«Non ricordo l’ultima volta in cui ho pensato a me stessa. Ogni fibra di me è concentrata su di lui, sul tentativo disperato di salvarlo da sé stesso. Quando torna a casa ubriaco fradicio e gli tolgo le chiavi della macchina dalle mani tremanti, sento di fare la cosa giusta: lo sto aiutando. Ma a che prezzo? Ogni sua promessa infranta di smettere di bere è una coltellata. Io pulisco i cocci – letteralmente e metaforicamente – sperando che il mio amore basti a guarirlo. Mi dico che devo essere più comprensiva, più forte, più tutto. Intanto dentro di me cresce un vuoto e una stanchezza senza nome. È questa l’empatia di cui vado fiera? O è qualcos’altro, qualcosa di tossico che mi sta consumando?»
Questa testimonianza – volutamente anonima – potrebbe essere la voce interiore di una persona intrappolata nella co-dipendenza affettiva, ovvero quel circolo vizioso in cui l’empatia e il desiderio di aiutare l’altro degenerano in un comportamento di “salvataggio” tossico. In questo articolo clinico-narrativo esploreremo in profondità la trappola relazionale della co-dipendenza: definiremo con rigore concetti chiave come empatia, salvataggio e co-dipendenza (attingendo al DSM-5 e a contributi di autori come Karpman, Norwood, van der Kolk, ecc.), analizzeremo il famoso triangolo drammatico di Karpman – composto dai ruoli di Vittima, Persecutore e Salvatore – e vedremo come spesso queste dinamiche si ripropongano nelle relazioni disfunzionali. Attraverso esempi clinici e un filo narrativo che accompagna il lettore nella mente di una paziente tipo, comprenderemo come l’amore e la premura possano trasformarsi in controllo e autosacrificio. Vedremo anche come uscire da questa trappola emotiva: impareremo a riconoscerne i segnali, a costruire consapevolezza e confini emotivi sani, e passeremo in rassegna alcuni strumenti terapeutici efficaci – dalla Schema Therapy alla mindfulness e alla psicoeducazione – per spezzare il circolo vizioso. Infine, rifletteremo sul significato di una “lucida empatia”: una forma di empatia consapevole e sana, capace di accogliere l’altro con compassione senza però annullare se stessi.

Empatia, salvataggio e co-dipendenza: definizioni cliniche
Empatia – dal greco en-pathos, “sentire dentro” – è la capacità di mettersi nei panni di un’altra persona, comprendendone i pensieri e partecipando al suo stato emotivo In psicologia si distinguono componenti diverse dell’empatia: ad esempio, l’empatia cognitiva (capire razionalmente il punto di vista e le emozioni altrui) e l’empatia affettiva (sentire sulle proprie corde interiori ciò che l’altro prova, pur mantenendo un certo distacco). Quest’ultimo punto è cruciale: un’empatia sana implica la condivisione vicariante delle emozioni altrui senza esserne travolti. Come notava Carl Rogers, pioniere della psicoterapia centrata sul cliente, il terapeuta (o qualsiasi persona empatica) deve sforzarsi di “sentire l’ira, la paura, il turbamento [dell’altro] come se fossero nostri, senza però perdere mai di vista la qualità del ‘come se’… senza aggiungervi la propria ira, la propria paura, il proprio turbamento”. In altre parole, l’empatia autentica richiede una presenza partecipe ma lucida, dove chi comprende l’altro non smarrisce il confine tra sé e l’altro.
Salvataggio (in senso psicologico-relazionale) si riferisce a un pattern di comportamento in cui una persona cerca costantemente di “aggiustare” o salvare l’altro dai suoi problemi, assumendosi responsabilità e oneri che non le competono. Questo atteggiamento va oltre l’altruismo sano: diventa compulsivo, un bisogno di essere necessari. Nel triangolo drammatico di cui parleremo a breve, questo è il ruolo del Salvatore, colui che accorre sempre in aiuto della “vittima” proclamando “Ti aiuto io!”. Il Salvatore si sente mosso da buone intenzioni, spesso crede sinceramente di amare e di aiutare. Tuttavia, questo aiutare è tossico perché alimenta la dipendenza e l’irresponsabilità altrui (la vittima rimane tale, attendendo sempre un salvatore) e allo stesso tempo permette al Salvatore di evitare i propri problemi, gratificandosi con un senso di superiorità morale. Chi assume sistematicamente il ruolo di salvatore tende infatti a sentirsi “grande, buono, migliore” degli altri risolvendo i loro problemi (spesso senza che gli venga chiesto), e prova frustrazione o senso di colpa quando non riesce nella sua missione. In sintesi, il “complesso del salvatore” trasforma l’empatia in iper-responsabilità verso l’altro, violando confini e generando dinamiche malsane di controllo mascherato da amore.
Co-dipendenza è il termine che descrive questa trappola relazionale di dipendenza reciproca, in cui almeno una delle due parti (il co-dipendente) mette in atto il salvataggio tossico. In una relazione di co-dipendenza, la persona sacrifica sistematicamente i propri bisogni per soddisfare quelli dell’altro, traendo il proprio senso di valore dall’esserne indispensabile. Si crea dunque un marcato squilibrio emotivo e una interdipendenza psicologica disfunzionale: il benessere (e l’identità) del co-dipendente finisce per dipendere totalmente dall’altro. Il termine co-dipendenza ha origini storiche precise: venne usato a partire dagli anni ’50 per indicare i “co-alcolisti”, ossia i partner o familiari di persone con dipendenza da alcol, i quali mostravano a loro volta un malessere e comportamenti disfunzionali nel tentativo di prendersi cura dell’alcolista. Questi familiari dedicavano la propria vita a gestire il membro dipendente, sacrificando sé stessi e spesso inconsciamente agevolando la continuazione dell’alcolismo (es. coprendo le sue mancanze, evitando di farlo confrontare con le conseguenze delle proprie azioni). Non a caso, furono creati gruppi di auto-aiuto non proprio per supportare i familiari “co-dipendenti” di alcolisti. In seguito, il concetto si è ampliato: Robin Norwood nel celebre libro “Donne che amano troppo” (1985) mise in luce come molte donne rimangano intrappolate in relazioni dove “amare” significa in realtà iper-sopportare e iper-accudire partner problematici, spesso a causa di schemi appresi nell’infanzia. Tipicamente, chi sviluppa una co-dipendenza proviene da famiglie in cui i propri bisogni emotivi da bambino sono stati trascurati o dove c’era mancanza di affetto autentico; da adulto tenderà a ricreare col partner lo stesso ruolo di cura o sottomissione vissuto con i genitori, avendo interiorizzato l’idea che l’amore significhi farsi carico dell’altro e controllare ossessivamente la relazione per paura dell’abbandono.
Dal punto di vista diagnostico, è importante notare che la “co-dipendenza” in sé non è una categoria clinica ufficiale del DSM-5 (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Non troveremo nel DSM-5 una diagnosi chiamata “disturbo da co-dipendenza” – il manuale non la cita esplicitamente né la riconosce come entità clinica autonoma. Piuttosto, la co-dipendenza viene considerata un pattern relazionale disfunzionale, spesso correlato ad altri disturbi o condizioni (come il Disturbo Dipendente di Personalità, le dipendenze comportamentali o gli esiti di traumi complessi). Ciò non toglie che la co-dipendenza sia oggetto di crescente attenzione clinica per le sue conseguenze sulla salute mentale. In termini descrittivi, potremmo definirla così: una modalità patologica di relazione in cui un individuo vive il rapporto affettivo in modo totalizzante e auto-sacrificante, subordinando completamente la propria identità, autostima ed equilibrio emotivo al legame con l’altro. Chi ne soffre mostra spesso tratti simili a una dipendenza vera e propria: comportamenti compulsivi (bisogno incontrollabile di essere sempre in connessione e di “aggiustare” l’altro), tolleranza (serve aiutare sempre di più per sentirsi appagati), astinenza (angoscia profonda se viene meno il contatto con l’altro) e rischio di ricaduta nei vecchi schemi nonostante i tentativi di cambiamento. In altre parole, la relazione diventa “indispensabile, quasi vitale”, al punto che anche se causa sofferenza la sola idea di allontanarsene risulta .
Riassumendo, l’empatia è una risorsa fondamentale nelle relazioni umane, ma nella co-dipendenza essa si intreccia con dinamiche di controllo, paura e bassa autostima fino a trasformarsi in qualcosa di molto diverso: un tentativo esasperato di “salvare” l’altro per dare un senso a sé stessi. Per capire meglio questi ruoli e meccanismi, esaminiamo ora il modello di riferimento per eccellenza delle relazioni disfunzionali di questo tipo: il Triangolo Drammatico di Karpman.
Il triangolo drammatico di Karpman: vittima, persecutore e salvatore
Lo psicologo Stephen Karpman, nel 1968, propose nell’ambito dell’Analisi Transazionale un modello chiamato Triangolo Drammatico (o “drama triangle”) per descrivere i giochi psicologici che avvengono nelle relazioni disfunzionali. In questo triangolo interpersonale troviamo tre ruoli che le persone possono assumere, spesso in modo inconsapevole e talora alternandoli tra loro: Vittima, Persecutore e Salvatore. Si tratta di copioni relazionali ricorrenti: le persone agiscono come seguendo un copione prestabilito in cui ciascun ruolo soddisfa certi bisogni psicologici nascosti. Vediamo nel dettaglio ciascun ruolo:
- Vittima – “Povero me!”. La Vittima si sente oppressa, incapace, senza speranza di cavarsela da sola. Anche quando realmente subisce un torto, nel gioco psicologico la caratteristica è che la Vittima rinuncia al proprio potere personale: si percepisce piccola e indifesa, bisognosa di qualcuno che la salvi. In effetti, la Vittima del triangolo drammatico spesso non è realmente impotente come crede, ma evita di prendersi responsabilità (non ama assumersi colpe) e tende a cercare costantemente aiuto esterno. La sua “forza è tenuta ben nascosta”, e mostrando debolezza ottiene attenzione da parte di Persecutore e Salvatore (e può indurre sensi di colpa negli altri, spingendoli a soccorrerla). Il vantaggio psicologico per chi recita il ruolo di Vittima è soddisfare un bisogno di dipendenza: delegare ad altri la responsabilità della propria vita e giustificare così la propria immobilità (“non posso fare nulla, servirebbe un miracolo esterno per aggiustare le cose…”).
- Persecutore – “È tutta colpa tua!”. Il Persecutore si pone con atteggiamento critico, aggressivo, di superiorità e controllo. Attacca e colpevolizza la Vittima, spesso con rabbia e giudizio, incolpandola per tutto. Può manifestare comportamenti verbalmente o fisicamente violenti, minacciosi, o più sottilmente svalutanti. Sul piano psicologico, il Persecutore nasconde sotto la sua corazza di arroganza una profonda debolezza e paura: teme di essere ferito o di perdere potere, e probabilmente è stato ferito in passato, perciò indossa la maschera del duro per non sentirsi mai più vulnerabile. Mettendo gli altri continuamente sotto accusa, evita di confrontarsi con le proprie insicurezze e mantiene una posizione di controllo. In realtà, perseguitando la Vittima, anche il Persecutore resta invischiato nel gioco disfunzionale: la sua apparente forza nasconde un bisogno di sentirsi superiore perché non crede di poter essere amato diversamente, e paradossalmente dipende dalla Vittima (gli serve qualcuno da denigrare per sentirsi “ok”).
- Salvatore – “Ti aiuto io!”. Il Salvatore è colui che si prodiga in aiuto altrui in modo eccessivo e non richiesto, spesso animato da un senso di missione. Condivide col Persecutore un sentimento di superiorità, ma lo manifesta diversamente: invece di dominare apertamente l’altro, il Salvatore lo “sommerge” di soluzioni, consigli e aiuto non sollecitato, garantendosi così la sensazione di essere buono e indispensabile.
- Egli risolve i problemi al posto della Vittima, magari dicendo a sé stesso che lo fa “per amore” o “per il suo bene”, ma l’effetto è di mantenere l’altro in una posizione di dipendenza e subordinazione. La Vittima infatti, salvata in continuazione, non impara mai a cavarsela da sola. In questo modo il Salvatore alimenta il circolo disfunzionale mentre soddisfa indirettamente i propri bisogni interiori: proietta all’esterno i propri desideri e fragilità, fingendo di non aver mai bisogno di nulla per sé. Come sintetizza Karpman, il Salvatore nasconde i propri bisogni: aiuta gli altri per non affrontare il vuoto o i problemi dentro di sé. Si sente utile, forte, virtuoso solo quando qualcuno dipende dal suo aiuto, il che lo porta a cercare costantemente persone “da salvare”. Spesso, se non riesce nella sua missione, sperimenta forte frustrazione o senso di colpa. Questo può sfociare in risentimento e – ecco il colpo di scena – talvolta il Salvatore esasperato si trasforma esso stesso in Persecutore (rimproverando la Vittima che “non si lascia aiutare” o che “ricade negli errori nonostante tutto quello che ho fatto per te!”). Altre volte, se spinge troppo, finisce per vittimizzare sé stesso, prosciugandosi di energie e lamentandosi di quanto nessuno lo apprezzi.
Una caratteristica importante del triangolo di Karpman è che i ruoli possono ruotare: non sono fissi, una stessa persona può passare da un ruolo all’altro nel tempo. Ad esempio, all’inizio una persona può porsi come Salvatore di un partner in difficoltà; col tempo, se frustrata, può scivolare nel ruolo di Persecutore, aggredendo verbalmente il partner perché “non migliora” o perché “dopo tutto quello che ho fatto mi tratti così”. Oppure, una Vittima esasperata può ribellarsi e diventare Persecutore verso il suo (ex) Salvatore. Questi scambi di ruolo alimentano quelli che Karpman definisce veri e propri “giochi” psicologici: interazioni ripetitive e manipolative in cui ognuno recita la sua parte e nessuno si assume la responsabilità autentica delle proprie emozioni. Infatti, ciò che accomuna tutti e tre i ruoli del triangolo drammatico è una svalutazione sia di sé stessi sia dell’altro. Ognuno, a modo suo, sta evitando di affrontare la realtà dei propri sentimenti e bisogni: il Salvatore evitando la propria vulnerabilità (si sente forte solo se l’altro è debole), il Persecutore evitando la propria paura (si sente potente solo umiliando un altro), la Vittima evitando la propria forza (si sente al sicuro solo se qualcuno si prende cura di lei). È facile intuire come queste dinamiche portino a relazioni altamente tossiche e stagnanti, in cui i problemi non si risolvono mai davvero: si gira continuamente sullo stesso triangolo, in una drammatica alternanza di accuse, salvataggi e recriminazioni.
Nella co-dipendenza affettiva, tipicamente troviamo il binomio Vittima–Salvatore come nuclei iniziali del rapporto, con possibili scambi reciproci e l’occasionale comparsa del ruolo di Persecutore. Spesso, chi è co-dipendente preferisce il ruolo di Salvatore (ha bisogno di sentirsi utile e di “aggiustare” l’altro) e si accompagna a partner che inizialmente appaiono fragili, problematici, bisognosi d’aiuto – dunque Vittime ideali. Pensiamo al caso, purtroppo comune, di una donna (co-dipendente) che si innamora di un uomo con dipendenza da alcool o droga: lei si mette in testa di salvarlo col suo amore, lui all’inizio appare come una “povera anima da aiutare” (Vittima) e accetta volentieri le cure. Si innesca il gioco. Lei lo accudisce, lo copre quando combina guai, gli trova continuamente scuse. Lui promette ogni volta di smettere per amore di lei, dice che senza di lei sarebbe perduto, che grazie al suo aiuto cambierà. Per un periodo le cose sembrano funzionare: la speranza del “lieto fine” tiene la coppia unita. Ma presto il comportamento disfunzionale si ripresenta – la ricaduta: ad esempio, il partner ricomincia a bere o si caccia nell’ennesimo guaio. A questo punto il ruolo della Vittima può mutare in Persecutore: l’uomo magari diventa aggressivo, accusa la compagna di volerlo controllare, le chiede soldi o le rinfaccia qualcosa, facendola sentire in colpa; oppure la respinge brutalmente (“lasciami in pace, non ho bisogno del tuo aiuto!”). Adesso la co-dipendente diventa Vittima: subisce passivamente gli attacchi, soffre e si dispera. Finché, passato il ciclone, l’uomo crolla nei sensi di colpa o nelle difficoltà e torna a implorare aiuto – di nuovo Vittima bisognosa – e la diade si ricompone: lei torna a fare il Salvatore, lui la Vittima. Questo circolo vizioso può ripetersi all’infinito, in quella che è stata definita una vera e propria “spirale distruttiva” della co-dipendenza. Ogni volta, nonostante le promesse mancate e le delusioni, la persona co-dipendente si aggrappa all’illusione salvifica: crede che cambiando approccio, sacrificandosi un po’ di più o “amandolo di più”, prima o poi riuscirà a salvarlo davvero e ottenere finalmente la relazione appagante che desidera.
Chi osserva dall’esterno queste situazioni spesso si chiede: “Ma perché continua a stare con lui/lei? Perché non lo lascia se sta così male?”. La risposta sta proprio nelle dinamiche psicologiche profonde che abbiamo descritto: la co-dipendenza è alimentata da convinzioni e bisogni inconsci radicati. Analizziamo allora più da vicino la dinamica empatia-salvataggio tossico, ovvero come una nobile qualità come l’empatia possa venire distorta fino a diventare autodistruttiva, e quali credenze patogene tengono imprigionata la persona in questo ruolo di “salvatore sacrificante”.
La dinamica empatia-salvataggio tossico: quando aiutare l’altro significa perdere sé stessi
Dal punto di vista soggettivo del co-dipendente, tutto comincia spesso con un’elevata sensibilità empatica e un forte desiderio di prendersi cura dell’altro. Tornando alla nostra voce narrante anonima: lei sente profondamente il dolore di Luca, il suo compagno alcolista; ne percepisce la sofferenza, le fragilità, e prova un autentico slancio nel volerlo aiutare. Questa è la spinta empatica, in sé positiva. Il problema è che, nella co-dipendenza, tale empatia si intreccia a paure e insicurezze personali, trasformandosi in una sorta di “dovere morale assoluto” di salvare l’altro. Si passa da “ti capisco e ti sono vicino” a “devo aggiustarti io, ad ogni costo”.
Perché alcune persone scivolano in questa trappola? Le ricerche cliniche suggeriscono che all’origine del comportamento co-dipendente ci sono precise credenze patologiche e ferite profonde. Spesso il co-dipendente ha un forte senso d’insicurezza, inadeguatezza e scarsa autostima, tale per cui sente di avere valore “soltanto nel momento in cui è necessario e indispensabile per un altro”. In altre parole, si crede di non poter essere amati per quello che si è, ma solo per quello che si fa per l’altro. Da questa convinzione discende un corollario: il pensiero (spesso inconscio) che “sacrificarsi è il prezzo da pagare per non essere abbandonati” Se ho interiorizzato che “nessuno può amarmi davvero, a meno che non abbia bisogno di me”, allora alimenterò io stesso situazioni in cui l’altro ha bisogno di me – altrimenti mi sentirei inutile e verrei lasciato/a. Ecco perché tanti co-dipendenti scelgono partner problematici: inconsciamente cercano una persona “da aggiustare” proprio perché questo li fa sentire validi e li rassicura che l’altro non li lascerà (come farebbe, senza il loro sostegno?).
Questa dinamica spiega anche un fenomeno paradossale ma documentato: il co-dipendente, pur lamentandosi a parole dei problemi del partner, teme la sua guarigione. Se il partner “problematico” effettivamente smettesse di avere bisogno, il co-dipendente perderebbe il suo ruolo e si sentirebbe in pericolo di abbandono. Nel profondo, quindi, può esserci una segreta paura o resistenza verso il fatto che l’altro migliori davvero, perché ciò renderebbe il salvatore “non più utile” e quindi – ai suoi occhi – non più amabile.
Ad esempio, la compagna di un alcolista potrà dire di volere disperatamente che lui smetta di bere; ma se lui davvero smettesse e iniziasse a stare bene da solo, lei potrebbe sentirsi spiazzata, vuota, perfino minacciata: “adesso non mi servi più, potresti lasciarmi…”. Sono dinamiche spesso inconsce, difficili da ammettere, ma potentissime nel mantenere lo status quo.
Un altro pilastro della psicologia della co-dipendenza è la difficoltà a riconoscere e legittimare i propri bisogni emotivi. Chi si incastra nel ruolo di salvatore sviluppa quella che Norwood e altri autori hanno chiamato la mentalità del “martire”: crede che amare significhi soffrire e sacrificarsi, che mettere l’altro al primo posto sempre e comunque sia una virtù, mentre occuparsi di sé è egoismo. Questo schema spesso ha radici antiche, magari in famiglie dove il bambino ha imparato che per essere accettato doveva essere “bravo e buono”, non dare problemi e magari farsi carico dei problemi altrui (per esempio accudire un genitore depresso, proteggere i fratellini, ecc.). Così, da adulto, quel bambino sarà ipersensibile alle necessità altrui e quasi cieco di fronte alle proprie. La bassa autostima e il forte bisogno di approvazione fanno sì che il co-dipendente cerchi costantemente conferme esterne: vuole sentirsi dire “sei importante, non posso farcela senza di te”. E quale situazione più favorevole di avere accanto qualcuno di estremamente fragile o disfunzionale? Ecco che l’empatia innata verso chi soffre, combinata a queste insicurezze, crea un cocktail pericoloso: la persona non riesce più a porre limiti al proprio aiutare. Supera continuamente i propri limiti fisici ed emotivi pur di “salvare” l’altro, anche quando questo significa subire abusi, stress, umiliazioni.
Dal di fuori, infatti, il salvataggio tossico appare come un inspiegabile auto-sabotaggio: vediamo persone altruiste, buone, pazienti, che però tollerano l’intollerabile e restano invischiate in relazioni che le fanno soffrire terribilmente. Spesso sviluppano sintomi di ansia, depressione, esaurimento, senza tuttavia riuscire a tirarsi fuori dalla relazione distruttiva. Come mai? Perché in loro agisce questa convinzione profonda: “il mio compito è aggiustare l’altro; se fallisco, non valgo nulla; se rinuncio, sarò abbandonato e solo”. In quest’ottica, sopportare il dolore è preferibile al rischio di perdere la relazione, per quanto tossica.
Rileggiamo uno stralcio del nostro racconto iniziale attraverso questa lente: la protagonista narrante dice “mi dico che devo essere più comprensiva, più forte, più tutto” – evidenziando come attribuisca a sé stessa la responsabilità di far funzionare la relazione, caricandosi sempre di più. Dice anche: “mi sta consumando” – perché infatti il costo personale è altissimo, e lei ne ha consapevolezza crescente ma mescolata al senso del dovere. Nota come usa la parola “salvarlo da sé stesso”: letteralmente vede sé come l’eroina e lui come incapace di autodeterminazione. Questa asimmetria è la base della co-dipendenza: uno diventa il progetto di vita dell’altro.
A questo punto, è utile chiedersi quali siano i segnali concreti che indicano che l’empatia si è trasformata in salvataggio tossico e co-dipendenza. Non ogni persona empatica verso un partner problematico è necessariamente co-dipendente. Dove sta il confine? La differenza principale è nei confini personali e nel bilanciamento dei bisogni. Aiutare in modo sano implica mantenere la propria integrità e riconoscere l’autonomia dell’altro; il salvataggio tossico invece si riconosce da uno schema di iperservizio e auto-negazione sistematica. Vediamo alcuni sintomi tipici.
Esempi clinici e segnali per riconoscere la co-dipendenza
Giulia, la protagonista fittizia del nostro racconto, incarna molte delle caratteristiche classiche della co-dipendente affettiva. Ha 35 anni, e da cinque è in una relazione turbolenta con Luca, 40 anni, il quale alterna momenti di grande dolcezza a periodi bui legati al suo alcolismo. Giulia racconta che all’inizio Luca le fece molta pena: “usciva da un periodo difficile, diceva che ero l’unica cosa bella della sua vita”. Si è sentita investita di una missione: aiutarlo a ritrovare la felicità. Col tempo però il suo atteggiamento di cura eccessiva è diventato totalizzante. Come spesso accade nelle co-dipendenze, Giulia non si è accorta subito del proprio progressivo annullamento. Pian piano ha smesso le sue attività preferite, ha perso contatto con amici e familiari, ogni energia era per Luca. Ogni volta che lui aveva una crisi di binge drinking o perdeva il lavoro per via dell’alcol, Giulia interveniva a “mettere una pezza”: gli trovava nuovi impieghi, mentiva ai colleghi per coprire le sue assenze, lo accudiva amorevolmente quando stava male fisicamente. Da fuori sembrava una compagna devota. In realtà, Giulia viveva in uno stato di ansia costante, controllando ogni mossa di Luca nel timore di una sua ricaduta. “Dormivo con un occhio solo”, dice, “aspettando di sentire se si alzava di notte per bere”. La sua empatia verso la sofferenza di Luca si era mescolata alla paura del conflitto: evitava accuratamente di contraddirlo o imporgli limiti, temendo che lui la lasciasse o crollasse definitivamente. Si mostrava comprensiva oltre ogni logica, perdonandogli bugie e promesse infrante, ma dentro di sé covava tristezza e rabbia inespressa. Giulia ricorda una notte in cui Luca, ubriaco, le urlò contro accusandola di volerlo controllare e di essere lei la causa del suo bere. Pur essendo un’accusa ingiusta, Giulia finì in lacrime scusandosi con lui! Questo evento evidenzia come, nel suo caso, il confine personale fosse totalmente crollato: Luca era passato temporaneamente al ruolo di Persecutore, e lei completamente in quello di Vittima, assumendosi colpe non sue pur di mantenere la pace.
Come Giulia, tante persone in relazioni co-dipendenti faticano a vedere la patologia della situazione, perché spesso sono individui molto empatici, generosi e abituati a prendersi cura. Si auto-convincono che stanno solo “facendo del bene” e che il loro è amore vero. È fondamentale dunque sapersi porre le giuste domande e riconoscere i campanelli d’allarme. La psicologia clinica ha individuato diversi segnali ricorrenti della co-dipendenza. Eccone alcuni tra i più comuni
- Difficoltà a stabilire confini sani: la persona co-dipendente non riesce a dire “no” alle richieste dell’altro, anche quando sarebbero irragionevoli o dannose. Ha un’enorme paura del rifiuto o dell’abbandono, per cui asseconda l’altro in tutto pur di evitare conflitti o distanze. Ad esempio, Giulia non riusciva a porre limiti a Luca: gli ha sempre permesso di tornare a casa ubriaco a qualsiasi ora, di spendere soldi in alcol dal loro conto comune, di urlarle contro – senza mai imporgli un ultimatum o conseguenze reali.
- Bisogno di approvazione costante: l’autostima del co-dipendente dipende interamente dall’opinione e dall’umore dell’altra persona. Se l’altro è soddisfatto, si sente valido; se l’altro è arrabbiato o deluso, si sente uno zero. Questo porta a un camaleontismo emotivo: i propri stati d’animo si modellano su quelli altrui. Giulia ad esempio confessava: “Se Luca era di cattivo umore, anche la mia giornata era rovinata; se lui invece mi diceva sei la mia salvezza, mi sentivo al settimo cielo per un po’”.
- Tendenza al controllo e iper-responsabilità: paradossalmente, pur sentendosi vittima degli eventi, il co-dipendente esercita un controllo esasperato sui problemi dell’altro. Vuole essere lui/lei a risolvere ogni questione – anche a scapito del proprio benessere. Si tratta di un controllo “benevolo” ma pur sempre controllo: la persona crede di sapere cosa sia meglio per l’altro e si assume l’incarico di aggiustare ogni cosa. Ciò riflette una certa onnipotenza: “solo io posso aiutarti; senza di me andrai in pezzi”. In Giulia vedevamo questo nel suo monitorare continuamente Luca e nel prendere decisioni per lui (come buttare via le bottiglie di alcol di nascosto, chiamare lei il suo capo per giustificarlo, ecc.).
- Negazione dei propri bisogni e delle proprie emozioni: il co-dipendente trascura sistematicamente sé stesso. Non ha tempo, energie né attenzione da dedicare alle proprie esigenze fisiche o mentali, perché tutto è assorbito dall’altro. Col tempo, può persino perdere contatto con ciò che vuole o sente davvero, sviluppando uno stato di vuoto interiore. Giulia, ad esempio, aveva rinunciato alla palestra, smesso di dipingere (sua passione), e persino trascurato la propria salute – non trovava mai un momento per andare dal dentista o farsi esami, mentre era sempre occupata a portare Luca alle sue visite mediche.
- Ansia e senso di colpa costanti: il vissuto emotivo di base è uno stato d’ansia cronica (paura che qualcosa vada storto all’altro, timore di “non fare abbastanza”) accompagnato da frequenti sensi di colpa. Ci si sente sempre in difetto: “potevo aiutarlo meglio, ho sbagliato qualcosa, è colpa mia se lui sta male”. Questo non fa che alimentare ulteriormente il ciclo: per placare il senso di colpa, ci si dedica ancor di più al partner, in un circolo auto-perpetuante. Giulia provava un enorme senso di colpa ogni volta che si arrabbiava internamente con Luca: immediatamente lo soffocava, dicendo a sé stessa che era una “cattiva persona” per non avere abbastanza pazienza con lui.
Questi segnali, quando persistono e si intrecciano, delineano chiaramente un quadro di co-dipendenza affettiva. È importante sottolineare che spesso chi li vive tende a minimizzarli o giustificarli: “è normale in una relazione essere preoccupati per l’altro…”, “lo faccio perché lo amo…”, “se io non lo aiutassi, chi lo farebbe?”. Se vi riconoscete in molti di questi punti, però, vale la pena fermarsi a riflettere. Una domanda chiave proposta dagli esperti è: “Ti stai forse facendo del male nel tentativo di aiutare qualcun altro?”. Se la risposta è sì, allora l’aiuto ha oltrepassato il confine ed è diventato autodistruttivo.
Nel caso della nostra Giulia, la svolta è arrivata quando il suo corpo e la sua psiche hanno iniziato a crollare: attacchi di panico notturni, dimagrimento eccessivo, isolamento totale. Un giorno, mentre raccoglieva per l’ennesima volta vomito di Luca dal pavimento del bagno, ha sentito un capogiro e ha pensato: “Non ce la faccio più, così muoio”. Quell’episodio l’ha spinta a cercare aiuto per sé stessa. Chiedere aiuto – ironicamente, per chi è sempre nella posizione di salvatore – è difficilissimo. Ma Giulia decise di rivolgersi a una psicoterapeuta, rendendosi conto che la situazione le era sfuggita di mano.
A questo punto inizia il percorso di uscita dalla trappola. È un cammino delicato, fatto di prese di coscienza dolorose e cambiamenti graduali. Affronteremo ora come si può spezzare la co-dipendenza, attraverso quali strumenti terapeutici e strategie pratiche. Prima di tutto, però, occorre il passo fondamentale: diventare consapevoli del problema e decidere di invertire la rotta.
Uscire dalla trappola della co-dipendenza: consapevolezza e percorso terapeutico
La via d’uscita dalla co-dipendenza è un percorso che richiede tempo, supporto e un profondo lavoro su di sé. Non esistono soluzioni magiche o immediate, poiché spesso si tratta di scardinare schemi relazionali e convinzioni radicate fin dall’infanzia. Tuttavia, la buona notizia è che guarire si può. Migliaia di persone sono riuscite a trasformare relazioni malate in rapporti sani – o a lasciarle per costruirne di nuove – riscoprendo la propria autonomia emotiva. Vediamo quali sono le fasi e gli strumenti principali di questo percorso di cambiamento (molti specialisti li descrivono in passi graduali):
- Riconoscere il problema – Sembra banale, ma è il passo più cruciale: ammettere a sé stessi di essere intrappolati in una dinamica relazionale disfunzionale. Finché si è nel diniego (“va tutto bene, è solo un momento, devo solo impegnarmi di più”), nulla potrà cambiare. È necessario osservare onestamente i propri comportamenti e le proprie emozioni, riconoscendo che il sacrificio continuo non è sano né necessario. In terapia, a Giulia fu chiesto di tenere un diario delle situazioni che la facevano stare male e delle azioni che compiva per “aggiustarle”: rileggendolo dopo una settimana, rimase scioccata dal vedere nero su bianco quanto dolore e quanta auto-negazione c’erano nelle sue giornate. Questo l’aiutò a prendere sul serio il problema.
- Rafforzare l’autostima e il senso di sé – La co-dipendenza si nutre della svalutazione di sé. È quindi fondamentale iniziare un lavoro di recupero dell’autostima indipendentemente dall’approvazione altrui. In terapia, tecniche basate sull’autocompassione (imparare a trattare sé stessi con la gentilezza che si riserva agli amici) e sull’assertività (esercitarsi a esprimere bisogni e opinioni) possono aiutare a costruire sicurezza interiore. Un esercizio che la terapeuta di Giulia le assegnò fu di fare ogni giorno qualcosa solo per sé – anche piccola – e annotare le sensazioni provate. All’inizio Giulia provava senso di colpa anche solo a leggere un libro mezz’ora invece di controllare Luca, ma pian piano ha iniziato a riscoprire piacere e valore in momenti che non riguardavano il partner. Parallelamente, ha affrontato con la psicologa le sue convinzioni di indegnità, ricostruendo il legame tra queste e le esperienze infantili (un padre molto esigente e anaffettivo, una madre che le diceva “devi essere forte tu, perché papà ha i suoi problemi”). Riconoscere che non c’era nulla di “sbagliato” in lei sin da piccola l’ha aiutata a capire che meritava amore e cura a prescindere dal salvare gli altri.
- Imparare a stabilire confini sani – Questo passo è centrale: reintrodurre i confini nelle relazioni, ovvero separare le proprie responsabilità da quelle altrui. Significa iniziare a dire “no” quando qualcosa supera i propri limiti, senza sentirsi mostri egoisti per questo. Vuol dire anche ritagliarsi spazi personali inviolabili e pretendere rispetto per i propri bisogni fondamentali. Molte volte il co-dipendente non sa nemmeno da dove cominciare, perché i confini sono stati assenti per anni. Un principio chiave che viene insegnato è: ognuno è responsabile delle proprie azioni ed emozioni, non di quelle degli altri. Mark Manson definisce i confini personali sani proprio come la capacità di prendersi carico di sé e non prendersi carico di ciò che spetta all’altro Per Giulia, stabilire confini ha significato ad esempio comunicare a Luca che non avrebbe più mentito per coprirlo con il capo (e mantenere questa decisione nonostante le implorazioni di lui), oppure imporgli di non presentarsi a casa ubriaco se voleva continuare a vivere con lei. La prima volta che provò a dirgli “No, questa cosa non la faccio”, ebbe una crisi di ansia la notte – segno di quanto fosse radicata la paura. Ma con il supporto terapeutico ha imparato a tollerare quel senso di colpa iniziale e a vedere che, ponendo limiti, non succedeva nulla di catastrofico: anzi, Luca ha iniziato a prendere più sul serio il suo stesso problema quando ha visto che lei non lo copriva più. Un aspetto importante dei confini è anche imparare a lasciare all’altro la responsabilità delle sue scelte e conseguenze. In pratica: se il partner ricade, non correre subito a salvarlo; se combina guai, lasciare che ne affronti gli effetti. Questo è difficile perché il co-dipendente si sente in colpa e teme di essere colpevolizzato (“se gli volessi bene non lo lascerei soffrire”). Ma è l’unico modo affinché l’altro possa realmente confrontarsi con la realtà e magari decidere di cambiare per proprio conto. Giulia, ad esempio, con la terapia è riuscita a lasciar toccare il fondo a Luca una volta: quando lui fu fermato in stato di ebbrezza alla guida, lei – consigliata anche dai membri di Al-Anon che aveva iniziato a frequentare – non è corsa immediatamente in soccorso; ha lasciato che passasse una notte in cella di sicurezza. Quell’episodio fu un punto di svolta per Luca, che accettò di iniziare un percorso di disintossicazione. Ma anche se non lo fosse stato, per Giulia sarebbe rimasto un punto di svolta personale: aveva finalmente capito di non dover essere la salvatrice ad ogni costo, e che poteva sopravvivere emotivamente nel permettere a lui di affrontare le conseguenze dei suoi atti.
- Affrontare le cause profonde – Uscire dalla co-dipendenza non è solo questione di comportamenti, ma di guarire dall’interno. Spesso è necessario esplorare, preferibilmente in un percorso di psicoterapia, le radici di queste dinamiche. Ciò significa elaborare le esperienze infantili che hanno contribuito a formare i nostri schemi di attaccamento e di valore personale.
- Nel caso di Giulia, gran parte del lavoro terapeutico ha riguardato la sua storia familiare: ha potuto esprimere il dolore per l’affetto negato da piccola, riconoscere la rabbia verso i genitori (che aveva sempre giustificato), e infine distinguersi da loro – capire che poteva scegliere modi diversi di vivere le relazioni. Diverse approcci psicoterapeutici possono aiutare in questa fase. Ad esempio la Schema Therapy (terapia focalizzata sugli schemi) si è rivelata molto utile per tanti pazienti con dipendenza affettiva: questo approccio mira a identificare gli schemi maladattivi precoci – come lo schema di abbandono, lo schema di autosacrificio, lo schema di dipendenza/incompetenza ecc. – spesso radicati nell’infanzia, e a modificarli gradualmente. Nel percorso di Giulia, la terapeuta ha identificato in lei uno schema di Abbandono (“le persone che ami ti lasciano o ti trascurano”) unito a uno schema di Autosacrificio (“per essere amata devo dare tutto e non chiedere nulla”). Lavorando con tecniche esperienziali, immaginative e comportamentali, Giulia ha imparato a “ridimensionare” queste convinzioni: ha sviluppato un Adulto interno più forte in grado di prendersi cura del suo Bambino vulnerabile senza bisogno di mendicare amore attraverso il sacrificio. Altre terapie efficaci includono l’approccio sistemico-relazionale (che guarda alle dinamiche di famiglia e coppia), o la psicoterapia psicodinamica focalizzata sull’attaccamento. In alcuni casi, quando coesistono traumi significativi, sono utili terapie specifiche per il trauma (EMDR, terapia sensomotoria, ecc.) poiché, come ha spiegato il famoso psichiatra Bessel van der Kolk, il trauma infantile altera la capacità di autoregolazione emotiva e limita la consapevolezza di sé, predisponendo la persona a difficoltà nel porre confini e nel mantenere un positivo senso di sé. Molti co-dipendenti, infatti, sono sopravvissuti a traumi relazionali (abusi, trascuratezza, violenza domestica da piccoli) e hanno imparato a sopravvivere sviluppando un’estrema attenzione ai bisogni altrui e un comportamento di people-pleasing (“compiacere” o farsi piccoli per evitare pericoli). Elaborare questi traumi aiuta a spezzare quell’automatismo per cui si mettono sempre gli altri davanti, e a rilasciare le paure profonde di rifiuto. Approcci come la mindfulness e lo yoga (citati dallo stesso van der Kolk) possono essere integrati per imparare a regolare le proprie emozioni e tornare nel proprio corpo, ripristinando il collegamento mente-corpo spesso compromesso dal trauma. La mindfulness, in particolare, insegna a osservare senza giudizio le proprie sensazioni e pensieri momento per momento: per un co-dipendente, questa pratica è preziosa perché lo aiuta a riconoscere quando scatta l’impulso ansioso di intervenire subito per “salvare” l’altro, e a tollerare quell’ansia senza agire impulsivamente. È come imparare a sedersi con il proprio disagio invece di scappare risolvendo il disagio dell’altro. Studi sulle dipendenze mostrano che la mindfulness può ridurre i comportamenti compulsivi e migliorare l’equilibrio emotivo, il che la rende un buon complemento nel percorso di uscita dalla co-dipendenza (che è anch’essa una forma di comportamento compulsivo-relazionale).
- Coltivare relazioni sane e autentiche – L’obiettivo finale è costruire (o ricostruire) relazioni basate sul reciproco rispetto, sull’autenticità e sull’autonomia reciproca. Ciò significa uscire dalla logica “io ti salvo/tu mi salvi” e approdare a una dinamica “io sto bene con me stesso e con te, senza doverci salvare a vicenda”. Dopo aver fatto i passi precedenti – consapevolezza, autostima, confini, guarigione interiore – è importante mettere in pratica i nuovi modi di relazionarsi. Questo può comportare scelte difficili: in alcuni casi, la relazione tossica originaria non sopravvive al cambiamento, perché l’altro partner potrebbe rifiutare il nuovo equilibrio. Ad esempio, se Luca non avesse accettato di lavorare su di sé e Giulia avesse continuato nel suo percorso, probabilmente la storia sarebbe finita. E infatti chi esce da co-dipendenze a volte deve affrontare la fine del rapporto (cosa che prima temeva come la peste, ma che ora può gestire con maggiore resilienza). In altri casi, entrambe le parti crescono e la relazione si trasforma in meglio – succede quando anche “l’altra metà” decide di intraprendere un percorso di cambiamento (come Luca che entra in rehab, etc.). Indipendentemente dall’esito, coltivare relazioni sane significa scegliere persone con cui si può essere se stessi, con cui ci si sente alla pari, dove esiste sostegno reciproco ma anche rispetto dei confini individuali. Per Giulia, questo ha comportato ad esempio riallacciare i rapporti con vecchi amici e familiari in modo nuovo: inizialmente si sentiva in colpa a parlare dei propri problemi (prima era sempre lei ad ascoltare quelli altrui), ma con sorpresa ha scoperto che gli amici erano felici di sostenerla e non la giudicavano “egoista” come temeva. Pian piano ha sperimentato che poteva dire “oggi non me la sento di aiutarti, ho bisogno di tempo per me” senza essere abbandonata dagli amici – anzi, venendo rispettata. Nelle nuove frequentazioni, ha iniziato a valutare potenziali partner non più in base a quanto aveva “bisogno di lei”, ma in base a quanto potevano camminare uno accanto all’altra. In questa fase conclusiva del percorso di guarigione, spesso è utile anche un supporto di gruppo: gruppi terapeutici per persone con dipendenza affettiva o gruppi di auto-aiuto (come CoDA, Codependents Anonymous, sul modello dei 12 passi AA) offrono uno spazio protetto dove condividere esperienze, sentirsi compresi da chi ha vissuto dinamiche simili e imparare da storie di successo. La nostra Giulia, ad esempio, ha tratto beneficio dalle riunioni di Al-Anon (per familiari di alcolisti) dove ha ascoltato altre donne raccontare situazioni quasi identiche alla sua – questo l’ha aiutata moltissimo a superare la vergogna e a capire che non era sola né “pazza”. La psicoeducazione ricevuta in questi contesti – spiegazioni sulle dinamiche delle dipendenze, sui ruoli di Karpman, sui meccanismi di negazione – le ha dato concetti concreti per capire cosa le stava succedendo e perché doveva smettere di coprire il partner. In altre parole, conoscenza è potere: informarsi e capire la co-dipendenza è già di per sé un antidoto, perché ciò che prima era un groviglio caotico di emozioni ora ha un nome, delle descrizioni, delle tappe di soluzione.
Vale la pena notare che, lungo questo percorso, le ricadute sono possibili. Può capitare di tornare temporaneamente ai vecchi comportamenti di salvataggio (ad esempio, dopo mesi di “no”, Giulia un giorno cedette e andò a recuperare Luca in un bar dove lui l’aveva chiamata frignando – salvo poi pentirsene subito). L’importante è non scoraggiarsi e imparare dall’esperienza: ogni passo falso può insegnare qualcosa sui propri trigger emotivi. La terapia serve anche a questo, a rileggere insieme quei momenti e rafforzare le strategie per il futuro. Col tempo, i nuovi schemi (prendersi cura di sé, dire no, delegare agli altri la responsabilità delle loro vite) diventano più naturali e meno spaventosi. Il risultato finale è che la persona esce dalla gabbia psicologica in cui si trovava, riscopre un senso di autonomia emotiva e vede aumentare enormemente la propria qualità di vita.
Nel caso di Giulia, dopo un anno e mezzo di intenso lavoro su di sé, la differenza era straordinaria: “Mi sento come se avessi imparato a respirare di nuovo con i miei polmoni” – racconta – “Prima respiravo per lui, attraverso di lui. Ora esisto anch’io, e ho scoperto che si sta bene”. La relazione con Luca è migliorata quando lei ha smesso di esserne la crocerossina: Luca, tolto dal piedistallo della dipendenza, ha dovuto affrontare se stesso e ha iniziato a responsabilizzarsi. Tuttavia, Giulia sa che il suo benessere non dipende più dalle scelte di Luca: se anche dovessero lasciarsi, lei si sente finalmente padrona di sé. Questa è la più grande conquista.
Abbiamo citato nel percorso alcuni concetti – confini, assertività, autonomia – che meritano un approfondimento a parte, data la loro importanza cruciale nella prevenzione della co-dipendenza. In effetti, un fattore che accomuna quasi tutte le storie di co-dipendenza è proprio la mancanza o la violazione ripetuta dei confini emotivi tra le persone. Approfondiamo dunque il ruolo dei confini e come coltivarli.
I confini emotivi: la difesa fondamentale contro la co-dipendenza
Immaginiamo una casa senza porte né finestre: chiunque potrebbe entrare in qualsiasi momento, e tutto il caldo o il freddo di fuori invaderebbe l’interno. Le barriere che normalmente proteggono l’ambiente domestico mancano del tutto. Ecco, le persone che sviluppano co-dipendenza spesso vivono in questo stato psicologico: confini personali deboli o del tutto assenti. Ma cosa intendiamo esattamente per confini emotivi? In psicologia, i confini personali sono le linee, fisiche e immateriali, che delimitano dove finisce il nostro “io” e dove inizia l’altro. Sono ciò che ci permette di dire “questo è affar mio, questo no”, “di questo sono responsabile io, di questo tu”. Avere confini sani significa riuscire a proteggere il proprio benessere senza farsi carico indebitamente del benessere altrui. Significa, come abbiamo detto, sapersi assumere la responsabilità delle proprie azioni ed emozioni, ma non assumersi quella per le azioni ed emozioni altrui. Pare semplice in teoria, ma in pratica per molte persone – specialmente se hanno traumi o attaccamenti insicuri alle spalle – non lo è affatto.
Chi ha confini poco sani tende ad appartenere a due categorie estreme (entrambe problematiche): o prende troppa responsabilità per gli altri (è il caso dei co-dipendenti, che si fanno carico dei problemi e sentimenti altrui oltre misura), oppure si aspetta che siano gli altri a farsi carico di sé (è il caso opposto, persone che invadono i confini altrui chiedendo continuamente aiuto, attenzione, scaricando sugli altri colpe e oneri). Spesso, non sorprende, questi due tipi si attraggono e si incastrano in relazioni disfunzionali complementari Nel triangolo di Karpman, il Salvatore e la Vittima rappresentano bene queste due estremità dei confini mediocri: il Salvatore si sente responsabile anche di ciò che non gli compete (i problemi della Vittima), la Vittima vuole che qualcun altro si faccia carico della sua vita. Entrambi, di fatto, mancano di confini chiari.
Perché i confini sono così importanti? Perché fungono da filtro tra noi e il mondo: lasciano passare ciò che è sano (intimità, amore, supporto reciproco) e bloccano ciò che è tossico o non spetta a noi (abusi, manipolazioni, responsabilità altrui). Avere confini saldi consente di relazionarsi con l’altro senza perdersi. Purtroppo, molte persone co-dipendenti non hanno mai imparato a costruire questi confini, spesso a causa di ciò che hanno vissuto da piccole. Infatti, il trauma e le famiglie disfunzionali erodono i confini. Se un bambino cresce in un ambiente dove i suoi bisogni non contano, oppure dove ha dovuto fungere da “adulto” troppo presto, o è stato invischiato emotivamente nelle vicende dei genitori, quel bambino non svilupperà un sano senso di dove inizia e finisce il proprio sé. Può imparare che dire di no è pericoloso (perché veniva punito o colpevolizzato), o che i suoi confini tanto verranno violati quindi “meglio arrendersi”. Spesso chi subisce traumi di attaccamento entra nell’età adulta con una forte tendenza al people-pleasing (compiacere le persone) e con la convinzione che per essere amati si debba sempre acconsentire e prendersi carico degli altri. Si è imparato a ignorare i propri bisogni perché non c’era spazio per essi, e a vivere in funzione dell’altro (un genitore malato, depresso, arrabbiato, ecc.). Tutto ciò spiana la strada alla co-dipendenza.
Nel caso di Giulia, i suoi confini erano fragili già da prima di conoscere Luca: venendo da una famiglia dove il padre dominava e la madre la rendeva confidente dei suoi problemi matrimoniali, Giulia era abituata a non avere privacy emotiva. All’età di 10 anni sapeva già cose che nessun bambino dovrebbe sapere (i tradimenti del padre, le lacrime della madre) e si sentiva responsabile della felicità di sua madre. Ha imparato presto che dire “no” portava solo conflitti e punizioni, quindi è diventata una bambina ubbidiente che reprimeva rabbia e bisogni. Ecco lo stampo della futura co-dipendente.
La prevenzione della co-dipendenza, e parte integrante della sua cura, passa inevitabilmente per la (ri)costruzione dei confini emotivi. Questo implica diverse cose pratiche:
- Identificare i propri confini: non si possono difendere i confini se non si sa quali siano. Quindi il primo passo è capire cosa è accettabile per noi e cosa no, quali sono i nostri valori, i nostri limiti fisici, emotivi, sociali. Ad esempio: “Ho bisogno di un po’ di tempo da solo ogni giorno, questo per me è un confine”; “Non accetto di essere insultato, neanche se l’altro sta male”; “Non voglio che si frughi tra le mie cose personali, merito rispetto della mia privacy”; “Non intendo avere rapporti sessuali se non ne ho voglia per compiacere l’altro”, ecc. Sembrano affermazioni ovvie, ma per chi ha vissuto sempre in funzione altrui possono non esserlo affatto. Può aiutare fare una lista o parlarne in terapia, esplorando dove ci si sente invasi o in dovere.
- Comunicare chiaramente i confini agli altri: stabilire confini spesso richiede di esplicitarli alle persone intorno a noi, specie se erano abituate diversamente. Questo va fatto in modo assertivo, cioè fermo ma rispettoso. Ad esempio: “Ho bisogno che tu non mi telefoni dopo le 10 di sera a meno che non sia un’emergenza, a quell’ora voglio riposare”; oppure “Capisco che stai male, ma non posso prestarti altri soldi, mi dispiace”. Esprimere i confini usando messaggi in prima persona (“io sento… io ho bisogno…”) può evitare che l’altro si senta attaccato. È importante essere specifici e coerenti. Nel caso di Giulia, ad esempio, lei ha dovuto dire chiaramente a Luca: “Quando torni a casa ubriaco e mi insulti, io mi sento spaventata e umiliata. Questo per me non è più accettabile. Se succederà ancora, dormirai altrove quella notte.” All’inizio Luca rimase scioccato da questo nuovo atteggiamento di lei, ma col tempo iniziò a capire che Giulia faceva sul serio.
- Difendere ed “applicare” i confini stabiliti: comunicarli non basta, bisogna anche agire di conseguenza. Se diciamo “basta insulti” ma poi quando accade non facciamo nulla, il messaggio che arriva all’altro è che il confine in realtà non c’è. Difendere i confini può voler dire allontanarsi temporaneamente, cercare aiuto esterno, o far seguire azioni alle parole. Nell’esempio, quando Luca ricascò e tornò a casa ubriaco insultando Giulia, lei mantenne la promessa: prese le chiavi della macchina, uscì di casa e andò a dormire da sua sorella quella notte, lasciandolo da solo a smaltire la sbornia. Il giorno dopo lui la chiamò decine di volte, lei rispose solo quando fu calma e ribadì: “Ci vediamo quando sei sobrio, come ti ho detto non intendo più farti da bersaglio né da crocerossina.” Questo fu un turning point: un confine finalmente applicato, che fece capire a Luca che stavolta lei non scherzava.
- Lasciar andare il senso di colpa: per chi non è abituato, stabilire confini sani può far sentire in colpa o “cattivi”. È essenziale lavorare su di sé per comprendere che avere confini non è egoismo, ma amor proprio. Proteggere il proprio spazio emotivo è un diritto e anche un dovere verso se stessi. Un motto utile che alcuni terapeuti insegnano è: “Non puoi versare da una tazza vuota”. Significa che se ti prosciughi completamente per gli altri, alla fine non avrai più nulla da dare, sarai esaurito e magari risentito. Solo mantenendo la tua tazza piena (cioè il tuo benessere) puoi essere davvero d’aiuto, peraltro in modo più efficace e genuino. Giulia faticava molto su questo punto: ogni volta che diceva “no” a Luca si sentiva un mostro. La terapeuta le fece notare quanti “no” Luca avesse detto a lei in quegli anni (no a smettere di bere, no a rispettarla, ecc.) e come invece Giulia avesse sempre compreso e perdonato. “Perché tu non meriteresti la stessa comprensione?” le chiedeva. Pian piano, Giulia iniziò a interiorizzare che aveva il diritto di mettere sé stessa al primo posto ogni tanto – e che ciò non rovinava affatto le relazioni, anzi le migliorava.
- Accettare che gli altri possano reagire male: soprattutto inizialmente, quando una persona abituata a essere sempre accomodante inizia a mettere confini, è possibile che chi le sta intorno reagisca con sorpresa, rabbia o manipolazione (“sei cambiata”, “non mi ami più”, “come sei fredda/egoista ultimamente”). Questo fa parte del processo. È importante reggere a queste reazioni senza cedere, perché spesso sono un test: le persone stavano beneficiando della tua mancanza di confini e ora provano a ripristinare la vecchia dinamica. Col tempo, se insistiamo, o si abitueranno o eventualmente si allontaneranno (nel qual caso, meglio così: relazioni che esistono solo finché uno sfrutta l’assenza di confini dell’altro non sono relazioni autentiche). Nel caso di Giulia, Luca inizialmente la accusò: “Non ti riconosco più, sei diventata di ghiaccio, ti interessa solo di te stessa”. Queste parole le martellavano nella mente facendola dubitare (“E se avesse ragione? Sono io la cattiva ora?”). Ma parlando con altre persone nei gruppi di supporto, capì che era un copione tipico: il dipendente (alcolista) che manipola per riavere la partner accomodante. Non cadde nella trappola. Invece di difendersi o scusarsi, restò ferma sulle sue posizioni. Con il tempo, Luca smise quelle frasi – quando capì che non funzionavano.
In generale, i confini emotivi proteggono la nostra identità e dignità. Ci ricordano che abbiamo il diritto di esistere come individui separati, anche all’interno di una relazione. Questo è l’antidoto numero uno contro la co-dipendenza, perché impedisce che le identità si fondano e che uno diventi l’ombra dell’altro. Confini sani permettono un amore più equilibrato: “io ci sono per te, ma non sono te; e tu non sei me”. Paradossalmente, relazioni con buoni confini sono anche più intime e soddisfacenti, perché ciascuno vi partecipa come persona integra, non come metà incompleta che cerca definizione nell’altro. Nel caso di Giulia e Luca, quando Giulia ha stabilito confini, Luca ha dovuto scegliere di rimanere con lei in altri termini – quindi più liberamente, non solo per bisogno – e Giulia ha sentito finalmente che lui la rispettava e la guardava come persona, non solo come infermiera tuttofare. I conflitti, una volta evitati a tutti i costi, sono diventati discussioni costruttive: Giulia esprimeva i suoi sentimenti (anche negativi) e ascoltava quelli di Luca, cercando soluzioni insieme anziché aggiustare tutto da sola.
Non tutte le storie finiscono bene, e se Luca avesse reagito diversamente magari Giulia lo avrebbe lasciato per sempre. Ma a quel punto lei avrebbe avuto la forza per farlo, protetta dai suoi nuovi confini e dalla consapevolezza di meritare di meglio.
Siamo arrivati infine al punto culminante della nostra trattazione: capire come si può conciliare l’empatia – una qualità bellissima e preziosa – con il mantenimento di sé stessi. L’obiettivo non è certo diventare cinici o indifferenti per salvarsi dalla co-dipendenza, bensì coltivare quella che abbiamo chiamato lucida empatia. Vediamo dunque cosa significa e perché rappresenta il sano equilibrio nelle relazioni.
Conclusione: il valore della “lucida empatia”
Siamo partiti da una storia di empatia smarrita nel groviglio della co-dipendenza, e vogliamo concludere con la speranza di un’empatia ritrovata, più consapevole e bilanciata. Il termine “lucida empatia” suggerisce proprio questo: un’empatia che illumina senza accecare, che permette di comprendere e partecipare al mondo emotivo altrui senza perdersi in esso. Dopo tutto il percorso faticoso che Giulia ha compiuto, possiamo chiederci: è diventata una persona meno empatica? Ha smesso di preoccuparsi degli altri? La risposta è sorprendentemente: no, semmai il contrario. Giulia oggi lavora come insegnante in una scuola media e la sua sensibilità verso gli studenti in difficoltà è molto apprezzata; aiuta ancora il prossimo, ma ha imparato a farlo con rispetto e consapevolezza. “Ho imparato,” dice, “che non posso salvare nessuno – e che non è questo l’amore. Posso però esserci per qualcuno: ascoltare, sostenere, ma lasciando che sia lui a camminare con le proprie gambe.” Questa frase racchiude il concetto di lucidità nell’empatia: essere presenti con compassione, ma mantenere quella sottile distanza che preserva l’individualità di entrambi.
Ripensiamo alla citazione di Carl Rogers menzionata prima: sentire l’altro “come se” fossimo nei suoi panni, senza mai perdere di vista che siamo persone distinte. Questa è la definizione forse più bella di lucida empatia. Significa che quando un nostro caro soffre, noi certamente lo comprendiamo profondamente – magari percepiamo la sua tristezza echeggiare in noi – ma non ci identifichiamo al punto da annegare insieme. Possiamo tendere una mano mantenendo saldo il punto d’appoggio dall’altra parte. In pratica, vuol dire offrire amore e aiuto con rispetto dei confini: i problemi dell’altro restano dell’altro, noi possiamo al massimo camminare accanto, non al posto suo.
Una lucida empatia è capace di dire anche “no” quando serve, senza cessare di essere empatica. Ad esempio, Giulia racconta che recentemente un suo amico con problemi di gioco d’azzardo le ha chiesto soldi in prestito. In passato, avrebbe ceduto subito per “aiutarlo”, magari temendo che altrimenti l’amico si sarebbe perso. Stavolta, col cuore in gola, gli ha risposto: “Ti voglio bene e capisco la tua difficoltà, ma non ti presterò altri soldi. Posso aiutarti a trovare uno specialista o accompagnarti a una riunione per il gioco d’azzardo se vuoi, ma non finanziarti.” Il suo amico inizialmente si è arrabbiato, poi – a mente fredda – le ha detto che quella risposta forse gli aveva fatto evitare di ricadere, e ha iniziato a considerare l’idea di farsi aiutare davvero. Ecco un esempio concreto di empatia lucida: Giulia ha compreso la sofferenza dell’amico (empatia), ma ha deliberatamente scelto di non dare un aiuto disfunzionale che l’avrebbe solo impantanato di più; ha invece offerto un aiuto diverso, rispettoso sia di sé (non voleva più mentire a sé stessa che prestare soldi fosse la soluzione) sia dell’altro (stimolandolo a prendersi responsabilità). Questo tipo di aiuto potremmo chiamarlo supporto invece che salvataggio: è un aiuto che sostiene senza sostituirsi. Non risolve il problema al posto dell’altro, ma gli fornisce strumenti o semplice vicinanza perché sia lui a risolverlo.
In conclusione, possiamo sintetizzare alcuni punti chiave emersi:
- La co-dipendenza trasforma l’amore in controllo e l’empatia in autosacrificio. È una trappola relazionale in cui si gioca al salvatore e alla vittima, perdendo di vista sé stessi. Spesso origina da ferite antiche e si mantiene grazie a credenze disfunzionali (non valgo nulla se non aiuto, devo soffrire per meritare amore, ecc.).
- Il triangolo drammatico di Karpman ci aiuta a riconoscere questi ruoli e giochi ripetitivi: identifica Vittima, Persecutore e Salvatore come parti di un copione distruttivo che può alternarsi nelle relazioni tossiche. Nella co-dipendenza è tipica la diade Vittima–Salvatore, con possibili inversioni di ruolo e con il persecutore che talvolta emerge (accuse, violenze, ecc.). Ciascun ruolo ha i propri bisogni nascosti e mantiene il circolo vizioso.
- Uscire da queste dinamiche è possibile attraverso un percorso di consapevolezza, terapia e cambiamento graduale. Servono: riconoscimento del problema (basta negare), ricostruzione dell’autostima e dell’identità personale, apprendimento di abilità di confine e comunicazione assertiva, elaborazione delle ferite originarie (spesso con l’aiuto di terapie mirate come la Schema Therapy), e infine pratica di nuove modalità relazionali. Strumenti come la mindfulness e la psicoeducazione possono supportare la trasformazione, insegnando a gestire l’ansia e a comprendere cognitivamente i meccanismi in atto.
- I confini emotivi sono la linea di difesa essenziale: imparare a dire no, a distinguere i propri sentimenti da quelli altrui, a lasciar agli altri le loro responsabilità, è ciò che permette di amare senza annullarsi. Stabilire confini non è facile per chi è co-dipendente, ma è un atto di amore verso se stessi e anche verso l’altro: perché solo con confini sani possiamo avere relazioni sane. Confini non significano mura invalicabili o egoismo, bensì rispetto reciproco degli spazi personali. Come abbiamo visto, anche in contesti di trauma è fondamentale re-imparare a porre limiti, perché il trauma spesso li ha violati confondendo le identità e generando paure profonde di dire no.
- La meta è arrivare a una forma di empatia matura, potremmo dire “empatia con saggezza”. Un’empatia che non è più ingenuamente trascinata nel dramma altrui, ma rimane presente e stabile. Alcuni terapeuti la chiamano compassione distaccata, ma “distaccata” non significa fredda: significa con la giusta prospettiva. Tornando alla metafora iniziale della casa, la lucida empatia è come una casa con finestre aperte al mondo (possiamo vedere e sentire cosa accade fuori) ma con solide fondamenta e una porta che possiamo aprire o chiudere deliberatamente. Non siamo più in balìa degli eventi emotivi altrui come foglie al vento.
In definitiva, il percorso dalla co-dipendenza alla salute relazionale è un viaggio dall’oscurità alla luce – la luce della consapevolezza, dell’autonomia e di un nuovo modo di amare. Amare lucidamente significa accogliere l’altro nel proprio cuore senza spegnere la luce della propria identità. Significa poter dire: “Ti vedo, ti ascolto, ti comprendo, e ci sono per te. Ma non devo salvarti; credo in te e nel tuo potere di salvar te stesso. Io salvo me stesso, tu salvi te stesso, e ci accompagniamo in questo cammino.” Una relazione costruita su questa base è forse meno romantica nell’immaginario drammatico, ma infinitamente più soddisfacente, perché fatta di due persone intere che condividono amore, invece di metà che si incastrano in bisogno. In fondo, la lucida empatia altro non è che l’equilibrio tra cuore e ragione nelle nostre relazioni: il cuore che sente l’altro, la ragione che ricorda chi siamo e ci guida nel non oltrepassare quel limite invisibile dove finisce l’aiuto e comincia l’annullamento.
Come recita un proverbio spesso citato in ambito di aiuto: “Puoi portare il cavallo al fiume, ma non puoi obbligarlo a bere.” La co-dipendenza è voler svuotare se stessi per dissetare a forza un altro; la lucidità empatica è accompagnare il cavallo al fiume e attendere, con fiducia, che sia lui a bere se e quando vorrà, mentre noi nel frattempo beviamo anche per conto nostro. In questo modo, entrambi potranno continuare il viaggio della vita più forti e più uniti – non dalla catena del bisogno, ma dal legame libero dell’amore vero.
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