile – prigioniero del suo ruolo, delle sue paure e di un acufene che lo isolava nel silenzio angosciante. Ha avuto il coraggio di volgere lo sguardo dentro di sé, mettendo in discussione ogni certezza, perfino la sua identità pubblica. In Prisoner 709 l’abbiamo visto smontarsi e analizzarsi pezzo per pezzo, come un paziente e anche come il suo stesso terapeuta, armato di rime e riferimenti a Freud e Jung. Quell’album catartico, quasi un diario clinico in rima, ci ha mostrato un uomo che affronta la propria ombra e la propria vulnerabilità. Prisoner 709 è stata, in fondo, una forma di auto-narrazione terapeutica: Caparezza ha riscritto il suo mito personale, confessando la crisi d’identità per poterne uscire. Non a caso i critici lo hanno definito “un lungo monologo… un flusso di coscienza senza interruzioni” sul proprio disagio – in pratica una psicoterapia musicale che l’artista ha compiuto sotto forma di concept album.
Ma uscire dalla prigione non basta: una volta fuori occorre trovare una nuova strada. Con Exuvia, Caparezza ha compiuto il passo successivo, immergendosi in un viaggio simbolico attraverso una foresta interiore. Ha assunto le vesti dell’iniziato che affronta le prove del rito di passaggio: ha dialogato con i fantasmi del passato (Mikimix e l’adolescente che fu), ha accettato i paradossi della propria natura, ha pianto e danzato nella notte oscura del bosco. In termini psicologici, Exuvia rappresenta il processo di individuazione in atto: Michele lascia dietro di sé la vecchia “pelle” – il personaggio, gli schemi, perfino la rabbia politica degli esordi – per scoprire chi è diventato ora. Il richiamo all’esuvia, la muta degli insetti, indica proprio questo: per crescere bisogna saper morire a sé stessi, abbandonare il vecchio involucro e procedere nudi e vulnerabili verso l’ignoto. Ci vuole coraggio: Caparezza ne ha avuto, cambiando anche il suo stile musicale, rischiando di spiazzare i fan pur di essere fedele alla propria esigenza interiore di rinnovamento. Nel farlo, ha trovato anche la forza di perdonarsi – quell’abbraccio al giovane Mikimix e al padre (in Campione dei 90 ed El Sendero) simboleggia un’integrazione delle proprie radici e ombre nel Sé presente. Non è un caso che Exuvia termini con un inno alla trasformazione continua: l’uscita dal bosco è ancora da compiere, ma la direzione è tracciata.
Con Orbit Orbit arriva l’atto conclusivo: la trascendenza. Caparezza ha scelto l’unica vera libertà rimasta – l’immaginazione – e l’ha elevata a nave spaziale per viaggiare oltre i confini della realtà. Questo album-fumetto è insieme evasione e ritorno: evasione dalla gravità del mondo e insieme ritorno a sé stesso, al bambino sognatore che leggeva fumetti. Qui l’artista sperimenta una forma di auto-osservazione dall’alto: letteralmente esce dal proprio corpo (nelle scene di The NDE) e guarda la sua vita e la sua musica da esterno, come uno spirito in orbita sopra la scena. Questo punto di vista privilegiato gli consente di capire finalmente tutto: di vedere Caparezza-personaggio come parte di sé ma non totalità, di riconciliarsi con l’idea del tempo che passa, di relativizzare perfino la morte (simulata e sventata nella trama). È come se, attraversando lo spazio cosmico, Michele avesse trovato il suo spazio interiore di quiete.
Il fumetto e la musica lavorano in tandem per portarlo a questa conquista. Ciò che gli psicologi chiamano dissociazione – quel senso di distacco dal sé che in Prisoner 709 era alienante e doloroso – qui viene ricercato attivamente in forma creativa per scopi catartici: Caparezza si dissocia volontariamente (con la fantasia) fingendo di morire, e questo paradossalmente lo rende più integrato e vivo di prima. In altre parole, riesce a oggettivare il proprio ego e a non identificarsi più completamente con esso. Questa è una forma di saggezza e maturità difficilmente raggiungibile senza un profondo lavoro interiore.
All’arrivo, Perlificat ci consegna un artista rinato. Michele Salvemini, oggi cinquantenne, appare finalmente in pace: ha colmato il divario tra l’uomo e la maschera, facendo cadere quest’ultima senza paura di cosa rimanga sotto. E sotto c’è una persona che ha capito che “la vita è vivere”, non esibirsi, non compiacere, non pentirsi, non aspettare un messia o cercare di esserlo. Questa consapevolezza è quasi illuminante nella sua semplicità ed è il frutto di tutto il viaggio. La musica, il fumetto, l’immaginazione – tutti strumenti che Caparezza ha usato come specchi e mappe dell’inconscio – lo hanno condotto a una rinnovata umanità.
È commovente notare come la conclusione non sia un egocentrico “ho vinto io”, bensì un universale “abbiamo tutti questa capacità di trasformare il dolore in bellezza”. La perla che Caparezza porge con Perlificat è un dono ai suoi ascoltatori: ognuno di noi può essere quell’ostrica che, affrontando la sofferenza, secerne luce invece che veleno. In un certo senso, Caparezza sublima la sua vicenda personale in un messaggio catartico collettivo: invita ciascuno a trovare nella creatività (sia essa arte, scrittura, musica o qualsiasi forma espressiva) una via per elaborare traumi e frustrazioni.
Questa trilogia concettuale, analizzata nel suo complesso, dimostra il potere della musica come strumento di esplorazione interiore e di rinascita creativa. Caparezza ha fatto quello che i grandi narratori fanno: ha preso la sua biografia emotiva – fatta di ferite, paure, speranze – e l’ha trasfigurata in mito. Da Mikimix a Caparezza, da prigioniero a cosmonauta, ha tessuto una storia di morte e rinascita che ha valore quasi archetipico. Potremmo persino intravedere in filigrana il percorso dell’eroe: chiamata (il disagio iniziale), discesa agli inferi (Prisoner 709), prove iniziatiche (Exuvia), apoteosi e dono finale (Orbita). Il fatto che abbia usato alter-ego, scenari immaginifici e riferimenti culturali eterogenei rende il viaggio fruibile a livello pop, ma la sostanza è genuinamente psicologica e spirituale.
In conclusione, l’evoluzione artistica di Caparezza dal 2017 ad oggi è la storia di un uomo che ha saputo re-inventarsi mettendo a nudo la propria anima. Ha dimostrato che un artista non deve aver paura di mostrarsi vulnerabile, di cambiare, di crescere davanti al suo pubblico: al contrario, questa autenticità lo rende ancora più vicino e vero. Se agli inizi Caparezza era un “narratore moderno che usava la musica per scardinare luoghi comuni e stimolare pensiero”, oggi possiamo dire che ha usato la musica anche per scardinare sé stesso, ricostruendosi più forte e più libero. E nel farlo, ha offerto a noi – che ascoltiamo e leggiamo – non solo canzoni, ma frammenti di saggezza e bellezza. Ci ha ricordato che la sola libertà è l’immaginazione, ma anche che l’immaginazione deve dialogare col nostro io più profondo per guarirci. Ci ha mostrato che attraverso l’arte si può compiere un viaggio straordinario: partire da una cella e arrivare alle stelle, senza mai uscire dalla propria mente. E, soprattutto, ci ha insegnato che ogni esperienza, anche la più buia, può generare luce – che ogni granello di sabbia può diventare una perla, se abbiamo il coraggio di lavorarlo con la creatività e l’amore.
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