Introduzione
Perché talvolta diventiamo i nostri peggiori nemici? L’auto-sabotaggio descrive quel processo per cui, consciamente o inconsciamente, poniamo ostacoli sul nostro stesso cammino, compromettendo obiettivi e desideri a cui teniamo. Chiunque abbia affrontato una sfida personale può riconoscere questa esperienza: la mente si riempie di dubbi e pensieri negativi, erigendo barriere emotive che minano la fiducia in sé stessi. Ad esempio, un professionista può procrastinare proprio alla vigilia di un’importante presentazione, oppure una persona in una relazione felice può scatenare conflitti senza motivo apparente. Il paradosso è evidente: nonostante un forte desiderio di successo o di amore, l’auto-sabotaggio spinge ad azioni che impediscono di ottenerli.
L’auto-sabotaggio può manifestarsi in molti ambiti di vita – nel lavoro, nelle relazioni intime, nello studio, nella cura di sé – e spesso comporta un circolo vizioso: più falliamo per mano nostra, più rafforziamo l’idea di non meritare di meglio, alimentando nuovi auto-sabotaggi. Questo tema complesso intreccia dinamiche psicologiche profonde (insicurezze, traumi, conflitti interiori) con aspetti neurobiologici (le risposte automatiche del cervello alla paura e allo stress) e risente perfino delle pressioni culturali contemporanee (il mito del successo, l’iperproduttività, il timore del burnout).
In questo saggio esploreremo in dettaglio “l’intimità” dell’auto-sabotaggio, rivolgendoci sia a terapeuti sia a chi, come paziente o lettore curioso, voglia comprendere meglio queste dinamiche interiori. Partiremo dalle origini storiche del concetto – da Freud e la psicologia dinamica, attraverso il comportamentismo, fino alle terapie contemporanee come ACT, IFS e Schema Therapy – per capire come è nato e si è evoluto il pensiero sull’auto-sabotaggio. Approfondiremo poi i meccanismi psicologici e neurobiologici alla base di questi comportamenti autolesivi: dall’autopercezione negativa alla paura del successo, dall’attaccamento insicuro al senso di indegnità e alla “coazione a ripetere” di esperienze traumatiche. Esamineremo i disturbi clinici in cui l’auto-sabotaggio è frequentemente presente (disturbo evitante, depressione, ansia, trauma complesso, borderline, bassa autostima, perfezionismo patologico), nonché le dinamiche relazionali: come ci si auto-sabota nelle relazioni affettive, familiari e professionali. Un’intera sezione sarà dedicata alle narrazioni interiori – le storie che raccontiamo a noi stessi – e a come esse influenzino l’identità e i comportamenti auto-limitanti. Infine, esploreremo le strategie terapeutiche efficaci per spezzare questi schemi: dagli esempi clinici alle pratiche narrative, dalle tecniche cognitive di ristrutturazione ai metodi di terza onda (ACT, mindfulness, IFS), con uno sguardo anche al rapporto tra auto-sabotaggio e la cultura contemporanea del successo e della performance.
Il tono sarà accurato ma accessibile: l’obiettivo è offrire una comprensione profonda e sfaccettata dell’auto-sabotaggio, utile sia alla riflessione clinica degli addetti ai lavori sia alla crescita personale di chi vi si riconosce. È un viaggio dentro i meccanismi con cui la psiche talvolta “rema contro” se stessa – ma anche un messaggio di speranza, perché conoscere queste dinamiche è il primo passo per cambiarle.

Origini storiche del concetto di auto-sabotaggio
L’idea che un individuo possa ostacolare sé stesso non è nuova nella psicologia, ma è stata interpretata in modi diversi nel corso della storia. In questa sezione ripercorriamo le principali tappe storiche e teoriche: dalle prime intuizioni di Sigmund Freud sul comportamento auto-distruttivo, passando per le prospettive del comportamentismo e della psicologia cognitiva, fino agli approcci più recenti che integrano varie correnti.
Freud, la pulsione di morte e la coazione a ripetere
Il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, fu tra i primi a descrivere fenomeni assimilabili all’auto-sabotaggio, sebbene con un linguaggio e un inquadramento teorico diverso. Nel saggio “Al di là del principio di piacere” (1920), Freud introdusse il concetto di pulsione di morte (Thanatos) per spiegare la tendenza paradossale dell’essere umano a ricercare inconsciamente esperienze dolorose o distruttive, opponendosi all’istinto di autoconservazione. Secondo Freud, oltre al principio di piacere che guida verso il benessere, esisterebbe una pulsione opposta che spinge a ripetere situazioni spiacevoli, quasi come un ritorno a uno stato inorganico di quiete. Questa visione estremamente pessimistica postulava dunque una sorta di forza autodistruttiva innata nell’animo umano.
Accanto alla pulsione di morte, Freud osservò clinicamente il fenomeno della coazione a ripetere: i pazienti traumatizzati tendevano a rivivere e ripetere inconsciamente esperienze dolorose del passato, anche quando ciò provocava sofferenza. In “Ricordare, ripetere e rielaborare” (1914), Freud descrisse la coazione a ripetere come “un modo per ricordare” – cioè un tentativo della psiche di portare a galla il trauma rimosso, non tramite il ricordo conscio ma attraverso la messa in atto ripetitiva. Ad esempio, notò che chi aveva vissuto relazioni infelici spesso ne cercava di simili in seguito, come se fosse spinto a ricreare lo stesso dolore. Freud intuì anche una funzione in questo meccanismo: la ripetizione del trauma potrebbe essere un tentativo inconscio di padroneggiarlo. Egli osservò, ad esempio, il gioco del “fort-da” del suo nipotino Ernst (il bimbo lanciava un rocchetto lontano e poi lo recuperava con gioia, esclamando “via!” e “qui!”), interpretandolo come la simbolizzazione attiva del trauma dell’assenza materna. Ripetendo attivamente la perdita e il ritrovamento dell’oggetto, il bambino trasformava un’esperienza passiva di angoscia (la madre che si allontana) in un’esperienza attiva sotto il suo controllo, attenuando l’ansia da separazione.
Freud quindi fornì una prima cornice teorica a comportamenti autolesivi e ripetitivi: essi potevano derivare sia da una pulsione intrapsichica (Thanatos), sia da meccanismi di difesa e memoria traumatica (coazione a ripetere). Nell’ottica freudiana classica, l’individuo spesso non è consapevole di queste spinte, che agiscono dall’inconscio. Possiamo considerare queste idee come i prodromi del concetto moderno di auto-sabotaggio: la psicoanalisi ci dice che talvolta ci facciamo del male da soli perché intrappolati in conflitti psichici profondi o perché spinti a rivivere ciò che è irrisolto. È interessante notare che Freud stesso parlò anche di “masochismo morale”, riferendosi a persone che sembrano cercare inconsciamente la punizione o il fallimento anche in assenza di colpa evidente: un comportamento che oggi definiremmo auto-sabotante.
Le teorie freudiane furono poi ampliate da altri autori psicoanalitici. Karl Menninger, ad esempio, nel 1938 scrisse un libro intitolato “Man Against Himself” (L’uomo contro sé stesso) esaminando varie forme di comportamento autodistruttivo. La tradizione psicodinamica successiva ha spesso letto l’auto-sabotaggio in termini di super-Io punitivo (una parte critica interna, interiorizzata dalle figure genitoriali, che “saboterebbe” i successi per punire desideri ritenuti inaccettabili) o in termini di relazioni oggettuali interiorizzate (ad esempio, chi è cresciuto con figure di attaccamento negative può sabotare le relazioni positive future perché inconsciamente più familiare – e quindi paradossalmente più “confortevole” – nel rivivere schemi di rifiuto o abuso).
In sintesi, l’eredità di Freud e della psicoanalisi ci consegna l’idea che l’auto-sabotaggio abbia radici nelle profondità dell’inconscio: esso può essere un atto di memoria traumatica, un tentativo di controllo su esperienze originarie di impotenza, o persino l’espressione di un conflitto tra parti della psiche (Es, Io e Super-Io) in cui la parte normativa punisce l’Io quando cerca gratificazione. Queste intuizioni, seppur calate in un linguaggio diverso, gettano le fondamenta per comprendere molti fenomeni di auto-sabotaggio che riconosciamo tutt’oggi (come vedremo, ad esempio, nel ruolo del “critico interiore” e nel bisogno inconscio di ricreare ciò che ci è familiare).
Dalle teorie comportamentali al concetto di “auto-handicapping”
Parallelamente alla psicoanalisi, altre correnti psicologiche hanno interpretato l’auto-sabotaggio con prospettive diverse. Il comportamentismo, dominante a metà Novecento, concentrandosi su stimoli e risposte osservabili, non parlava in termini di intenzioni inconsce o pulsioni di morte. Tuttavia, già nell’ottica comportamentale si possono individuare meccanismi che spiegano perché un individuo attui comportamenti dannosi per sé. In particolare, l’auto-sabotaggio può essere visto come un comportamento di evitamento appreso: se in passato evitare una situazione ha ridotto l’ansia o il dolore, quella condotta può consolidarsi per condizionamento operante negativo (evitando otteniamo sollievo, che funge da rinforzo). Ad esempio, uno studente che prova panico prima di un esame potrebbe inconsciamente preferire sabotarsi – ad esempio non studiando affatto – perché questo lo esonera dall’ansia del confronto: anche se il risultato sarà un fallimento, almeno potrà attribuirlo alla mancanza di studio e non sentirsi intrinsecamente incapace. Dal punto di vista comportamentista, quindi, si tratterebbe di una scelta (perversa ma) adattiva per minimizzare un’emozione negativa nel breve termine, a scapito del successo a lungo termine.
Negli anni ’60 e ’70, con la nascita della psicologia cognitiva e sociale, si iniziò a parlare più esplicitamente di comportamenti “auto-sabotanti” in termini di pensieri, aspettative e strategie autodefensive. Un concetto chiave introdotto in questo periodo è quello di self-handicapping (auto-handicapping): gli psicologi sociali Steven Berglas ed Edward Jones, in un celebre esperimento del 1978, osservarono che alcuni soggetti, messi di fronte alla prospettiva di una prova di abilità, preferivano assumere volontariamente qualcosa che ne riducesse la performance (ad esempio un farmaco che ostacolava le capacità cognitive). In questo modo, se avessero fallito la prova, avrebbero avuto una “scusa” esterna (il farmaco) e non avrebbero dovuto attribuire il fallimento alla propria incapacità. Questa tendenza a crearsi da soli ostacoli (come uscire tutta la notte prima di un esame, procrastinare fino all’ultimo, non prepararsi adeguatamente a un colloquio importante) è appunto definita self-handicapping, ed è considerata una forma di auto-sabotaggio strategico: serve a proteggere l’autostima e l’immagine di sé di fronte a un possibile insuccesso. Piuttosto che rischiare un fallimento “senza attenuanti” che confermerebbe i propri dubbi di inadeguatezza, la persona preferisce creare condizioni avverse e fallire avendo però la consolazione di un alibi (“se solo avessi avuto più tempo…”, “se non fossi stato stanco…”). È un meccanismo subdolo, perché offre un sollievo temporaneo (salva la faccia in caso di esito negativo), ma ovviamente compromette la riuscita e quindi conferma, alla lunga, quei dubbi sulle proprie capacità.
La ricerca su self-handicapping e comportamenti auto-distruttivi “non clinici” portò anche a riflessioni teoriche più ampie. Negli anni ’80, Roy Baumeister propose una classificazione delle condotte auto-sabotanti evidenziando che spesso esse non sono atti di distruzione fine a sé stessa, ma comportamenti con un beneficio immediato che però comportano costi più alti nel lungo termine. Baumeister e Scher (1988) definirono il self-defeating behavior (comportamento auto-sconfittante) come “qualsiasi comportamento deliberato o intenzionale che ha conseguenze chiaramente negative per la persona o i suoi obiettivi a lungo termine”. Essi notarono che tali comportamenti spesso derivano da una sorta di scambio: l’individuo ottiene un vantaggio immediato (ad esempio sollievo, riduzione dell’ansia, attenzione dagli altri, ecc.) al prezzo di danni futuri (fallimento, rimpianto, perdita di opportunità). Questa analisi sgombra il campo dall’idea che chi si auto-sabota voglia consapevolmente fallire o “farsi del male gratuitamente”: più spesso, sta cercando qualcosa di positivo (anche se minimo o distorto) nel momento presente, e quel qualcosa vince sul perseguimento coerente dei propri obiettivi. Baumeister distinse anche diverse tipologie di auto-sabotaggio: alcune più dirette e “masochistiche” (dove la persona sembra davvero cercare punizione o dolore), altre più indirette e frutto di scelte miopi (ad esempio indulgere in abitudini che a lungo andare danneggiano). Questa visione dei comportamenti auto-sabotanti come processi di coping disfunzionali (anziché manifestazioni di un istinto di morte) influenzerà molto le terapie successive.
La paura del successo: il “Complesso di Giona” e altre intuizioni umanistiche
Un altro filone storico interessante è quello della psicologia umanistica, che, pur con approccio molto diverso dalla psicoanalisi e dal comportamentismo, riconobbe una forma di auto-sabotaggio particolare: la paura del successo o paura di realizzare pienamente il proprio potenziale. Abraham Maslow, noto per la “piramide dei bisogni” e il concetto di autorealizzazione, coniò negli anni ’60 il termine “Complesso di Giona” per descrivere la paura della propria grandezza. Maslow si chiedeva: se tutti abbiamo un impulso innato a crescere e realizzarci, perché molti non raggiungono l’auto-realizzazione? Una delle cause che propose è appunto che tendiamo a fuggire dalle nostre possibilità più elevate. Come il profeta biblico Giona cercò di fuggire dalla missione affidatagli da Dio per timore di non esserne all’altezza, così molte persone fuggono dalle proprie occasioni di successo. Maslow scrisse: “Temiamo le nostre massime possibilità. Ci spaventa diventare ciò che intravediamo nei nostri momenti migliori”. Questa intuizione evidenzia un aspetto peculiare: l’ignoto non è spaventoso solo quando è carico di potenziali esiti negativi, ma anche quando rappresenta un grande potenziale positivo. Diventare ciò che potremmo essere (più forti, più indipendenti, più realizzati) può far paura perché impone di uscire dalla zona di comfort e magari rompere con vecchie abitudini, ruoli o aspettative altrui. Inoltre, il successo può evocare ansie specifiche: la paura di attirare invidia o ostilità, la paura di perdere le persone vicine (che potrebbero sentirsi inferiori o minacciate dal nostro cambiamento), o semplicemente il timore delle nuove responsabilità e pressioni che il successo comporta. Questo concetto del “Complesso di Giona” anticipa di molto le moderne discussioni sulla sindrome dell’impostore (il sentirsi non all’altezza dei propri successi) e la già citata fear of success studiata in psicologia sociale (ad esempio i lavori di Martina Horner negli anni ’70 evidenziarono che alcune persone – in particolare alcune donne in contesti sessisti – interiorizzano il timore che avere successo le renderà isolate o non amate, portandole inconsciamente a frenarsi). Queste idee umanistiche aggiungono dunque un tassello importante: non è solo la paura di fallire a trattenerci, ma talvolta anche la paura di splendere troppo. L’auto-sabotaggio in questi casi assume la forma di un autolimitarsi, di un “tenersi piccoli” per evitare di affrontare l’ansia dell’auto-realizzazione.
L’auto-sabotaggio nei manuali diagnostici e le riflessioni contemporanee
Prima di passare alle teorie e terapie odierne, merita un cenno il fatto che l’idea di una personalità auto-sabotante ha perfino sfiorato i sistemi diagnostici ufficiali. Negli anni ’80, durante la preparazione del DSM-III-R (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), alcuni clinici proposero l’inclusione del “Disturbo di Personalità Auto-sabotante (o Masochistico)” chiamato anche self-defeating personality disorder. Questa ipotesi diagnostica descriveva individui che sistematicamente si mettono in situazioni in cui verranno maltrattati o falliranno, pur avendo alternative più positive, e che sabotano le proprie opportunità di soddisfazione (ad esempio rifiutano aiuti, distruggono relazioni con persone che li amano, ecc.). Tali soggetti sembrano trarre un “beneficio” nel ruolo di vittima o di fallito, e rifiutano il successo o il piacere persino quando gli si presentano. Questo disturbo tuttavia fu controverso e alla fine non venne incluso nel DSM-IV, anche per timore che venisse impropriamente usato per patologizzare o colpevolizzare vittime di abusi (il rischio era etichettare come “personalità autodistruttiva” una donna che rimane in una relazione violenta, ad esempio). Nonostante la mancata ufficializzazione, la discussione attorno a questa diagnosi fece emergere dati interessanti: spesso le persone con tendenze auto-sabotanti hanno storie di traumi infantili, abusi o ambienti invalidanti, in cui hanno imparato a legare l’idea di felicità a quella di colpa o pericolo. Anche se non esiste dunque una categoria diagnostica a sé stante, il concetto di personalità auto-sabotante è ampiamente riconosciuto in psicologia clinica come un pattern trasversale a vari disturbi (come vedremo nella sezione sui disturbi specifici).
Arrivando ai giorni nostri, gli approcci terapeutici contemporanei hanno integrato molte delle intuizioni storiche in prassi cliniche concrete per affrontare l’auto-sabotaggio. La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), ad esempio, lavora esplicitamente sull’identificazione e la modifica dei pensieri disfunzionali (come credenze di indegnità, catastrofismo, rigidità perfezionistica) che spesso alimentano l’auto-sabotaggio, e utilizza tecniche comportamentali (esposizione graduale, rinforzo di nuovi comportamenti) per rompere i circoli viziosi. Le terapie di “terza onda” come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) sottolineano come l’auto-sabotaggio derivi dall’evitamento esperienziale: si impara ad accettare le emozioni negative (ansia, insicurezza) invece di fuggirle, impegnandosi in azioni guidate dai propri valori anche in presenza di paura. L’Internal Family Systems (IFS) interpreta l’auto-sabotaggio come il risultato di “parti interne” in conflitto: ad esempio una parte protettiva che, temendo il dolore o il fallimento, tira il freno a mano quando stiamo per ottenere qualcosa (un meccanismo descritto dal terapeuta Giancarlo Di Fiore come “freno di emergenza” che riporta la persona in una zona familiare e sicura anche se frustrante). In IFS il lavoro consiste nel dialogare con queste parti (spesso un “critico interiore” severo o un “protettore” ipervigile) per capirne le intenzioni protettive e trovare modi nuovi e meno dannosi di soddisfare le stesse esigenze. La Schema Therapy, dal canto suo, offre una mappa di schemi maladattivi (es. Abbandono, Sfiducia/Abuso, Inadeguatezza, Fallimento) e modalità di coping che spesso includono l’auto-sabotaggio: ad esempio la modalità del Protettore Distaccato fa evitare coinvolgimenti e sfide per proteggersi dal dolore, quella del Genitore Punitivo fa auto-boicottare ogni successo perché “non meriti” o “devi essere punito”. La Schema Therapy interviene combinando tecniche cognitive, esperienziali ed emotive per sanare questi schemi originari (spesso radicati nell’infanzia) e sviluppare una modalità di Adulto sano che non tema più il benessere. Infine, approcci narrativi incoraggiano le persone a riscrivere la propria storia personale: anziché “sono destinato a rovinare tutto ciò che ottengo”, la narrazione può diventare “ho affrontato molte difficoltà, ma sto imparando a permettermi successo e felicità”. Anche la terapia psicodinamica moderna continua ad avere un ruolo: terapeuti come E. Scarpellini integrano le neuroscienze con la tradizione psicodinamica per capire l’auto-sabotaggio come un processo inconscio di integrazione di memorie traumatiche, che va portato gradualmente alla consapevolezza e trasformato.
In conclusione, la storia del concetto di auto-sabotaggio in psicologia mostra una convergenza: da diverse angolazioni (inconscio, comportamenti appresi, credenze cognitive, spinte umanistiche) si riconosce che l’essere umano può agire contro i propri interessi, ma non per pura follia o irrazionalità. C’è sempre una logica sottostante, che sia un conflitto intrapsichico, un apprendimento passato, una distorsione cognitiva o un valore di protezione (dell’autostima, della sicurezza, dei legami affettivi). Riconoscere questa logica è fondamentale: implica che l’auto-sabotaggio si può comprendere e dunque si può cambiare. Nelle sezioni seguenti passeremo proprio ad analizzare in dettaglio tali meccanismi soggiacenti e come si manifestano nella psiche e nel comportamento.
Meccanismi psicologici dell’auto-sabotaggio
Cosa succede dentro di noi quando ci auto-sabotiamo? Quali processi mentali ci portano, magari senza accorgercene, a boicottare la nostra felicità o i nostri successi? In questa sezione esploriamo le dinamiche psicologiche interne più comuni che alimentano l’auto-sabotaggio. Emergeranno temi come la bassa autostima e la voce critica interiore, la paura del fallimento (e persino del successo), le ferite derivanti da attaccamenti insicuri e traumi, nonché i meccanismi di copione ripetitivo che ci fanno rivivere il passato nel presente. Questi elementi spesso si intrecciano tra loro, dando origine a comportamenti auto-limitanti complessi; qui li esamineremo separatamente per chiarezza, pur consapevoli che nella realtà agiscono insieme.
L’ombra di un sé indesiderabile: bassa autostima e critico interiore
Uno dei terreni più fertili per l’auto-sabotaggio è una scarsa considerazione di sé. Se in profondità crediamo di non valere abbastanza, di non essere amabili o competenti, tenderemo – più o meno inconsciamente – a comportarci in modi che confermano queste convinzioni negative. Pensieri automatici come “Non ce la farò mai”, “Non merito questa felicità”, “Prima o poi verrò scoperto come un impostore” agiscono come profezie che si autoavverano. Ad esempio, una persona convinta di non essere davvero capace, anche se ottiene un buon lavoro, potrebbe procrastinare o lavorare sotto tono finché effettivamente le cose non andranno male – a quel punto potrà dire a sé stessa: “Vedi? Sapevo di non essere all’altezza”. In apparenza è illogico volersi dare ragione su un’idea così autodistruttiva, ma la mente umana preferisce spesso l’autocoerenza alla felicità: mantenere stabile l’immagine che abbiamo di noi (anche se negativa) ci fa sentire più sicuri di sapere chi siamo, mentre contraddirla con un successo potrebbe generare dissonanza e ansia. Questa tendenza viene spiegata anche con la teoria della verifica di sé in psicologia sociale: cerchiamo negli altri e negli eventi conferme delle nostre credenze di base su di noi, positive o negative che siano, e inconsciamente talvolta provociamo quelle conferme.
Alla base di questi processi c’è quasi sempre un critico interiore severo, quella voce interna che abbiamo interiorizzato spesso nell’infanzia da figure significative (genitori iperesigenti, insegnanti critici, bulli, ecc.). Questa voce interna continuamente ci giudica e ci svaluta: “Non sei abbastanza bravo”, “Non devi sbagliare”, “Se provi fallirai e sarà la prova che sei un incapace”. Il critico interiore, o Super-Io punitivo in termini psicoanalitici, può sabotare attivamente i nostri sforzi per due motivi: da un lato ci demotiva (perché tanto “non ne vale la pena, non ce la farai”), dall’altro ci punisce quando invece li mettiamo in atto (facendoci sentire in colpa o inadeguati). Ad esempio, Giancarlo Di Fiore racconta il caso di Marta, una donna che ogni volta che stava per avere successo professionale sentiva scattare dentro di sé una voce colpevolizzante assimilabile a un super-io genitoriale interiorizzato: era cresciuta con messaggi tipo “chi ti credi di essere?” e percepiva ogni suo traguardo come una “trasgressione” verso la lealtà familiare, al punto da sabotarlo per placare quella voce accusatoria. Situazioni simili non sono rare: se da piccoli abbiamo ricevuto l’idea che non meritavamo amore o apprezzamento a meno di essere “perfetti” (e anche allora venivamo criticati), possiamo portare dentro una sorta di giudice costante che non ci permette mai di godere dei successi. Anzi, ogni volta che ci avviciniamo a un risultato positivo, quella parte critica alza il volume, ricordandoci le nostre presunte mancanze, e può spingerci ad abbandonare per non dover fronteggiare quel giudizio interno insopportabile.
Il risultato di questa dinamica è un circolo vizioso: la bassa autostima genera auto-sabotaggio, e l’auto-sabotaggio a sua volta rinforza la bassa autostima. Ogni fallimento autoindotto diventa la “prova” che i pensieri iniziali erano corretti (“lo sapevo che non valgo nulla”), radicando ancora di più quelle convinzioni limitanti. Spesso chi è intrappolato in questo ciclo riferisce di sentirsi come se ci fossero due sé in guerra: una parte che vorrebbe provarci e migliorare la propria vita, e un’altra parte che la critica, la spaventa e la blocca. Questa sorta di conflitto interno è stato riconosciuto da vari approcci: in IFS si parlerebbe di un conflitto tra un “Manager” protettivo (il critico) e una parte vulnerabile che vuole crescere; in ACT si direbbe che la persona è “fusa” con un contenuto mentale svalutante e ha perso di vista il suo Sé osservante più profondo; in terapia della Gestalt potremmo immaginare un dialogo tra la parte “spinta a realizzarsi” e la parte “timorosa e critica”. Indipendentemente dal lessico, riconoscere questa divisione interna è il primo passo: infatti, finché il critico interiore agisce in sordina e i suoi messaggi vengono scambiati per “la realtà oggettiva su di me”, l’auto-sabotaggio continuerà indisturbato. Quando invece la persona inizia a osservare quei pensieri e a etichettarli per quello che sono – vecchie frasi imparate, non verità assolute – comincia ad aprirsi uno spiraglio per cambiare. Lavorare per smorzare il critico interiore e coltivare un dialogo interno più compassionevole è una delle strategie chiave (di cui parleremo nelle strategie terapeutiche), perché attacca alla radice molta parte dell’auto-sabotaggio legata all’autostima.
In breve, una visione negativa di sé è come un sabotatore interno che vive nella nostra testa: credendo di proteggerci dall’illusione e dalla vergogna, ci tiene bloccati nella terra sterile della mediocrità o addirittura del fallimento. Questa è la trappola dell’identità negativa: “non ottengo cose buone perché tanto sono un incapace… e visto che non le ottengo, confermo di essere un incapace”. Rompere questa gabbia richiede di mettere in discussione quell’identità, permettendoci di immaginare – e poi costruire – una versione di noi diversa da quella plasmata dalle esperienze tossiche del passato.
Paura del fallimento, paura del successo e bisogno di controllo
La paura del fallimento è forse la motivazione più immediata e riconoscibile dietro tanti atti di auto-sabotaggio. Invece di affrontare la possibilità di un insuccesso (in amore, nel lavoro, in una sfida personale), preferiamo a volte sabotare in anticipo l’esito, così da evitare di sentirci delusi o umiliati. È un meccanismo paradossale: fallire volontariamente sembra preferibile al rischio di provarci e fallire nonostante l’impegno. Come già accennato, l’auto-sabotaggio fornisce in tal caso un senso di controllo sul fallimento: “me la sono cercata io, non ero veramente impegnato, quindi la sconfitta fa meno male”. Un esempio classico è lo studente che non studia per un esame e lo va a sostenere lo stesso: se viene bocciato, potrà dirsi che è stato per mancanza di studio (controllabile) e non per stupidità o incapacità (ipotesi ben più dolorosa per l’ego). Oppure una persona che teme di non essere amata potrà comportarsi in modo sgradevole finché il partner effettivamente non si allontana – a quel punto penserà “ecco, sapevo che mi avrebbe lasciato”, senza dover considerare che invece, se si fosse mostrata vulnerabile, forse sarebbe stata amata e non respinta. Evitare il fallimento diventa dunque più importante che ottenere il successo: la priorità (inconscia) è non dover affrontare emozioni intollerabili come la vergogna, il senso di impotenza o di rifiuto. Così, l’auto-sabotaggio protettivo ci fa vivere in un “limbo” in cui non vinciamo ma almeno non veniamo nemmeno sconfitti su tutta la linea, perché in fondo non abbiamo mai giocato la partita seriamente. Purtroppo, questo limbo diventa esso stesso un luogo di sofferenza e stagnazione, e col tempo il rimpianto per le occasioni perse può diventare peggiore della paura iniziale.
Accanto alla paura del fallimento, come discusso parlando di Maslow, c’è anche la paura del successo – meno intuitiva, ma altrettanto potente. Molte persone provano un’ansia notevole non appena le cose iniziano ad andare troppo bene. Come mai? Per alcuni, il successo è associato a cambiamento e incertezza: riuscire in qualcosa spesso significa uscire dai vecchi ruoli e affrontare sfide nuove, con responsabilità maggiori e aspettative altrui crescenti. Chi si è sempre percepito “in disparte” può trovare minaccioso il trovarsi sotto i riflettori dei riconoscimenti; chi si considera fragile può temere di non reggere le pressioni che il successo comporta. C’è poi l’aspetto relazionale: aver successo potrebbe suscitare invidia o rabbia in altri, o differenziarci dal nostro gruppo di appartenenza (famiglia, amici). Tornando al caso di Marta: lei sabotava ogni avanzamento professionale anche perché, interiormente, vivere una vita migliore e più libera rappresentava ai suoi occhi un “tradimento” verso i genitori rimasti in una condizione modesta. Similmente, chi proviene da un ambiente dove tutti hanno fallito nella realizzazione personale, potrebbe inconsciamente boicottarsi per restare fedele al clan, per non “fare la superiore” rispetto ai propri cari. Un successo importante può far sentire improvvisamente soli: “se salgo troppo in alto, rimarrò senza nessuno accanto”. Questa è una paura profonda, spesso non immediatamente avvertita a livello cosciente, ma in terapia emerge nei fantasmi di perdita che affiorano quando la persona immagina la propria vita realizzata.
Un altro timore legato al successo è la sindrome dell’impostore: man mano che accumuliamo risultati, possiamo vivere nel terrore di “essere scoperti” come incompetenti che non meritano davvero quei traguardi. Paradossalmente, per sfuggire a questo perenne stato d’ansia, alcune persone preferiscono auto-sabotare i risultati e tornare in una zona in cui, pur sentendosi fallite, almeno non hanno la spada di Damocle di dover dimostrare costantemente il proprio valore. Ad esempio, un professionista con sindrome dell’impostore potrebbe rifiutare una promozione prestigiosa perché teme che nell’incarico superiore sarebbe finalmente smascherato come incapace; restandone fuori, conserva l’idea rassicurante che avrebbe potuto farcela, senza però rischiare effettivamente il confronto.
Sia la paura del fallimento che quella del successo portano dunque a preferire la prevedibilità all’ignoto. Come scrivono Bruni Tosi e Soro, l’auto-sabotaggio nasce da “un’intolleranza all’incertezza: ci sabotiamo perché preferiamo la certezza e la prevedibilità rispetto all’ignoto”. Anche se quella certezza è negativa (es. la certezza di restare mediocri, soli o insoddisfatti), essa è nota e quindi stranamente confortante, mentre l’ignoto di un possibile successo o di un tentativo serio fa troppa paura. Il bisogno di controllo è cruciale qui: controllare un esito negativo autoinflitto pare emotivamente più gestibile che lanciarsi nel mare aperto di possibilità non garantite. In altre parole: “meglio avere la sicurezza di star male, che il rischio di provare a stare bene e poi soffrire”.
Ovviamente, a livello conscio quasi nessuno ammetterebbe “ho paura di riuscire” o “preferisco sabotarmi così controllo il risultato”. Queste motivazioni agiscono spesso dietro razionalizzazioni: “non mi interessa davvero quella cosa…”, “sto bene così come sto…”, “non ho avuto tempo, c’erano troppi impegni, altrimenti sarei riuscito…”. Fa parte del meccanismo di difesa creare spiegazioni alternative che salvino la facciata. Ma dentro, se ascoltiamo attentamente, possiamo percepire quell’ansia che sale quando stiamo per “fare il salto”. Ad esempio, alcune persone descrivono che ogni volta che una relazione inizia a farsi seria e profonda (e quindi potenzialmente felice), scatta in loro un senso di panico o di insofferenza che le porta a sabotare il rapporto – litigi, tradimenti, fuga – salvo poi pentirsene. In quei momenti di panico spesso si nasconde la voce della paura: paura di dipendere, paura di perdere quella persona (e quindi preferisco perderla subito a modo mio, così controllo la separazione), paura di essere felici perché quando sei felice “hai più da perdere”.
Riassumendo, la paura del fallimento e quella del successo sono due facce della stessa medaglia: la paura di non saper gestire il dolore. Che sia il dolore di un fallimento o il dolore futuro di un eventuale successo perduto o che ci isoli, il risultato è che scegliamo un dolore minore ma certo ora (auto-sabotandoci) per evitare la possibilità di un dolore forse maggiore poi. È un calcolo comprensibile, ma che viene fatto guardando solo al lato oscuro delle possibilità. La persona non considera mai l’altra faccia: e se invece riuscisse? E se il successo fosse sostenibile e la rendesse più forte anziché distruggerla? Queste domande iniziano a emergere solo quando in terapia o con riflessione personale si porta alla luce questo meccanismo.
Attaccamento insicuro e paura dell’intimità (o dell’abbandono)
Le nostre radici affettive giocano un ruolo enorme nei modi in cui (auto)sabotiamo le relazioni e, indirettamente, anche altri ambiti di vita. La teoria dell’attaccamento di John Bowlby insegna che da bambini sviluppiamo un certo stile di attaccamento in base alla responsività dei caregiver (genitori, figure di accudimento). Se tali figure sono state disponibili, amorevoli e coerenti, tendiamo a sviluppare un attaccamento sicuro, che in età adulta si traduce in fiducia verso gli altri e verso il proprio valore. Viceversa, se l’esperienza è stata di trascuratezza, imprevedibilità, invasività o abbandono, possiamo sviluppare attaccamenti insicuri (evitante, ansioso, disorganizzato) con conseguenti modelli operativi interni negativi – in pratica convinzioni profonde su noi stessi (“non merito amore”), sugli altri (“non sono affidabili, mi faranno male”) e sul mondo delle relazioni (“l’amore è instabile o pericoloso”). Questi modelli diventano uno schema relazionale che tendiamo, ahinoi, a replicare da adulti: scegliendo partner che confermano le nostre aspettative e anche comportandoci in modi che ricreano il vecchio scenario.
Ecco dunque che una persona con attaccamento evitante (formatosi magari con genitori anaffettivi o rifiutanti) da grande potrebbe sabotare qualunque relazione inizi ad approfondirsi: ogni volta che la vicinanza emotiva aumenta, scatterà in lui un riflesso di fuga o chiusura (sparire per giorni, evitare confidenze, tradire per creare distanza, ecc.) – tutto per evitare di rivivere il dolore della dipendenza non soddisfatta. Di contro, una persona con attaccamento ansioso (da genitori incoerenti, imprevedibili) potrebbe sabotare la relazione con gelosia, controlli e drammi continui: per la paura dell’abbandono, paradossalmente, esaspera l’altro fino a farsi lasciare davvero. Ambedue gli stili finiscono per confermare i timori originari: l’evitante rimane solo (e dirà: “meglio così, tanto nessuno mi comprende”), l’ansioso viene lasciato (“lo sapevo che tutti abbandonano”). In questi casi l’auto-sabotaggio è un meccanismo inconscio di auto-profezia: attuando comportamenti disfunzionali (distacco emotivo, tradimenti, litigi esagerati, accuse continue), la persona inconsciamente spinge l’altro a reagire in modo da replicare il copione noto. Come scrive la psicologa Chiara Venturi, “il nostro inconscio preferisce qualcosa di sicuro a qualcosa che è potenzialmente meglio, ma ignoto”. E cosa c’è di più “sicuro” (nel senso di conosciuto) di ciò che abbiamo vissuto da sempre? Se da bambino ho imparato che chi ti ama poi ti abbandona, quella triste storia, per quanto dolorosa, è la mia comfort zone psichica: tenderò a ricercarla o provocarla perché è lo scenario su cui so muovermi, mentre un amore stabile e affidabile mi risulterebbe straniante, quasi “non ci crederei” e potrei addirittura sabotarlo perché inconsciamente lo ritengo “falso, troppo bello per essere vero”. Un esempio: chi ha avuto un padre assente o anaffettivo, crescendo potrebbe inconsciamente trovare “noiosi” o poco attraenti i partner affettuosi e presenti, mentre sentirsi morbosamente attratto da persone distanti o egoiste – è il meccanismo del “repetition compulsion” freudiano applicato all’attaccamento: inconsciamente preferisco rischiare di soffrire in modo familiare piuttosto che provare a essere felice in modo per me ignoto.
L’auto-sabotaggio nelle relazioni affettive può assumere molte forme, spesso sottili: testare continuamente il partner (per vedere fin dove mi tollera, e alla fine facendolo stancare), scegliere persone problematiche o indisponibili così da avere la scusa del “non dipende da me se va male”, evitare ogni discussione o conflitto (per timore che l’altro ci abbandoni se ci mostrassimo arrabbiati o con bisogni), oppure al contrario litigare per ogni piccolezza come valvola di sfogo di ansie interne. Anche la sfera sessuale può essere teatro di auto-sabotaggi legati all’intimità: ad esempio alcuni sviluppano sintomi psicosomatici (impotenza, vaginismo) che inconsciamente “proteggono” da un’intimità che fa paura; altri mettono in atto tradimenti o comportamenti sessuali a rischio nel momento in cui una relazione diventa seria, sabotandola. Tutte queste sono strategie (maladattive) per gestire le emozioni apprese in relazioni primarie insicure: paura di fidarsi, paura di essere vulnerabili, sensazione di non meritare amore.
Un caso particolare è quello del trauma da abbandono molto precoce o dell’attaccamento disorganizzato: qui la persona vive un conflitto quasi insolubile, oscillando tra un bisogno disperato di attaccamento e un terrore dello stesso. Può alternare momenti di grande vicinanza e idealizzazione dell’altro a momenti di gelo emotivo o aggressività improvvisa (un pattern tipico di alcuni casi di disturbo borderline, come vedremo più avanti). In questi casi l’auto-sabotaggio relazionale è estremo e rapido: non appena la persona percepisce di tenere all’altro e quindi di essere in potere suo (la qualcosa attiva il terrore dell’abbandono), scatta la spinta distruttiva – litigate furiose, accuse ingiustificate, perfino comportamenti autolesivi o minacce di suicidio che ovviamente sovraccaricano la relazione. È come se dicesse: “ti faccio vedere quanto sto male così ti sentiresti in colpa a lasciarmi”, ma dall’altra parte questo diventa insostenibile e spesso l’altro se ne va davvero, confermando la profezia. Oppure si instaura una relazione tossica di co-dipendenza dove l’auto-sabotaggio è reciproco e continuativo, con cicli di rottura e ricongiunzione drammatici.
Va notato che l’auto-sabotaggio influenzato dall’attaccamento non riguarda solo le relazioni romantiche, ma può estendersi anche all’ambito sociale e lavorativo. Ad esempio, una persona con schema di Abbandono potrebbe sabotare le proprie amicizie (magari isolandosi o mettendo continuamente alla prova i propri amici finché quelli si stancano), rimanendo così sola e confermando la propria convinzione di “essere destinata alla solitudine”. Oppure sul lavoro, qualcuno con schema di Inadeguatezza/Mancanza di amore potrebbe interpretare ogni feedback costruttivo come una critica distruttiva e reagire in modo eccessivo, rovinando rapporti con colleghi o superiori, o autosabotare opportunità di networking per una sfiducia di base negli altri (“tanto poi mi tradirebbero o mi umilierebbero”).
In conclusione, portiamo dentro di noi i nostri primi legami, e se quei legami erano fragili o feriti, tendiamo a ricrearne le dinamiche anche quando non vorremmo. L’auto-sabotaggio nelle relazioni è spesso un tentativo inconscio di protezione: proteggerci dal rifiuto abbandonando per primi, proteggerci dal giudizio tenendo sempre distanza, proteggere il nostro bisogno di amore forzando l’altro a dimostrarcelo continuamente (finché lo allontaniamo). È un’area dove la consapevolezza può fare miracoli: capire il proprio stile di attaccamento e come influenza i propri comportamenti è già spezzare metà dell’incantesimo. Poi, con pazienza, si può imparare modi nuovi di stare in relazione, tollerando quella paura dell’intimità un passo alla volta, comunicando i propri timori invece di agire sabotaggi, scegliendo consapevolmente partner e amici diversi dal “solito schema” e dandosi il permesso di meritare relazioni sane.
Trauma, coazione a ripetere e “lealtà al dolore”
Abbiamo accennato al ruolo dei traumi nell’auto-sabotaggio: qui approfondiamo come le esperienze traumatiche (specie se precoci o ripetute, come nel trauma complesso) possano formare vere e proprie impronte che guidano poi la persona a danneggiarsi da sola. Un trauma – abuso fisico o sessuale, violenza domestica, grave trascuratezza, ma anche umiliazioni pubbliche intense, bullismo persistente, perdite improvvise – interrompe il normale processo di sviluppo dell’autostima e del senso di sicurezza. Chi subisce traumi spesso interiorizza convinzioni tossiche (es. “è colpa mia”, “non valgo nulla”, “il mondo è completamente pericoloso”) e soprattutto resta congelato in schemi emotivi di paura, vergogna e dolore che possono riattivarsi in situazioni anche vagamente simili al trauma originario. Questo porta a due tendenze: da un lato l’evitamento (cerco di evitare ogni situazione che anche lontanamente mi ricorda il trauma, il che può includere situazioni positive se evocano vulnerabilità), dall’altro la ripetizione (contro ogni logica cosciente mi ritrovo in situazioni quasi uguali al trauma). Freud chiamò questo secondo aspetto coazione a ripetere: il trauma non elaborato continua a riproporsi, come se la psiche tentasse di “digerirlo” trovando finalmente una soluzione diversa. Purtroppo, senza un intervento consapevole, la persona tende a rimettere in atto la stessa storia, perché quelli sono i copioni e i ruoli che conosce. Ad esempio, chi ha avuto un genitore violento potrebbe da adulto cercare (inconsciamente) partner violenti, o se non altro provocare in partner non violenti reazioni aggressive attraverso continue escalation – è ciò che nel trauma si chiama re-enactment.
Ma perché mai qualcuno dovrebbe “cercarsi” inconsciamente di rivivere un trauma? Ci sono diverse spiegazioni: una è che la psiche cerca di padronizzare il trauma – come un disco incantato, ripete l’evento sperando che questa volta il finale cambi (magari troverò finalmente qualcuno che, a differenza del genitore, mi amerà e non mi abuserà, anche se scelgo una persona simile; oppure magari questa volta riuscirò a salvarmi da sola in una situazione simile a quella in cui da piccola ero impotente). Un’altra spiegazione è neurobiologica: il trauma altera i sistemi di risposta allo stress, il cervello rimane iper-allerta e vede minacce anche dove non ci sono, e paradossalmente si sente “a casa” solo in mezzo al caos e al pericolo perché è l’ambiente chimico ed emozionale a cui è abituato. Così, la tranquillità risulta snervante, la felicità è vissuta con sospetto. Alcuni sopravvissuti a traumi riferiscono di sentirsi insopportabilmente a disagio quando tutto va bene, quasi in astinenza dal cortisolo e dall’adrenalina dello stato di allerta continuo: ecco che allora inconsciamente creano dramma, sabotano la quiete, per tornare a uno stato emotivo che, sebbene doloroso, conoscono bene e sanno gestire.
Un concetto introdotto in ambito traumatico è quello di “lealtà al dolore” o lealtà invisibile: chi cresce in un ambiente di sofferenza (ad esempio una famiglia disfunzionale, violenta o molto infelice) può sviluppare dentro di sé un senso di lealtà verso quel sistema, tale per cui sentirsi bene o avere successo equivale a tradire i propri cari. Ecco allora che inconsciamente la persona si autosabota per rimanere fedele al proprio passato. Se la mia famiglia ha sempre vissuto nel caos e nel fallimento, come posso io permettermi di avere una vita serena e realizzata? È come se dentro di sé si dicesse: “Preferisco rimanere spezzato, così onoro la mia storia e le mie origini”. Questo suona paradossale, ma è stato osservato spesso in contesti di abusi e traumi complessi: un misto di senso di indegnità e attaccamento traumatico lega l’individuo al proprio dolore, rendendolo riluttante ad uscirne. Alcune vittime di traumi ripetuti quasi si identificano con la propria sofferenza: guarire significherebbe perdere una parte di sé, oltre che far emergere magari la rabbia verso chi li ha feriti (rabbia che da bambini non potevano permettersi e che hanno dovuto reprimere). L’auto-sabotaggio allora diventa un atto di auto-conservazione psichica: mantengo lo status quo doloroso ma noto, perché la guarigione fa paura, il cambiamento fa paura, e sento di non “meritare” davvero di stare bene quando chi amavo (es. un genitore) mi ha fatto capire il contrario.
Un esempio concreto: Luca ha 16 anni e dopo essere stato costantemente sminuito e paragonato negativamente al fratello maggiore, inizia a sabotare il suo rendimento scolastico, evitando di studiare e collezionando bocciature. In terapia emerge che ha interiorizzato l’idea di essere un fallimento in confronto al fratello “genio della famiglia”. Per Luca, non provarci nemmeno è un modo per anticipare la delusione e provare un senso di controllo: “fallisco da me, così evito l’illusione e il confronto diretto in cui sarei comunque perdente”. Nel suo caso non c’è un trauma in senso stretto, ma un’esperienza ripetuta di umiliazione e svalutazione (un trauma relazionale). La sua lealtà invisibile è verso l’idea inculcata che “non valgo, non potrò mai superare mio fratello”: sabotandosi, conferma quell’idea, restando nel dolore ma evitandosi l’angoscia di provare e magari dover ammettere che i genitori avevano torto. Perché, attenzione, se Luca avesse successo scolastico, dovrebbe rivedere la sua relazione interna coi genitori svalutanti – riconoscere che l’hanno ferito ingiustamente, provare rabbia o dolore per come è stato trattato. Finché invece fallisce, può mantenere la visione (distorta ma più sopportabile affettivamente) che “hanno ragione loro, io sono inferiore”: doloroso, sì, ma almeno non implica mettere in discussione l’amore dei genitori, semplicemente lo pone come condizionato alla sua inadeguatezza. È assurdo, ma la psiche di un figlio preferisce spesso darsi la colpa e soffrire piuttosto che vedere la figura genitoriale in una luce negativa. Ecco come i traumi relazionali infantili possono incatenare a lungo.
In termini neuropsicologici, il trauma rimasto irrisolto spesso porta a una disregolazione emotiva: l’amigdala (centro della paura) diventa iper-reattiva e può hijack (sequestrare) la risposta agli stimoli prima che la corteccia prefrontale razionale possa valutare con calma. Questo significa che quando qualcosa scatena anche lontanamente un ricordo del trauma, possiamo agire impulsivamente in modalità sopravvivenza (attacco, fuga o freezing) senza renderci conto. Molti comportamenti auto-sabotanti impulsivi (scatti di rabbia, abuso di sostanze, comportamenti autolesivi, fughe improvvise) accadono in questi stati di attivazione traumatica in cui il cervello “vecchio” (limbico) prende il comando e quello “nuovo” (prefrontale) viene momentaneamente spento. Quindi una persona che porta traumi significativi può trovarsi a sabotare qualcosa di buono in un attimo di panico – ad esempio, tutto va bene in un appuntamento galante finché un gesto ricorda anche vagamente un’abusante del passato, e la persona reagisce aggredendo o scappando senza capire nemmeno perché; oppure un manager competente sotto stress intenso fa sempre la scelta sbagliata (magari decide di ubriacarsi la sera prima della presentazione decisiva) perché il suo cervello, in sovraccarico, è ricaduto su un pattern abituale e disfunzionale appreso in gioventù come coping (l’alcool per sedare l’ansia), replicando così un disastro.
In sintesi, il trauma imprime dei cicli ripetitivi di comportamento e una sorta di “fedeltà al dolore” che rappresentano forse la forma più tragica di auto-sabotaggio, perché la persona spesso rivive proprio ciò da cui era fuggita o che l’aveva ferita. Ma è anche uno dei campi dove la terapia può portare alle trasformazioni più liberatorie: elaborare un trauma (con terapie come EMDR, elaborazioni narrative o esperienze correttive in terapia) significa spezzare l’incantesimo, integrare finalmente quel ricordo invece di doverlo agire ciecamente. E ciò libera la persona dal dover più cercare inconsciamente di risolvere nel presente ciò che è accaduto nel passato. Come ha scritto Freud, “finché non renderai cosciente l’inconscio, esso guiderà la tua vita e tu lo chiamerai destino”. Questo è particolarmente vero per i traumi: finché l’inconscio guida, l’auto-sabotaggio sembra un destino inevitabile (“capitano sempre tutti a me certi guai…”), ma portandolo alla luce, scopriamo che possiamo scegliere strade diverse da quelle che ci sono state impresse.
Il richiamo del noto: abitudini, comfort zone e ricompense a breve termine
Un aspetto trasversale a molti di quelli già discussi è la potenza delle abitudini mentali e comportamentali. Spesso l’auto-sabotaggio, pur originato da insicurezze o paure, col tempo diventa anche un abito, uno schema così reiterato che si attiva quasi in automatico. Le neuroscienze mostrano che il cervello è pigro in un certo senso: tende a preferire percorsi neurali già tracciati, perché richiedono meno dispendio di energia. Le abitudini risiedono in gran parte nei gangli della base, circuiti neurali profondi che consentono di eseguire comportamenti senza un continuo controllo cosciente. Questo meccanismo, utilissimo per abilità come guidare l’auto senza pensarci, può diventare controproducente se le abitudini apprese sono nocive. Ad esempio, se ogni volta che mi sento sotto pressione ho “imparato” ad allentarla navigando distrattamente sul web (procrastinazione), quell’azione diventa quasi riflessa quando entro in stress – ecco che mi auto-saboto perché invece di lavorare al progetto importante mi ritrovo senza accorgermene sui social, ripetendo un loop noto che placa l’ansia momentaneamente. Si crea così un circolo neurologico: lo stress attiva un cue (segnale) che fa scattare la routine abituale (es. evitare il compito), seguita da una ricompensa biochimica (sollievo d’ansia, picco di dopamina per la novità del feed online, ecc.), consolidando ancora di più l’associazione. Stress e abitudine vanno a braccetto: studi mostrano che sotto stress l’essere umano tende ancor più a ricadere nei comportamenti abitudinari noti, nel bene e nel male. Ciò spiega perché nei momenti di crisi spesso auto-sabotiamo proprio quando avremmo più bisogno di darci da fare: il cervello sotto pressione “tira il pilota automatico” e se il pilota automatico è un self-handicapper, manderà tutto a rotoli come al solito.
Un altro concetto legato alle abitudini è quello di comfort zone. Questo termine indica l’insieme di situazioni in cui ci sentiamo a nostro agio, che non provocano eccessiva ansia perché familiari. Non necessariamente è una zona di benessere – può essere una comfort zone fatta di frustrazione e mediocrità – ma è ciò che conosciamo. Uscirne comporta un salto nel non familiare, il che attiva tensione e incertezza. Per questo, anche senza grandi traumi o credenze negative, l’essere umano tende a mantenersi nella comfort zone, il che in pratica vuol dire non cambiare. L’omeostasi comportamentale fa sì che persino chi è infelice a un lavoro o in una relazione resti lì per anni: il cambiamento spaventa più dell’infelicità nota. L’auto-sabotaggio entra in gioco quando la vita o una parte di noi ci porta ad avvicinarci al limite della comfort zone – ad esempio riceviamo un’opportunità di trasferimento all’estero per lavoro, oppure conosciamo una persona diversa dai soliti partner tossici e potenzialmente giusta per noi. A quel punto può attivarsi un inconsapevole tiro della giacchetta verso la zona confortevole: all’ultimo decliniamo l’offerta di lavoro, oppure iniziamo a comportarci in modo sconsiderato con la persona appena conosciuta per rovinare tutto. Siamo come un elastico che se troppo teso in una direzione nuova, torna indietro alla lunghezza di partenza. Auto-sabotaggio come omeostasi, dunque: l’obiettivo (disfunzionale) è mantenere lo status quo interno.
In tutto ciò giocano anche i sistemi di ricompensa a breve vs lungo termine. Il cervello è più motivato da ricompense immediate che da quelle differite. Così, molti auto-sabotaggi offrono un premio subito a fronte di una perdita futura. Un classico esempio è la procrastinazione: rimandare un compito oggi premia subito con relax e niente stress, il costo – la fretta o il fallimento – arriverà domani o dopodomani. Ed ecco che spesso scegliamo la piccola gratificazione odierna a scapito del beneficio grande ma posticipato. Un altro esempio è l’alimentazione compulsiva: mangiare cibo spazzatura consola e appaga sul momento (sparo dopaminico), mentre la salute e la forma fisica future peggiorano. Se una persona è in forte stress o insoddisfatta, è molto probabile che cadrà in questi short-term rewards che però sabotano i suoi goal di lungo termine (come dimagrire, finire un progetto, mettere da parte soldi, ecc.). È esattamente l’opposto di quello che la saggezza popolare consiglia (“impara a seminare oggi per raccogliere domani”), ma dal punto di vista neurologico c’è una logica: sotto stress, come detto, la parte più antica e immediatista del cervello prende il sopravvento, mentre la corteccia prefrontale (che pianifica e considera le conseguenze future) va offline. In situazioni del genere, l’auto-sabotaggio è quasi “istintivo”, perché il cervello cerca regolazione emotiva immediata: calmarsi, provare piacere ora. Se lo fa in modi malsani (scappare da un’opportunità, cercare rifugio in una dipendenza, ecc.), lo consideriamo auto-sabotaggio; ma va capito che in quel momento il cervello sta solo cercando di stare meglio subito, non sta “complottando” contro il nostro successo futuro (anche se l’effetto è quello).
Conoscere questa tensione tra breve e lungo termine è utile, perché molte tecniche per vincere l’auto-sabotaggio mirano proprio a rendere più attraente la ricompensa differita o a posticipare la gratificazione immediata (ad esempio con l’uso di if-then planning, premi intermedi, accountability esterna, ecc. – cose di cui si parla nel self-help e che un terapeuta del comportamento suggerirebbe).
In sintesi, i meccanismi psicologici dell’auto-sabotaggio spesso mescolano elementi emotivi profondi (paure, traumi, credenze) con elementi più automatici (abitudini, riflessi appresi, ricerca di comfort). L’effetto combinato è potente: ad esempio, una credenza di indegnità ci farà sentire ansiosi quando qualcosa va bene, quell’ansia attiverà l’impulso abituale di auto-sabotaggio (magari bere o mollare tutto) che a sua volta ci darà un sollievo immediato e quindi verrà rinforzato. Capire i pezzi del puzzle ci consente di intervenire su ciascuno: sulle emozioni con tecniche di regolazione, sui pensieri con ristrutturazione cognitiva, sulle abitudini con training comportamentale, e sul contesto di vita (stress, relazioni) per ridurre i trigger. Ma prima di vedere le soluzioni, completiamo il quadro esaminando come l’auto-sabotaggio compare in alcuni disturbi psicologici specifici e come si manifesta nelle diverse aree di vita, dalle relazioni al lavoro.
Auto-sabotaggio e disturbi psicologici correlati
L’auto-sabotaggio non è di per sé un disturbo diagnosticabile, ma rappresenta spesso un sintomo trasversale presente in varie condizioni cliniche. In questa sezione passeremo in rassegna alcuni disturbi in cui i comportamenti auto-sabotanti sono particolarmente comuni o caratteristici. Lo scopo è duplice: da un lato, comprendere come certe dinamiche patologiche possano spingere la persona a ostacolare se stessa; dall’altro, riconoscere che quando l’auto-sabotaggio diventa pervasivo e incontrollabile, potrebbe essere segnale di un disagio psicologico più ampio e meritevole di attenzione clinica. Vedremo il ruolo dell’ansia, della depressione, dei disturbi di personalità (in particolare l’evitante e il borderline), e degli esiti di traumi complessi, oltre a tratti come la bassa autostima cronica e il perfezionismo patologico.
Disturbi d’ansia e evitamento del fallimento
L’ansia cronica o generalizzata porta con sé un’iper-vigilanza verso i rischi e una costante anticipazione catastrofica. Chi soffre di disturbi d’ansia – come il Disturbo d’Ansia Generalizzato, le fobie sociali o il Disturbo di Panico – tende a sovrastimare la probabilità di eventi negativi e a sottostimare le proprie risorse per fronteggiarli. Questo assetto cognitivo-emotivo favorisce comportamenti di evitamento: meglio evitare la situazione X perché “chissà cosa potrebbe andare storto, sicuramente succederà il peggio e non saprei gestirlo”. Molte forme di auto-sabotaggio, specie in ambito lavorativo o formativo, nascono da qui. L’esempio citato anche prima: una persona con forte ansia sociale che desidera parlare in pubblico di un progetto a cui tiene, all’ultimo momento dà forfait e si tira indietro per paura di fare brutta figura. Nell’immediato prova sollievo (ha evitato il panico da palcoscenico), ma a lungo termine ha sabotato la sua occasione di far conoscere il progetto e rafforzare la propria autostima. Un altro caso: un soggetto con ansia generalizzata che teme di non gestire lo stress di un nuovo incarico al lavoro potrebbe declinare promozioni o incarichi sfidanti, auto-limitandosi a mansioni inferiori – la sua ansia cala, ma poi subentra frustrazione e senso di stagnazione.
Nei disturbi d’ansia quindi l’auto-sabotaggio funge da strategia protettiva: protegge dal picco acuto di ansia evitando la situazione temuta, ma come effetto collaterale blocca la crescita personale. In terapia cognitivo-comportamentale, ad esempio, si lavora molto su questo meccanismo, cercando di spezzare il legame evitamento-sollievo. Spesso si rivela al paziente ansioso che l’evitamento è un “inganno”: promette sicurezza ma in realtà mantiene vivo il disturbo e impedisce di fare esperienze disconfermanti (ad esempio, se quell’oratore ansioso riuscisse una volta a parlare in pubblico e magari ricevere anche applausi, inizierebbe a ridimensionare le sue paure).
Una forma specifica di ansia correlata all’auto-sabotaggio è la paura estrema di fallire (atychiphobia). In alcuni individui questa fobia per il fallimento assume proporzioni tali che preferiscono vivere in un perenne limbo di non-scelte e rinunce piuttosto che rischiare un fallimento concreto. Si accompagna spesso a perfezionismo (di cui diremo a breve) e a procrastinazione cronica: l’ansioso perfezionista rimanda e rimanda l’azione, dicendo a sé “non è ancora abbastanza perfetto per presentarlo” oppure “non sono ancora pronto, devo prepararmi meglio” – il risultato però è che non agisce mai, auto-sabotandosi rispetto agli obiettivi. Paradossalmente, questo evita fallimenti reali, ma produce spesso un fallimento più subdolo: opportunità sprecate e progetti incompiuti.
Rientrano in quest’area anche comportamenti tipo “freezing”: di fronte a un compito difficile l’ansioso rimane paralizzato e non fa nulla, un po’ come l’animale che finge di essere morto per non essere attaccato. Ad esempio durante un esame orale, uno studente in preda all’ansia potrebbe non riuscire a rispondere neppure a ciò che sa, auto-sabotando la propria performance (il classico “blocco da esame”). Non è deliberato, ma l’effetto è quello. Tali manifestazioni fanno capire che a un certo livello l’auto-sabotaggio ansioso non è neanche più una scelta comportamentale, diventa un sintomo fisiologico: l’ansia acuta manda in tilt le capacità cognitive e la persona fallisce indipendentemente dalla volontà, perché mente e corpo sono in “modalità sopravvivenza” e non in modalità “esecuzione compito”.
Riassumendo: nei disturbi d’ansia l’auto-sabotaggio si manifesta principalmente come evitamento di situazioni potenzialmente stressanti o come blocco/perfezionismo di fronte ad esse. Il motore è la paura, la logica quella di ridurre l’ansia nel breve periodo. Ma poiché la persona spesso ha desideri genuini di successo o realizzazione, vive poi un conflitto e senso di colpa per essersi di nuovo messa i bastoni tra le ruote. Questo può alimentare anche depressione secondaria (percepirsi incapaci o vigliacchi), creando un quadro complesso. Riconoscere la matrice ansiosa è importante perché la terapia può puntare su tecniche specifiche (esposizione graduale, rilassamento, ristrutturazione delle valutazioni catastrofiche) per spezzare questo circolo.
Depressione: rinuncia e auto-svalutazione costante
Nel disturbo depressivo l’energia vitale, la motivazione e la speranza nel futuro crollano. L’auto-sabotaggio in depressione spesso assume la forma di una rinuncia totale: la persona smette di provarci, si lascia andare, non coltiva più nulla che possa migliorare la sua vita. Qui l’ostacolo non è tanto la paura di fallire, quanto una profonda sfiducia e passività appresa – ciò che Martin Seligman chiamò impotenza appresa (learned helplessness). Il depresso ha interiorizzato l’idea che “nulla di ciò che farò farà differenza, tanto finirà male comunque”. Quindi, ad esempio, non si presenta ai colloqui di lavoro perché pensa “non mi assumerebbero, è inutile”; non cura la propria salute perché “che senso ha, niente mi fa stare meglio”; allontana gli altri perché “tanto non possono capire, e li annoierei soltanto”. Questa sorta di resa anticipata è un auto-sabotaggio su tutti i fronti: in effetti, se non fai nulla, le cose difficilmente miglioreranno (anzi spesso peggiorano), e ciò purtroppo rinforza la visione pessimistica del depresso. A livello comportamentale è molto evidente: il depresso spesso interrompe attività una volta significative, si isola socialmente, trascura impegni e responsabilità, a volte si rifugia in condotte di auto-lenimento che però peggiorano la situazione (come l’abuso di alcol o cibo spazzatura, che momentaneamente anestetizzano ma a lungo andare aggravano umore e salute).
Dal punto di vista cognitivo, la depressione è alimentata da una triade di pensieri negativi su sé stessi, sul mondo e sul futuro. Auto-svalutazioni costanti come “sono un fallimento”, “non merito nulla di buono”, “le cose andranno sempre peggio” attanagliano la mente. Con queste premesse, l’auto-sabotaggio non è neanche percepito come tale dal depresso, ma come “semplice realismo”: perché mai studiare per quell’esame se “tanto lo boccio di sicuro e anche laureandomi non troverei lavoro”? Questo atteggiamento fatalista può apparire dall’esterno come pigrizia o scarsa volontà, ma va compreso che per il depresso è come muoversi in un campo di gravità aumentata: la prospettiva di qualsiasi sforzo, senza la minima fiducia in un esito positivo, diventa insormontabile. Così, non tenta nemmeno – e l’assenza di tentativi è l’auto-sabotaggio più netto.
Un altro modo in cui la depressione porta all’auto-sabotaggio è attraverso la visione alterata di sé: se credo fermamente di non meritare qualcosa, magari inconsciamente farò in modo di non averla. C’è un sottofondo di senso di indegnità nella depressione che ricorda quanto detto sulla bassa autostima: il depresso talvolta punisce sé stesso privandosi di occasioni di piacere. Ad esempio, potrebbe deliberatamente evitare attività sociali che un tempo gli davano soddisfazione, come se inconsciamente si auto-infliggesse una punizione (“non merito di divertirmi mentre sono così inutile”). Questo confina col sintomo della anedonia (incapacità di provare piacere), ma qui parliamo di scelte comportamentali che peggiorano il quadro – un auto-sabotaggio del proprio potenziale benessere residuo.
La depressione grave può includere anche pensieri di morte o tendenze autolesive. In questi estremi, l’auto-sabotaggio diventa auto-distruzione esplicita (tentativi di suicidio, mettere a rischio la propria incolumità). Sebbene questi atti travalichino il tema del “sabotare obiettivi” (ormai l’obiettivo stesso della persona depressa può diventare annullare la propria sofferenza tramite la fine di sé), sono importanti da citare: a volte l’auto-sabotaggio ripetuto e non affrontato degenera in un disturbo depressivo maggiore, e questo a sua volta può condurre a ideazioni suicidarie – il sabotaggio ultimo, quello della propria esistenza.
Fortunatamente, trattare la depressione spesso aiuta a rimuovere gli ostacoli auto-imposti: con antidepressivi e terapia, tornando un minimo di speranza ed energia, la persona può riprendere a fare quei piccoli passi (riordinare casa, uscire per una passeggiata, rispondere a un’email di lavoro) che rompono l’incantesimo della rinuncia totale. Un approccio efficace è la Terapia Comportamentale Attivante, che spinge il depresso a fare anche senza aspettare di “sentirsela”, invertendo così il circolo vizioso: l’azione precede la motivazione. In pratica, si combatte l’auto-sabotaggio depressivo forzando gentilmente il motore a ripartire, con micro-obiettivi e ricompense immediate, ricostruendo pian piano la fiducia.
Disturbo Evitante di Personalità: il paradosso del desiderio temuto
Il Disturbo Evitante di Personalità è caratterizzato da inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Chi ha un tratto evitante profondo desidera relazioni e successi, ma li teme al contempo in maniera estrema. Il risultato è che fugge sistematicamente da situazioni di contatto sociale, emotivo o di valutazione, per paura di essere giudicato, rifiutato o criticato. Questo disturbo potrebbe essere visto come l’incarnazione clinica dell’auto-sabotaggio: il soggetto evitante brama connessione e riconoscimento, ma finisce per isolarsi, confermando così proprio la convinzione di non essere all’altezza e rimanendo solo.
In pratica, l’autosabotaggio evitante si manifesta con comportamenti quali: rifiutare promozioni o incarichi perché comportano visibilità; evitare nuovi rapporti di amicizia o amorosi se non in condizioni di certezza assoluta di essere accettati; tenere un profilo così basso da risultare quasi invisibili (nel gruppo di lavoro, ad esempio, l’evitante non esprime mai opinioni, non si espone, e di conseguenza viene ignorato o scavalcato, il che conferma la sua idea di non contare nulla). C’è un profondo paradosso: l’evitante soffre per la propria solitudine e mancanza di realizzazione, eppure ogni suo atto sembra teso a perpetuarle. Questo non perché voglia punirsi, ma perché la paura del rifiuto o del fallimento è ancora più forte del desiderio di connessione/successo. Egli vive in un costante stato di antitesi: “vorrei ma non posso”. Ad esempio, può innamorarsi di qualcuno ma non dichiararsi mai, magari addirittura comportarsi freddamente per non mostrare i suoi sentimenti, e guardare poi la persona amata allontanarsi o mettersi con altri – soffrendone enormemente, ma dicendosi “meglio così, se mi fossi dichiarato mi avrebbe comunque rifiutato e sarebbe stato anche peggio”.
Il Disturbo Evitante è considerato da alcuni studiosi come “cugino” del disturbo d’ansia sociale, ma più pervasivo: non è solo in alcune situazioni, è un tratto di personalità consolidato. L’auto-sabotaggio qui diventa quasi uno stile di vita: queste persone organizzano tutta la propria esistenza in modo da minimizzare il rischio di figuracce o di critiche – purtroppo così facendo minimizzano anche qualsiasi opportunità di crescita o di soddisfazione. Sul lavoro magari rimangono in posizioni infime pur essendo capaci, perché non osano presentarsi per avanzamenti; evitano i riflettori, quindi raramente i superiori li notano per promuoverli. Nelle relazioni, come detto, tendono o alla solitudine, o a frequentare poche persone “sicure” (ad esempio ambienti online protetti o amici storici) senza mai allargare il cerchio. In terapia, spesso riferiscono di sentirsi come dietro un vetro che li separa dalla vita: vedono gli altri partecipare a varie esperienze, mentre loro restano ai margini. Ma quel vetro lo hanno eretto per non rischiare ferite.
È importante notare che l’evitante, al contrario di altri, non nega il suo desiderio; anzi, di solito è molto consapevole di volere ciò che non riesce ad avere. Questo rende il suo auto-sabotaggio particolarmente doloroso a livello cosciente: sa di essere lui stesso il suo ostacolo, ma sente di non riuscire a fare diversamente. È come se fosse prigioniero di una paura che lui stesso vede essere irrazionale e invalidante, ma comunque troppo intensa da superare.
Gli approcci terapeutici efficaci con l’evitante – oltre a eventuali farmaci ansiolitici/antidepressivi se l’ansia o la distimia sono presenti – includono la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sulle distorsioni cognitive (“se mi espongo sarò per forza deriso, se qualcuno vede un mio difetto non potrà più rispettarmi”) e sulle esperienze graduali di successo. Anche la Schema Therapy individua nello stile evitante una combinazione di schemi (ad esempio Inadeguatezza/Vergogna e Paura di essere ferito/rifiutato) e modalità come il Protettore Distaccato che va a disattivare emozioni e desideri per evitare sofferenze. Un obiettivo chiave è aiutare la persona a tollerare gradualmente la vicinanza e la visibilità, iniziando in contesti molto safe e poi generalizzando. In qualche modo, si tratta di convincere l’evitante a rischiare un po’ di felicità. Finché rimarrà perfettamente al sicuro, rimarrà anche perfettamente infelice.
Disturbo Borderline di Personalità: montagne russe e auto-danneggiamento
Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è noto per l’instabilità emotiva e relazionale, e anche qui l’auto-sabotaggio figura tra i comportamenti osservati. In particolare, i criteri diagnostici includono spesso comportamenti impulsivi e autolesivi, non solo nel senso fisico (tagli, abuso di sostanze, spese folli) ma anche sociale (ad esempio, rompere improvvisamente relazioni importanti, lasciare un lavoro su due piedi in un momento di rabbia). Molti di questi atti impulsivi borderline possono essere letti come auto-sabotaggi, nel senso che rovinano opportunità o rapporti che la persona in realtà considera preziosi.
Una caratteristica chiave è che nel BPD convive un fortissimo timore dell’abbandono con un’altrettanto forte paura dell’intimità (quest’ultima meno evidente ma presente). La persona borderline spesso anela a relazioni strette ma, a causa di traumi di attaccamento e schemi disfunzionali, crede di essere destinata a essere abbandonata e di non meritare stabilità. Di fronte alla minaccia percepita di abbandono (che può essere anche solo il partner che fa qualcosa senza di loro), reagisce in modi estremi: rabbia, disperazione, tentativi frenetici di tenere l’altro legato a sé, anche manipolatori o autolesivi (“se mi lasci mi faccio del male”). Queste reazioni spesso sabotano la relazione, perché per l’altro diventano insostenibili – nessuno può vivere costantemente sottoposto a test d’amore o crisi drammatiche. È stato osservato che molti borderline hanno una convinzione inconscia: “non posso essere amato davvero; se qualcuno sembra amarmi, o non mi conosce davvero oppure se mi conosce scapperà”. Dunque alcune azioni auto-sabotanti servono proprio a mettere alla prova l’amore altrui fino al limite, per verificare se regge; se (come spesso accade) l’altro cede e se ne va, il borderline resta devastato ma pensa “ecco, avevo ragione, non sono amabile, tutti mi abbandonano”.
Un esempio tipico: una donna borderline durante un periodo di felicità con il compagno, improvvisamente scatena un litigio enorme per motivi futili, lo tradisce e glielo confessa. Il compagno la lascia (esausto e ferito), e lei piomba in depressione, dicendo a sé stessa che è colpa sua e che come al solito ha rovinato tutto nel momento in cui andava bene. Questo è auto-sabotaggio affettivo allo stato puro, ed è purtroppo molto comune. Spesso viene descritto come pattern di instabilità: “relazioni tumultuose che iniziano in modo idealizzato e finiscono in modo disastroso” – se si guarda bene, in molti casi c’è proprio l’auto-sabotaggio della fase di consolidamento: al picco di intimità, il borderline fa qualcosa di auto-distruttivo (perché quell’intimità probabilmente gli suscita vulnerabilità insopportabile o la sensazione che sta per perderla e quindi preferisce “controllare” lui quando romperla).
Non è solo in amore: borderline può auto-sabotare anche successi personali. Molti pazienti borderline raccontano di avere crolli proprio quando la vita sembra migliorare: ad esempio vanno bene all’università per un semestre e poi, spaventati dal fatto che sono vicini alla laurea (cosa che li esporrebbe al “mondo reale”), sabotano tutto smettendo di frequentare e mandando all’aria gli esami finali. O riescono a ottenere il lavoro che volevano e dopo un mese litigano furiosamente col capo e si fanno licenziare. Questi pattern fanno pensare che, oltre alla questione abbandonica, c’è anche nel borderline un problema di identità e meritocrazia: essendo la loro immagine di sé molto negativa e instabile, ogni successo appare non meritato (sindrome dell’impostore intensa) e genera ansia identitaria. Quindi inconsciamente preferiscono demolirlo e tornare all’identità di “fallito” che, per quanto dolorosa, è quella familiare. La letteratura (ad esempio il lavoro di Benjamin 1993 citato in State of Mind) evidenzia proprio due dimensioni in BPD: da un lato la paura di essere lasciati, dall’altro una sorta di auto-sabotaggio nel perseguire una vita felice – come se “essere felici” equivalesse a “essere abbandonati” nella loro equazione mentale. In molte storie di borderline c’è un messaggio interiorizzato simile a quello evitante: “l’autonomia è male, la dipendenza (la malattia, la sofferenza) attira amore”. Se da bambino la persona ha ricevuto cure solo quando stava male (es. genitori che ti consideravano solo se eri in crisi, mentre ignoravano i tuoi successi), può imparare questo e dunque sabotare la propria felicità per tornare in uno stato di crisi che attiri cure.
Sul piano comportamentale, come accennato, l’auto-sabotaggio borderline è spesso impulsivo: queste persone faticano a regolare emozioni intense, per cui reagiscono nell’immediato con azioni drastiche senza valutare le conseguenze. L’esito è poi deleterio per loro stesse, ma in quel momento era l’unica modalità nota per scaricare o gestire l’emozione. Ad esempio, dopo una lite magari minima con un amico, un borderline può pubblicamente insultarlo sui social in preda all’ira (scarica la rabbia) – subito dopo perde quell’amico, e forse altri per la cattiva reputazione, quindi ha danneggiato la sua rete sociale. Non era pianificato per auto-danneggiarsi, era uno sfogo; ma di fatto ha ottenuto uno self-defeating outcome (esito auto-sabotante).
Una caratteristica del borderline è anche la difficoltà a costruire una narrazione coerente di sé: passano da un’immagine idealizzata di sé a una completamente svalutata, non integrano le esperienze nel tempo. Questo rende difficile apprendere dai propri errori: ogni situazione emotiva estrema è vissuta come unica e totalmente coinvolgente, e magari la persona non collega che di nuovo sta rovinando qualcosa di importante perché di nuovo si sente vuota o arrabbiata. Solo col senno di poi, nella depressione post-crisi, vede il filo conduttore (“ogni volta che ho successo rovino tutto” o “nessuno mi sopporta a lungo, finisco sempre abbandonato”), ma spesso lo vede fatalisticamente, come fosse appunto un destino (“sono fatto male io”).
La psicoterapia dialettico-comportamentale (DBT) e la Schema Therapy ottengono buoni risultati con borderline, insegnando abilità di regolazione emotiva e lavorando sugli schemi di abbandono, abuso, sfiducia, punizione che abbiamo menzionato. Per esempio, la Schema Therapy scompone il borderline in modalità come Bambino Abbandonato (disperato, bisognoso), Bambino Arrabbiato, Genitore Punitivo, Protettore Distaccato, e mira a rafforzare l’Adulto sano che possa governare meglio queste parti. In termini di auto-sabotaggio, questo significa insegnare alla persona a riconoscere quando sta per compiere un gesto impulsivo irreparabile (esempio: “sto per mandare un messaggio aggressivo al mio ragazzo perché in questo momento mi sento furiosa e terrorizzata che mi lasci”) e ad attingere a un modo alternativo di affrontare l’emozione (la DBT insegna per esempio il “delay”, il rimandare comportamenti impulsivi per tot minuti, e nel frattempo usare skill di distrazione o rilassamento). Anche aiutare il borderline a costruire un senso di sé più coeso e meno dipendente dallo sguardo altrui riduce l’auto-sabotaggio: se mi sento un po’ più stabile interiormente, non andrò nel panico se il partner non risponde per un’ora e quindi non farò scenate distruttive.
In conclusione, nel BPD l’auto-sabotaggio è quasi un criterio diagnostico implicito: queste persone si intralciano la vita da sole, soprattutto nelle aree a cui tengono di più (relazioni in primis). Riconoscere il pattern è già di aiuto, perché molti borderline arrivano a farsi curare proprio dicendo “voglio smettere di rovinare tutto ciò che di buono ho”. La buona notizia è che con impegno e giusta terapia si può molto migliorare: i pazienti borderline possono imparare progressivamente a non cedere a ogni impulso e a riparare i danni fatti, sviluppando relazioni più stabili. Non è facile, ma è possibile, come dimostrano i tassi di remissione sintomatologica significativi in follow-up di trattamenti DBT/Schema Therapy.
Esiti di traumi complessi: quando il passato intrappola il presente
I traumi complessi, cioè prolungati nel tempo (infanzia con abusi, violenze domestiche ripetute, negligenza cronica), lasciano spesso un’impronta indelebile sui modelli comportamentali. Abbiamo già approfondito il discorso trauma nella sezione meccanismi, quindi qui possiamo concentrarci su come i disturbi correlati al trauma presentino auto-sabotaggi caratteristici.
Il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) classico (trauma singolo, come guerra, stupro, incidente grave) porta la persona a vivere flashback, ipervigilanza e intorpidimento emotivo. Il soggetto PTSD può auto-sabotare la sua ripresa evitando tutto ciò che riguarda il trauma (es. un sopravvissuto ad incidente stradale magari evita di guidare o anche di uscire di casa, così però sabota la sua vita normale) o, al contrario, ricercando situazioni ad alto rischio (alcuni veterani di guerra diventano spericolati, quasi per sentirsi di nuovo vivi). Tali condotte compromettono spesso riabilitazione, lavoro e relazioni (per esempio, un reduce con PTSD può bere per sedare i flashback, finendo per sabotare la propria salute e vita familiare).
Nel Trauma Complesso (C-PTSD), concetto più ampio, oltre ai sintomi da PTSD ci sono disturbi dell’identità, difficoltà di regolazione emotiva e schemi relazionali disfunzionali persistenti. Un “esito tipico” del trauma prolungato, come detto, è la lealtà inconscia al dolore: la persona può, a un livello profondo, sentirsi “sbagliata” se cerca di stare bene, come se tradisse la versione di sé ferita. Questo può portare ad auto-sabotaggi inaspettati: ad esempio, un uomo che da bambino è stato ripetutamente umiliato dal padre e dunque ha un’immagine di sé come debole, ogni volta che nella sua vita adulta consegue qualcosa che contraddice quell’immagine (un avanzamento di carriera, una relazione con qualcuno che lo apprezza davvero) potrebbe cadere in una depressione improvvisa o in comportamenti autodistruttivi (tipo binge drinking) che rovinano quel progresso – e ciò lo riporta a sentirsi debole e incapace, condizione emotivamente più familiare per lui. Un altro scenario: una donna cresciuta con manipolazione affettiva (genitori che la facevano sentire colpevole se era felice) sviluppa un boicottaggio di ogni cosa bella che le accade; magari incontra un partner amorevole, e lei inconsciamente inizia a creare conflitti finché la storia finisce: rivive la sofferenza a cui è abituata e “espia” la colpa di aver quasi trovato la felicità che i suoi genitori non volevano avesse.
Ci sono poi i disturbi dissociativi, spesso legati a traumi infantili: in alcuni di essi l’auto-sabotaggio assume la forma di comportamenti auto-eterodiretti nocivi fuori dal controllo cosciente. Per esempio, nel Disturbo Dissociativo dell’Identità (ex personalità multiple) alcune “parti” della psiche (alter) possono mettere in atto condotte autodistruttive senza che l’alter principale ne abbia ricordo o controllo (una parte arrabbiata che si procura ferite, o che spende tutti i risparmi). È un caso estremo, ma interessante perché rende palese il concetto che dentro di noi possono esserci diverse istanze con programmi contrastanti: una vuole sopravvivere e guarire, un’altra – nata dal trauma – vuole farci pagare ciò che ritiene colpa nostra o replicare il trauma perché è la sua realtà. Anche senza arrivare al DID, molte persone traumatizzate riferiscono la sensazione di “una parte di me vuole distruggere tutto”. Questo può tradursi in comportamenti come auto-lesionismo (tagliarsi, bruciarsi): è letteralmente una parte che attacca il corpo come punizione o valvola di sfogo. L’autolesionismo fisico non è sempre equiparato all’auto-sabotaggio di obiettivi, ma certamente sabotage il benessere e spaventa/alienare chi sta intorno (quindi indirettamente danneggia relazioni e opportunità lavorative se scoperto). È spesso presente in BPD ma anche in PTSD/C-PTSD.
La prospettiva di Bessel van der Kolk e altri specialisti del trauma è “il corpo accusa il colpo” (The body keeps the score): il corpo e il sistema nervoso rimangono bloccati in modalità di sopravvivenza e reagiscono in modi che oggi sono mal adattivi. Ad esempio, scatti di collera incontenibile in risposta a trigger minimi (un volto arrabbiato del capo che scatena il ricordo corporeo del padre abusante) possono sabotare la carriera di un individuo traumatizzato, che viene magari licenziato per aggressività. Oppure chi ha un trauma sessuale può sabotare relazioni intime evitando qualunque contatto fisico o reagendo con panico/gelosia estrema in situazioni normali, minando anche partner affettuosi.
In breve, i traumi complessi possono imprigionare la persona in schemi ripetitivi di comportamento e reazione che auto-perpetuano la condizione di vittima o di sofferente. Finché questi schemi non vengono sciolti mediante terapia (ad esempio EMDR per rielaborare i ricordi, o terapie sensomotorie per rilasciare il trauma immagazzinato a livello corporeo), l’individuo vivrà come se fosse ancora nel trauma – e si comporterà di conseguenza, anche quando oggettivamente potrebbe stare bene. Questo è uno degli auto-sabotaggi più strazianti da vedere, ma anche uno in cui la chiave di svolta è ormai ben conosciuta: la guarigione dal trauma libera dall’auto-sabotaggio legato ad esso. Con il giusto supporto, quelle persone possono “uscire dal passato” e scoprire che possono smettere di rifarsi del male, perché non sono più in quella situazione di allora. Il passato smette di intrappolare il presente.
Bassa autostima cronica e perfezionismo patologico
Infine, vale la pena parlare di due condizioni non formalmente patologiche ma strettamente associate all’auto-sabotaggio: la bassa autostima cronica e il perfezionismo disfunzionale. Abbiamo toccato più volte questi temi, ma qui li consideriamo come tratti strutturati che in alcuni individui pervadono la personalità e generano continui auto-sabotaggi.
La bassa autostima cronica può essere esito di molte cose: educazione svalutante, bullismo, fallimenti ripetuti, temperamento sensibile. Quando una persona cresce con una percezione di sé fortemente negativa, tende a settarsi obiettivi bassi (auto-sabotaggio per difetto) o a autosabotare qualunque cosa buona arrivi (per coerenza con la propria identità negativa, come discusso). Alcuni vivono in uno stato quasi permanente di auto-sabotaggio passivo: non cercano promozioni, non esprimono opinioni, non perseguono sogni, perché dentro sentono di “non poter aspirare a nulla di più”. Questo li porta spesso ad avere vite al di sotto del loro potenziale in ogni ambito. A volte si circondano anche di persone che li maltrattano o sfruttano, perché credono di non meritare di meglio (il che è un auto-sabotaggio nelle scelte di compagnia). Dal punto di vista clinico, la bassa autostima non è un disturbo in sé ma è fattore di rischio per depressione e ansia, per cui spesso viene affrontata in terapia. Un concetto correlato è quello di “locus of control esterno” e di scarso senso di autoefficacia: chi non crede di avere controllo sugli eventi o capacità di influenzarli positivamente spesso non si impegnerà, attuando di nuovo la profezia negativa. Si crea quasi un abito mentale dell’auto-sabotatore: qualunque problema nel lavoro o nelle relazioni, la persona lo attribuisce a qualche sua mancanza fondamentale e si arrende subito, rinforzando la convinzione di essere condannato a perdere.
Il perfezionismo patologico, a prima vista, sembra il contrario del sabotaggio: il perfezionista vuole il massimo, non il fallimento. In realtà, però, il perfezionismo rigido è uno dei motori più potenti di auto-sabotaggio: quando l’asticella interna è posta irraggiungibilmente in alto, qualsiasi passo concreto viene bloccato dalla paura di non essere all’altezza. Molti perfezionisti finiscono col non concludere nulla – l’aspirazione alla perfezione li paralizza e li porta a procrastinare oppure a rifare indefinitamente senza mai ritenere il risultato adeguato. Ad esempio, uno scrittore perfezionista può riscrivere il primo capitolo di un libro all’infinito, senza mai passare oltre, finché getta la spugna perché “non è ancora perfetto”; di fatto, non pubblicherà mai il libro, auto-sabotandosi. Un manager perfezionista può micro-gestire ogni dettaglio e non delegare nulla: l’esito è che sovraccarico e stressato, commette errori per stanchezza e rovina progetti proprio per eccesso di controllo. Una persona ossessionata dall’avere la relazione perfetta potrebbe sabotare un amore genuino perché trova piccoli difetti nell’altro o nel rapporto, e rincorrere all’infinito l’ideale inesistente.
Spesso dietro il perfezionismo c’è paura del fallimento o del giudizio: se faccio tutto perfetto forse nessuno potrà criticarmi. Ma poiché la perfezione non è umana, il risultato è che il perfezionista evita di esporsi finché non è sicuro di poter fare perfettamente – e quel momento non arriva mai. Dunque, in termini di vita pratica, il perfezionista cronico sabota la propria produttività e creatività. Questo è un tema ben noto anche in ambito lavorativo e accademico: si parla di “perfection paralysis”. In area clinica, il perfezionismo è correlato con disturbi d’ansia, OCD (Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità e Disturbo Ossessivo-Compulsivo clinico) e disturbi alimentari. Ad esempio, in certi tipi di anoressia c’è un perfezionismo altissimo che spinge la persona a controllare rigidamente l’alimentazione; l’auto-sabotaggio qui appare perché, inseguendo l’ideale di corpo perfetto, l’anoressica compromette salute, relazioni, e anche eventuali carriere (un’ossessione che fagocita tutto).
In psicoterapia, lavorare col perfezionismo significa far capire alla persona l’alto costo del suo standard. Un esercizio comune è proprio: “Qual è il prezzo che stai pagando per voler ottenere 10/10 in questa cosa? Cosa succederebbe se puntassi a un 8, e intanto agissi?”. Pian piano si aiuta a valorizzare il progresso e il processo al posto del risultato impeccabile. Questo spezza il sabotaggio dovuto al pensiero dicotomico tutto/nulla: invece di “o perfetto o niente”, si accetta il “buono, migliorabile, ma intanto fatto”. Vedere i risultati concreti (magari imperfetti ma reali) aiuta a ridurre l’ansia di prestazione e a costruire un senso di efficacia.
Tirando le somme di questa sezione, l’auto-sabotaggio pervade molte manifestazioni psicopatologiche. A volte è talmente integrato nella condizione clinica che viene dato per scontato (come nella depressione o nell’evitamento); altre volte spicca come uno dei problemi più lamentati dal paziente stesso (borderline che dice “rovino tutto, aiutatemi a smettere”). Dal punto di vista clinico, ciò suggerisce che affrontare l’auto-sabotaggio può essere un obiettivo trasversale della terapia, al di là delle diagnosi. Significa aiutare il paziente a riconoscere quei pattern autolesivi e a comprenderne il senso originario (paura, protezione, abitudine) per poi trovare modi più sani di soddisfare gli stessi bisogni. Ad esempio: se un evitante si auto-sabota per paura di essere criticato, il lavoro sarà sia sul ridurre quella paura (ristrutturando la credenza “se vengo criticato non valgo nulla”) sia sul costruire gradualmente esperienze di esposizione con supporto (magari iniziando in terapia di gruppo a parlare, poi in piccoli contesti sociali, ecc.), offrendo esperienze positive correttive. Se un depresso rinuncia a tutto per disperazione, il lavoro sarà sul farlo agire nonostante la mancanza di speranza, dandogli piccoli successi che comincino a incrinare la sua convinzione di impotenza. Insomma, si tratta di invertire quei meccanismi ovunque si trovino: è una sfida, ma con approcci integrati (cognitivi, emotivi, esperienziali) è spesso possibile ottenere miglioramenti significativi.
Dopo questa analisi “diagnostica”, torniamo ora a una prospettiva più generale per vedere in quali aree di vita l’auto-sabotaggio emerge con maggior frequenza e in quali forme concrete, nonché il ruolo delle narrazioni interiori nel mantenere questi schemi.
Auto-sabotaggio nelle relazioni e nella vita quotidiana
L’auto-sabotaggio non è qualcosa che accade solo “dentro la mente”: esso si concretizza in azioni (o mancate azioni) che hanno effetto nelle varie sfere di vita. In questa sezione analizzeremo come le dinamiche auto-sabotanti si manifestano nei rapporti interpersonali – coppia, famiglia, amicizie, ambiente di lavoro – e in altre aree quotidiane come la gestione dello studio o della carriera. Molti esempi li abbiamo già toccati, specialmente parlando di attaccamento e di disturbi, ma qui li organizzzeremo per contesto, cercando di delineare pattern tipici di auto-sabotaggio in amore, in amicizia, sul lavoro e nella cura personale.
Relazioni intime e di coppia: quando l’amore fa paura
Le relazioni sentimentali sono spesso il “palcoscenico” su cui l’auto-sabotaggio va in scena in modo drammatico. Questo perché nella coppia emergono le nostre vulnerabilità più profonde – bisogni di attaccamento, paura di perder l’altro, timore di non essere abbastanza – e dunque si attivano fortemente quei meccanismi protettivi e difensivi di cui abbiamo parlato. Ecco alcuni pattern comuni di auto-sabotaggio in ambito amoroso:
- Scegliere sempre il partner sbagliato: Alcune persone sembrano attratte sistematicamente da partner indisponibili emotivamente, anaffettivi, traditori o addirittura abusivi. In genere, come visto, ciò riflette uno schema interno appreso (es. “non merito rispetto” o “devo guadagnarmi l’amore di qualcuno inarrivabile”). Questo è un auto-sabotaggio nella fase di scelta: invece di cercare qualcuno che possa renderci felici, inconsciamente cerchiamo qualcuno che confermi la nostra storia conosciuta. Purtroppo, ogni relazione con queste basi finisce per farci del male, quindi replichiamo il fallimento amoroso e diciamo “li trovo tutti io quelli che mi fanno soffrire!”, senza renderci conto che stiamo attivamente cercandoli (o rendendo tali anche persone che non lo erano inizialmente).
- Paura dell’impegno e fuga quando la cosa si fa seria: Questo è tipico di chi ha stile evitante o semplicemente paura di perdere libertà/identità. Finché la frequentazione è leggera, tutto bene; ma quando diventa profonda, scatta un allarme interno (“mi legherò troppo, sarò vulnerabile, potrei essere ferito”) e allora la persona mette in atto comportamenti per allontanare il partner. Può diventare improvvisamente freddo e distante, oppure iniziare a trovare mille difetti nell’altro come scusa per andarsene, o ancora cercare relazioni parallele come via di fuga. Così, quel rapporto potenzialmente buono viene stroncato. La persona spesso razionalizza dicendo “non era quello/a giusto/a per me”, ma se il pattern si ripete più volte appare chiaro che il problema non era sempre l’altro. C’è chi ad esempio, appena raggiunge 6-12 mesi di relazione (il periodo in cui l’innamoramento iniziale lascia spazio a un legame più stabile), puntualmente provoca una rottura – come un orologio interno che dice “stop, troppo vicino”. Questo auto-sabotaggio è duro a morire finché l’individuo non affronta le cause sottostanti (es. paura di rivivere abbandoni come quelli parentali, timore di perdere la propria indipendenza, convinzioni idealistiche sull’amore che devono essere sempre emozioni forti e non routine).
- Gelosia eccessiva, “test” continui, drammatizzazioni: Questi comportamenti (spesso presenti in personalità ansioso-ambivalenti o borderline) sono auto-sabotanti perché logorano il rapporto. La persona gelosa inizia a controllare il partner, a sospettare infedeltà infondate, a limitare la libertà dell’altro – col risultato di creare tensione e risentimento. Molti gelosi ossessivi si rendono conto che il loro agire è controproducente ma non riescono a fermarsi, spinti dall’ansia. Così finiscono per scatenare proprio ciò che temono (il partner lascia, non sopportando più la situazione). Similmente, chi “mette alla prova” continuamente l’altro con piccoli dispetti o richieste assurde (“se davvero mi ami devi fare X”) può portare allo stremo la pazienza del partner. Dall’altra parte, chi drammatizza ogni litigio come se fosse la fine del mondo, o minaccia di far del male a sé stesso per trattenere l’altro, crea un clima emotivo talmente tossico che difficilmente la relazione potrà durare a lungo senza implodere.
- Autosabotaggio sessuale: Nella sfera intima, l’ansia o i traumi possono portare a manifestazioni come disfunzioni sessuali psicogene (p.e. impotenza situazionale, vaginismo, anorgasmia) che frustrano il rapporto. Oppure una persona può evitare la sessualità col partner (per insicurezze sul proprio corpo o per paura di troppa intimità), spingendo l’altro a sentirsi rifiutato. Queste dinamiche, se non affrontate con comunicazione aperta o terapia, minano la complicità di coppia nel lungo termine. Un altro esempio è l’uso del sesso in modo disfunzionale: c’è chi, per sabotare una relazione monogama appena instaurata, cede a comportamenti promiscui o tradisce, quasi compulsivamente, come atto di auto-sabotaggio (magari in realtà amano il partner, ma l’idea di essere fedeli li spaventa perché li rende “dipendenti” – quindi tradendo sabotano la possibilità di un legame esclusivo).
- Silenzio emotivo ed evitamento dei conflitti: Un altro comportamento auto-sabotante è far finta che tutto vada bene quando non è così, per evitare discussioni. Questa mancanza di comunicazione accumula incomprensioni e insoddisfazioni fino a far scoppiare la relazione. Paradossalmente, chi evita i conflitti per “non rovinare tutto” spesso finisce per rovinarlo proprio accumulando rancore o facendo esplodere questioni irrisolte tutte in una volta. Le coppie sane litigano e risolvono; le coppie dove uno o entrambi sabotano la comunicazione restano bloccate e alla fine collassano. Ad esempio, un partner può essere cronicamente scontento di qualcosa (dalla vita sessuale, al comportamento dell’altro, a bisogni affettivi non soddisfatti) ma invece di parlarne si chiude in un silenzio risentito, magari punendo l’altro con freddezza. Questo a lungo andare erode l’amore, e un giorno – spesso a sorpresa dell’altro che “non sapeva ci fossero problemi” – ecco che arriva la rottura improvvisa.
In tutti questi esempi, vediamo come l’auto-sabotaggio nelle relazioni di coppia spesso deriva da paura dell’intimità, paura del rifiuto o bassa autostima. Il tragico è che l’individuo finisce per creare con le proprie mani quello scenario di solitudine o conflitto che più temeva. Dal suo punto di vista soggettivo, spesso dà la colpa all’esterno (“gli uomini sono tutti infedeli”, “le donne poi ti soffocano”, “non esistono partner affidabili”, “non sono fatto per legami”) e non riconosce il proprio contributo. Un momento di crescita importante è proprio quando, magari grazie a una terapia di coppia o individuale, realizza il proprio schema: “in tutte le mie relazioni alla fine faccio/ottengo la stessa cosa”. Questo insight apre la porta al cambiamento – perché finché la colpa è sempre e solo degli altri o del destino, nulla cambierà.
Famiglia e amicizie: tra ruoli cristallizzati e bisogno di approvazione
Nei rapporti familiari e di amicizia l’auto-sabotaggio può assumere forme diverse, spesso legate a ruoli e copioni che il soggetto sente di dover mantenere. Ad esempio, all’interno della famiglia di origine, una persona può autosabotare la propria indipendenza per rimanere nel ruolo del “figlio bisognoso”: magari ha opportunità di lavoro lontano ma le rifiuta perché inconsciamente teme di perdere la vicinanza (o il controllo) della famiglia; oppure fa scelte lavorative o affettive che sappia incontreranno il disappunto dei genitori, quasi a sabotare la propria serenità per punirli o per punire sé stesso. Ci sono casi in cui un individuo, pur adulto, sabota tutte le sue relazioni perché inconsciamente “sposato” con la famiglia: ad esempio sente che l’unico modo per ottenere approvazione materna è restare single e accudire i genitori, quindi manda a monte ogni potenziale storia d’amore (ciò non viene vissuto lucidamente così, ma appare come “nessuno mi va bene, preferisco stare da solo”, dietro potrebbe esserci quella lealtà invisibile). Questo è un auto-sabotaggio su base transgenerazionale.
Nelle amicizie, l’auto-sabotaggio più frequente riguarda problematiche di autostima e fiducia. Chi crede di non meritare amici veri potrebbe mantenerli a distanza, rifiutare inviti, non aprirsi mai, finché gli altri smettono di cercarlo – e così conferma a sé stesso che “nessuno tiene a me veramente”. Oppure, al contrario, può diventare appiccicoso e pretenzioso per insicurezza, testando gli amici continuamente (“vediamo se mi invita, vediamo se mi dedica tempo…”) e rimanendoci male alla prima inavvertenza, reagendo in modo eccessivo (litigio o chiusura brusca), sabotando così amicizie valide. Alcune persone poi sabotano amicizie per competizione o invidia: incapaci di tollerare che l’amico abbia successo o felicità (magari per la propria insoddisfazione), possono inconsciamente assumere atteggiamenti negativi o attaccare l’amico nei momenti chiave, distruggendo il rapporto. Ad esempio, l’amica che non riesce a gioire per il matrimonio dell’altra e crea un dramma durante l’organizzazione, rompendo l’amicizia proprio in quell’occasione di gioia (perché magari quel matrimonio le ricorda la propria solitudine e inconsciamente preferisce alienare l’amica felice che reggere il confronto col suo vissuto).
In ambiente sociale allargato, un auto-sabotaggio classico è il non cogliere opportunità di networking o di svago per autosvalutazione: “Non vado a quella festa perché tanto non interesserei a nessuno”; “non partecipo a quell’evento professionale, non sono abbastanza importante”. Così però si resta isolati e magari esclusi da circoli dove si sarebbero potuti costruire legami utili sia affettivamente che lavorativamente.
Nel rapporto con i figli, un genitore può sabotare paradossalmente il legame agendo in base alle proprie paure o insicurezze. Ad esempio, un padre che teme di non essere rispettato potrebbe reagire con durezza e controllo eccessivo, incrinando la fiducia del figlio; oppure una madre che ha bassa autostima potrebbe cercare approvazione dal figlio adolescente in modo inappropriato, generando imbarazzo e allontanamento. Non di rado i genitori replicano con i figli gli schemi che loro stessi vissero da bambini, anche se consciamente vorrebbero fare il contrario: questo è un auto-sabotaggio transgenerazionale. Ad esempio, un uomo che ha sofferto un padre anaffettivo giura di essere un genitore affettuoso, ma quando i figli non obbediscono, si scopre a reagire con la stessa freddezza e severità di suo padre, sabotando l’intimità col figlio esattamente come subì lui. Presa coscienza di ciò (spesso dolorosa: “sto diventando come mio padre”), ha l’opportunità di spezzare il ciclo.
Nel contesto lavorativo e accademico, i comportamenti auto-sabotanti sono molteplici: procrastinare progetti importanti, arrivare in ritardo cronico al lavoro, non rispettare scadenze anche quando se ne sarebbe capaci, autosvalutarsi davanti a colleghi o superiori (così da venire scavalcati nelle promozioni), evitare formazioni o presentazioni, oppure – all’opposto – assumere troppi compiti e responsabilità da bruciarsi (sindrome del burnout autoindotto, dove per mania di perfezione o per voler compiacere tutti, si finisce per crollare e vanificare i risultati). Un giovane professionista potrebbe, ad esempio, sabotare la propria crescita rifiutando opportunità di trasferte all’estero per paura di fallire, come citavamo; uno studente brillante potrebbe “bocciarsi da solo” non presentandosi all’esame finale del semestre, per evitare di confrontarsi con il voto e col giudizio altrui, restando così bloccato (caso molto simile a quello di Luca di cui si parlava: “meglio fallire deliberatamente che provare e forse fallire”). Ci sono anche persone che, mosse da insicurezza, tengono un profilo così basso al lavoro che non avanzano mai: non fanno networking, non parlano dei propri meriti, magari rifiutano accrediti (“è stato un lavoro di squadra, non ringraziate me”) – atteggiamenti umili apprezzabili, ma se portati all’estremo e guidati da convinzioni di indegnità, portano l’individuo a non essere mai riconosciuto per il proprio valore, sabotandone la carriera.
Un’altra area di vita è quella finanziaria: sorprendentemente molte persone auto-sabotano il proprio benessere economico con scelte impulsive o poco sagge, spesso collegate a bisogni emotivi. Ad esempio, chi ha una mentalità di scarsità può spendere compulsivamente non appena ha qualcosa da parte, sabotando la possibilità di stabilità (in parte per convincimenti come “non merito di stare tranquillo, i soldi bisogna sudarseli sempre” o per ansie che lo portano a colmare vuoti emotivi con acquisti). Ci sono casi di individui che, avendo accumulato un po’ di fortuna, fanno investimenti avventati o prestano soldi a persone inaffidabili come se inconsciamente volessero liberarsi di quella sicurezza economica (potrebbero aver internalizzato che “i soldi sono sporchi” o “se ho successo economico la mia famiglia/il mio ambiente non mi accetterà”). Questo è un sabota dell’area finanziaria.
In generale, notiamo come l’auto-sabotaggio possa insinuarsi in ogni aspetto quotidiano: dalla salute (il classico “so che fumare mi fa male, ma continuo proprio quando sto iniziando a stare meglio fisicamente, quasi per non stare troppo bene”), al tempo libero (c’è chi sabota il proprio relax pianificando sempre troppi impegni perché non si sente a proprio agio nel riposo), perfino alla spiritualità (ad esempio, iniziare un percorso di crescita personale e mollarlo non appena emergono i primi benefici, forse per paura di dover cambiare realmente).
Questi comportamenti spesso sono meno eclatanti di quelli clinici, ma sommati determinano la qualità complessiva della vita. L’amico che non richiamiamo, il curriculum che non inviamo, la frase d’affetto che non diciamo al partner, l’allenamento che saltiamo di proposito proprio prima della gara… Sono tante piccole “deviazioni” che, se ripetute regolarmente, cambiano la traiettoria verso il basso. La persona a volte se ne rende conto anni dopo: “Se avessi creduto un po’ più in me, oggi sarei più felice; tutto ciò che non ho è in parte per mano mia”. Questa consapevolezza tardiva può portare a rimpianto, ma può anche diventare molla di cambiamento se c’è volontà.
Nei rapporti con gli altri, un elemento chiave per invertire l’auto-sabotaggio è spesso la comunicazione autentica: esprimere vulnerabilità invece di recitare copioni difensivi. Ad esempio, dire al partner: “Mi spaventa quanto siamo vicini, a volte reagisco male perché ho paura di perderti” – questo, benché difficile, può disinnescare il meccanismo sabotante di litigare senza motivo. Oppure confessare a un amico: “Ho evitato di chiamarti perché temevo di disturbarti, ma in realtà ci tenevo” – apre la porta a un confronto e magari dissolve un malinteso di lontananza. Insomma, rompere il silenzio e l’isolamento creati dal nostro auto-sabotaggio è spesso la prima azione per riparare i danni e prevenire di farne altri.
Narrazioni interiori e storie di sé: il potere dell’autonarrazione
Fin qui abbiamo parlato di comportamenti e meccanismi psicologici, ma c’è un livello più sottile che funge da regia nascosta di tutti i nostri auto-sabotaggi: la narrazione interna che abbiamo di noi stessi e della nostra vita. Ognuno di noi si racconta, più o meno consciamente, una storia su chi è, cosa può aspettarsi dal mondo, quale “destino” avrà. Queste storie – fatte di ricordi, interpretazioni, valori appresi – sono come dei copioni che tendiamo a seguire. Se la nostra narrazione è intrisa di convinzioni auto-limitanti, finiremo col vivere all’altezza (o, meglio, al ribasso) di quelle storie, anche quando la realtà offrirebbe scenari diversi. In quest’ottica, l’auto-sabotaggio è spesso un atto di fedeltà alla narrazione che ci portiamo dentro.
La profezia che si autoavvera e il bias di conferma
Un concetto fondamentale è quello di profezia che si autoavvera: credere fermamente in un dato esito aumenta la probabilità che le nostre azioni (consce o inconsce) lo provochino davvero. Ad esempio, se sono convinto di essere destinato a divorzi infelici come i miei genitori, potrei – senza volerlo – comportarmi in modi che porteranno proprio lì (scegliendo partner con cui non funzionerà o replicando le dinamiche disfunzionali che ho imparato). La profondità di queste credenze narrative spiega perché a volte persone molto intelligenti cadano sempre negli stessi errori: non è questione di intelligenza razionale, ma di “copione emotivo” che guida sotto traccia. In psicologia cognitiva si parla di schemi o credenze di base; in termini narrativi, possiamo parlare di temi ricorrenti della propria storia di vita. Finché questi temi restano impliciti, li interpreteremo come “la realtà oggettiva”, ma in verità li stiamo in parte creando noi. La storia che ci raccontiamo funge da lente su ciò che notiamo del mondo e orienta le nostre scelte, divenendo così vera per noi.
Un meccanismo correlato è il bias di conferma: tendiamo a notare, ricordare e dare peso alle informazioni che confermano le nostre convinzioni preesistenti, ignorando o minimizzando quelle contrarie. Se la mia storia è “non valgo niente e tutti mi sfruttano”, avrò la tendenza a ricordare benissimo i torti subiti e a dimenticare o sminuire i gesti gentili o le prove di apprezzamento ricevute. Così la convinzione rimane solida. Nel caso di Chiaraventuri, citato prima, una donna convinta di non meritare rispetto cerca e nota rapporti in cui viene screditata, e ogni volta ciò “rafforzerà lo schema sottostante, confermandolo come una profezia che si autoavvera”. Anche quando magari incrocerà qualcuno che la tratterebbe bene, potrebbe interpretare malamente le sue azioni o addirittura provocare in lui una reazione negativa, per far tornare i conti con la sua attesa di essere svalutata. È impressionante quante volte le persone riferiscano frasi come: “È che io faccio uscire il peggio dalle persone, tutti finiscono per trattarmi male”. In realtà, non è magia nera: spesso chi ha questo racconto di sé inconsciamente spinge gli altri in quella direzione con atteggiamenti di sospetto, ostilità preventiva o sottomissione (che attira manipolatori).
Identità narrativa: “chi sono io” influenza “cosa faccio”
Le narrazioni interiori riguardano anche l’identità. Se a un livello profondo mi definisco come “una persona che non conclude nulla nella vita”, ciò orienterà tante piccole scelte quotidiane – magari lascerò a metà i progetti (per coerenza con l’idea di me inconcludente), oppure mi innamorerò di qualcuno che rafforza questa idea criticandomi di continuo. C’è una sorta di fedeltà all’identità: contraddire l’idea di sé crea ansia, perché equivarrebbe a “perdere” la persona che pensiamo di essere (anche se quell’identità è negativa, è la nostra). Perciò, restiamo fedeli perfino a etichette autolesive: “sono fragile”, “sono sfortunato”, “sono un ribelle destinato a soccombere al sistema”, “sono un eterno incompiuto”. Ognuna di queste definizioni, se introiettata, porta con sé comportamenti coerenti. Ad esempio, chi si identifica come ribelle autodistruttivo potrebbe sabotare ogni tentativo di incanalarsi in una vita stabile (perché sarebbe tradire la propria immagine “maledetta”); chi si vede come eterna vittima finirà per mettersi in situazioni dove di fatto sarà vittimizzato, e spesso rifiuterà aiuti che lo renderebbero più autonomo (perché inconsciamente ciò smentirebbe la narrazione di vittima).
Queste identità narrative spesso hanno radici in messaggi ricevuti nell’infanzia: un bambino etichettato come “pigro” o “buono a nulla” dai genitori può crescere abbracciando quel ruolo in una sorta di disperata lealtà (difficile per un bambino dire “mamma e papà si sbagliano”; più probabile pensi “se lo dicono loro, sarà vero, io sono così”). Una volta adulto, anche se una parte razionale sa di avere valore, la sua “parte bambina” può restare agganciata a quell’etichetta, spingendolo ad agire in modo da non smentirla.
Le identità narrative negative spesso emergono con chiarezza quando chiedi a qualcuno: “Se dovessi riassumere la storia della tua vita in poche righe, cosa diresti?”. Le risposte rivelano i temi: c’è chi direbbe “la storia di uno che non ce l’ha mai fatta nonostante l’impegno”, chi “la storia di una che si è sempre rovinata tutto con le proprie mani”, chi “la storia di uno che cercava amore e trovava calci”. Questi sommari, per quanto semplificati, fungono da sceneggiature mentali.
Linguaggio interno: critico vs narratore compassionevole
La narrazione interiore si esprime anche nel dialogo interno quotidiano: come parliamo a noi stessi degli eventi. Se davanti a un errore il nostro monologo è “ecco, hai fatto la solita figura da idiota, non imparerai mai, è inutile”, stiamo narrando quell’episodio come conferma di una trama già scritta (quella del fallimento cronico). Diversamente, chi ha un dialogo interno più sano potrebbe dire: “Ok, hai sbagliato, succede a tutti, la prossima volta andrà meglio”. In termini di auto-sabotaggio, il primo tipo di dialogo scoraggia e porta a mollare (rinforza il sabotatore), il secondo tipo incoraggia a persistere (disinnesca il sabotaggio). Dunque, il linguaggio con cui ci raccontiamo la realtà è performativo: dire “sono un incapace” è molto diverso da dire “ho commesso un errore”. Uno è identitario e bloccante, l’altro descrive un fatto modificabile. In terapia cognitiva si lavora molto su questo: trasformare le dichiarazioni globali e permanenti (“non cambierò mai”) in affermazioni specifiche e temporanee (“finora non ci sono riuscito, ma con sforzo posso migliorare”). Questo cambia la storia: da tragedia predeterminata a racconto aperto.
La narrativa vittimistica è un’altra trappola: se mi racconto sempre come vittima degli eventi, rischio di abdicare completamente al mio potere personale, e quindi auto-sabotarmi non facendo scelte attive. Ad esempio “con la sfortuna che ho non vale la pena provarci” – e così mi auto-condanno a non far nulla e a subire. Spesso queste narrazioni servono anche a giustificarci: se tutto è colpa della sfortuna o degli altri, non devo provare il disagio di riconoscere il mio auto-sabotaggio. È un meccanismo di difesa comprensibile (ammettere “mi sto facendo del male da solo” è duro), ma imprigiona la persona in un loop di impotenza. Trasformare la narrazione vittimistica in una più equilibrata (“le circostanze sono state difficili ma anch’io ho un margine di azione e responsabilità nelle mie scelte”) è fondamentale per riappropriarsi della capacità di cambiare.
Cambiare narrazione: pratiche narrative in terapia e crescita personale
La buona notizia è che le narrazioni interiori non sono fisse: possiamo riscriverle. Questo è l’intero focus della Terapia Narrativa di White ed Epston, in cui il terapeuta aiuta il paziente a costruire una nuova storia di sé dove i problemi non sono identità ma entità esterne (“l’Auto-sabotaggio” potrebbe diventare un personaggio di cui parlare in terza persona, esternalizzandolo dal sé) e dove il protagonista ha possibilità di scelta e agentività. Ad esempio, un paziente potrebbe passare da “Sono un alcolista fallito” a narrare la sua storia come “Ho combattuto con l’alcol e per un periodo mi ha sconfitto, ma sto cercando di riprendere il controllo e ho già vinto alcune battaglie”. La seconda storia apre a un finale diverso (la guarigione è possibile), la prima nega la possibilità (identità fissa).
Anche senza formalizzare con la Terapia Narrativa, molti approcci terapeutici mirano a modificare la narrazione interna: la CBT ristruttura i pensieri (“non è vero che fallisco sempre, l’evidenza dice che in passato ho avuto anche successi, e comunque ogni situazione è nuova”); la Schema Therapy fa rivivere le memorie infantili con un esito differente grazie all’immaginazione guidata (es. il paziente immagina di tornare bambino e questa volta l’adulto sano – magari personificato dal terapeuta o dal sé adulto – interviene a proteggerlo e rassicurarlo, cambiando la “traccia emotiva” lasciata da quell’episodio); l’EMDR rielabora i ricordi traumatici integrandoli in una storia meno spaventosa; l’ACT invita a vedere i pensieri come storie della mente, non verità, e a defondersi da essi con tecniche di diffusione (es. ripetere il pensiero “sono un fallito” finché suona come un rumore senza senso, oppure cantilenerlo per sgonfiarlo). Tutti questi metodi in fondo mirano a rompere l’incantesimo della narrazione autopunitiva.
A livello di crescita personale, utili sono pratiche come il journaling (scrivere la propria storia e poi provare a riscriverla da prospettive diverse), gli esercizi di gratitudine (che allenano a notare anche gli aspetti positivi, modificando la trama fatalistica), e le affermazioni positive (ripetersi nuove frasi costruttive su di sé, che nel tempo possano sostituire quelle tossiche). Bisogna tuttavia far attenzione: non basta “pensare positivo” se i vissuti emotivi di base restano irrisolti. Serve un’integrazione onesta: riconoscere le ferite del vecchio capitolo della nostra vita, ma poi decidere di scriverne uno nuovo in cui quelle ferite possono cicatrizzare.
Un concetto incoraggiante è quello di “postura narrativa”: possiamo scegliere di interpretare anche i nostri auto-sabotaggi passati non come prove della nostra inettitudine, ma come parte di un percorso di apprendimento. Ad esempio, invece di “ho buttato via dieci anni auto-sabotandomi”, posso narrare “ho trascorso dieci anni in cui, senza saperlo, stavo lottando con dei demoni interiori; oggi finalmente li vedo e quei dieci anni mi hanno preparato a questo momento di cambiamento”. Non è un ingenuo abbellimento, è letteralmente un modo differente di attribuire significato alle esperienze, che può darmi più forza e senso di continuità verso il futuro.
Da questa sezione sul potere delle narrazioni emerge che il modo in cui pensiamo e parliamo di noi stessi orienta le nostre azioni. Per cambiare i comportamenti auto-sabotanti, spesso dobbiamo cambiare prima il vocabolario interno con cui li giustifichiamo. Finché la nostra storia è “io sono sbagliato”, “il mondo è ostile”, “niente potrà mai cambiare”, ogni sforzo concreto rischia di infrangersi su queste mura. Se iniziamo a raccontarci “forse c’è un’altra possibilità”, “posso essere anche diverso da ieri”, “il fallimento non è la mia identità ma qualcosa che è accaduto quando ero in difficoltà”, allora quelle stesse mura iniziano a sgretolarsi. In definitiva, diventare autori consapevoli della propria narrazione di vita è forse la forma più profonda di liberazione dall’auto-sabotaggio.
Strategie terapeutiche e di auto-aiuto per superare l’auto-sabotaggio
Dopo aver analizzato ampiamente il “problema” dell’auto-sabotaggio in tutte le sue sfaccettature, giungiamo alla domanda cruciale: come si può cambiare? Quali strategie si sono rivelate efficaci, in ambito terapeutico e nella crescita personale, per spezzare i circoli viziosi e smettere di mettersi il bastone tra le ruote? In questa sezione esploreremo una varietà di approcci – alcuni derivati da specifiche forme di psicoterapia, altri da pratiche di auto-aiuto – che hanno dimostrato di aiutare le persone a ridurre o superare i comportamenti auto-sabotanti. L’accento sarà posto su tecniche pratiche e su esempi di come possano essere applicate (anche attraverso brevi vignette cliniche che illustrino il percorso di cambiamento). È importante sottolineare che non esiste una “pillola magica”: trattandosi di schemi spesso radicati, il cambiamento richiede consapevolezza, impegno e tempo. Tuttavia, gli strumenti giusti possono rendere questo percorso assolutamente possibile e portare a miglioramenti notevoli nella qualità di vita.
1. Coltivare la consapevolezza dei propri schemi (insight e mindfulness)
Il primo passo per cambiare un comportamento automatico è rendersene conto in modo chiaro. Sembra banale, ma molte persone vivono per anni senza davvero collegare i puntini dei propri auto-sabotaggi. Possono ricordare singoli eventi (“in quella relazione ho fatto errori”, “quel lavoro l’ho lasciato per una lite”), ma non vedono il filo conduttore. Coltivare la consapevolezza significa osservare i propri schemi ricorrenti dall’esterno. In terapia, questo spesso avviene grazie al dialogo col terapeuta che rimanda ciò che nota: “Mi pare che in varie esperienze torna questo suo meccanismo… cosa ne pensa?”. Ma si può iniziare a farlo anche da soli: ad esempio, tenendo un diario in cui annotare situazioni in cui ci siamo percepiti auto-sabotanti e cercando di individuare triggers (inneschi emotivi). Uno psicologo può suggerire di porsi domande come: “Cosa succede dentro di me quando sto per agire in una direzione che desidero?”. Magari uno scopre che puntualmente, quando si sta avvicinando a un traguardo importante, iniziano pensieri peculiari (“non mi piacerà nemmeno se lo ottengo”, “sarà troppo per me”) accompagnati da un’ansia o irrequietezza specifica, e subito dopo mette in atto qualche sabotaggio. Rilevare questo pattern interno è già aprire un varco: la prossima volta che succederà, avrà più chance di accorgersene prima di compiere l’atto dannoso.
Strumenti della mindfulness sono estremamente utili in questa fase. La mindfulness insegna a osservare pensieri ed emozioni senza reagire automaticamente. Applicata all’auto-sabotaggio, può significare: quando mi viene l’impulso di evitare o mandare all’aria qualcosa, stare qualche minuto con quell’impulso, notarlo, sentirne le sensazioni fisiche (magari nodo allo stomaco, cuore accelerato), osservarne i pensieri (es. “non farlo, andrà male, lascia stare”). Questo spazio di consapevolezza crea un intervallo decisionale: invece di agire subito, posso scegliere diversamente. Ad esempio, Marta (il caso descritto prima) ha imparato in terapia a riconoscere “la voce interiore del passato” che le diceva di mollare quando stava per avere successo. Imparando a distinguerla dalla voce autentica del presente, riusciva a non obbedirle immediatamente. In pratica, portare alla luce l’automatismo lo priva di parte del suo potere.
Una pratica concreta: Check-in emotivo. Tre volte al giorno, fermarsi e chiedersi “Che emozioni provo? Quali pensieri automatici sto facendo? Sto evitando qualcosa in questo momento?”. Questo auto-monitoraggio regolare aumenta l’insight. Oppure, come suggerisce Di Fiore, prendere un episodio in cui sospettiamo di esserci autosabotati e analizzarlo con queste domande: Cosa provavo esattamente? Cosa temevo? Cosa pensavo di me? Cosa ho fatto per allontanare quella situazione?. Scrivere le risposte può illuminare il processo.
In sintesi, la consapevolezza è l’anti-preda dell’auto-sabotatore: se prima eravamo come un sonnambulo che preme l’autodistruzione senza saperlo, ora accendiamo la luce. Può non piacere quel che vediamo – magari riconosciamo pattern sgradevoli – ma solo illuminandoli possiamo poi cambiarli. Questo concetto è ben riassunto dal motto: “Solo portando alla luce ciò che era automatico possiamo iniziare un vero cambiamento”.
2. Mettere in discussione le convinzioni limitanti (ristrutturazione cognitiva)
Una volta individuati i pensieri e credenze che accompagnano l’auto-sabotaggio, il passo successivo è sfidarli e ristrutturarli. La ristrutturazione cognitiva è una tecnica cardine della CBT che consiste nel prendere un pensiero disfunzionale e cercare attivamente prove a favore e contro, valutando se esistono modi più equilibrati di vedere la situazione. Nel contesto dell’auto-sabotaggio, tipiche convinzioni limitanti da mettere in discussione sono ad esempio: “Non valgo abbastanza”, “Se provo fallirò di sicuro”, “Non devo mai mostrare debolezze”, “Meglio non fidarsi di nessuno”, “Se ho successo poi tutti mi odieranno”, “Devo essere perfetto altrimenti sono un fallimento”, ecc..
Una tecnica utile è compilare una sorta di tabella di dispute cognitive. Si prende una convinzione, si scrive: Da dove viene questa convinzione? (magari “da ciò che diceva mio padre”, “dall’episodio X dell’adolescenza”); A chi appartiene davvero questa voce? (forse non è la mia voce originaria, è l’interiorizzazione di qualcun altro); È ancora utile o vera per me oggi?. Spesso, il paziente realizza che sta seguendo regole interne ormai obsolete – servivano in passato per far fronte a situazioni che oggi non esistono più. Ad esempio: “Da piccolo credere di non valere mi era utile per giustificare perché papà mi picchiava (dovevo pensare di meritarlo sennò impazzivo); oggi, continuare a credere di non valere mi distrugge la vita, non mi protegge più da nulla”. Questo tipo di insight può allentare la presa di una credenza.
Un esercizio semplice di CBT è il Diario dei pensieri: quando ci accorgiamo che un certo pensiero auto-sabotante sorge (tipo “farò una figuraccia a questo colloquio”), lo annotiamo, poi scriviamo accanto evidenze a favore (“mi sento impreparato su due domande tecniche”) e evidenze contro (“ho superato altri colloqui in passato, ho competenze, il mio CV è piaciuto infatti mi hanno chiamato”) e infine elaboriamo una risposta alternativa più bilanciata (“Sono un po’ agitato e non posso sapere ogni dettaglio, ma ho buone possibilità di far bene; se anche inciampo in una domanda, non significa che sarà figuraccia totale”). Allenarsi con questi passi abitua la mente a non prendere per oro colato il primo pensiero negativo che arriva.
Nel caso di credenze molto radicate, può aiutare fare esperimenti comportamentali per falsificarle. Ad esempio, credi “se chiedo aiuto a qualcuno dimostrerò di essere debole e mi disprezzerà”: un terapeuta potrebbe invitarti a provare a chiedere un piccolo aiuto a una persona di fiducia e vedere cosa succede realmente. Magari scopri che non solo l’altro non ti disprezza, ma anzi si sente contento di darti una mano e ti stima di più per la tua onestà. Quell’esperienza concreta è potentissima nel ristrutturare la credenza, più di mille ragionamenti. Nella Schema Therapy si parla di “esperimenti comportamentali” per testare la validità degli schemi – sono come piccole sfide alle profezie interiori di fallimento.
Importante è anche contestualizzare l’origine di certe credenze: realizzare che “questa idea che devo fare tutto da solo altrimenti non valgo viene da mia madre ipercritica” dà la possibilità di restituirla al mittente, per così dire, e decidere se voglio continuare a farla governare la mia vita o no. In Schema Therapy c’è l’esercizio della sedia vuota col “Genitore Critico Interiore”: il paziente immagina di far sedere la personificazione di quella voce (che magari parla con frasi identiche a quelle che usava il genitore reale) e impara a risponderle con la voce dell’Adulto sano, difendendo il proprio Bambino vulnerabile. Questo aiuta a ridurre l’intensità del critico e a cambiarne i messaggi, rendendoli più realistici e gentili.
In poche parole, interrogare i pensieri è come sollevare le pietre sotto cui si annida l’auto-sabotaggio: spesso alla luce si scopre che quei pensieri non sono affatto verità indiscutibili, ma convinzioni esagerate, ereditate o datate. Una volta ridimensionati, perdono molto del loro potere di condizionare le azioni. Ci vuole esercizio e a volte il confronto con qualcun altro (terapeuta o anche un amico saggio) che offra prospettive diverse, ma col tempo la mente può imparare un nuovo dialogo interno più razionale e costruttivo.
3. Agire nonostante la paura: esposizione graduale e “fare comunque”
Molti auto-sabotaggi si reggono su evitamenti e rinunce dettati dalla paura. Una strategia fondamentale è quindi imparare ad agire anche con la paura addosso. Un motto di stampo ACT è: “Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la decisione che qualcosa è più importante della paura”. In pratica, si tratta di esporsi gradualmente alle situazioni temute invece di fuggirle o boicottarle, e allenarsi a tollerare l’ansia che ciò comporta finché diminuisce. Questo è il principio delle tecniche di esposizione utilizzate in tanti disturbi d’ansia, e applicato all’auto-sabotaggio significa: se di solito scappo quando un compito o una relazione mi intimidisce, ora provo a restare un po’ di più in quella situazione sfidante, a fare un passo nella direzione che mi spaventa, e vedere che succede.
La gradualità è importante: non si combatte l’auto-sabotaggio con atti eroici dall’oggi al domani, tipo “domani da persona evitante mi butto a tenere un discorso davanti a 1000 persone” – sarebbe troppo, probabilmente fallirei e rincarerei le mie paure. Meglio scalare gli obiettivi. Se procrastino sempre lo studio perché ho ansia, mi impongo di studiare 15 minuti oggi (anche con l’ansia presente); se temo l’intimità, mi sforzo di rivelare al partner un piccolo segreto di me, qualcosa di leggermente vulnerabile, e reggo l’ansia di quell’esposizione emotiva. Ogni piccolo successo progressivo crea fiducia e mostra che la catastrofe paventata non si è verificata.
È utile anche, come suggerisce Di Fiore, scegliere un comportamento auto-sabotante ricorrente e provare a modificarne anche solo un dettaglio. Ad esempio: “Ogni volta in riunione non parlo per paura di dire sciocchezze; la prossima riunione mi preparo in anticipo un paio di punti e mi impongo di esprimere almeno un intervento”. Oppure: “Quando litigo col mio ragazzo di solito minaccio di lasciarlo (sabotando la relazione); la prossima lite, invece di dire ‘è finita’, cercherò di dire ‘questa cosa mi fa stare male, ho paura che tu non mi ami’ – quindi esprimere il vero sentimento invece di scappare”. Non è garantito che vada liscio, ma anche un piccolo cambiamento interrompe il copione e può portare a esiti diversi.
Una tecnica comportamentale correlata è il “mettere il carro davanti ai buoi” in senso buono: agire come se fossimo già la persona che vogliamo diventare. Ad esempio, uno insicuro potrebbe decidere: “Cosa farebbe una persona sicura in questa situazione? Lo faccio anch’io, anche se mi sembra strano”. È un modo di “fingere finché non riesci” (fake it till you make it). Non come maschera per gli altri, ma come esperimento per sé: un evitante può dire “stasera a quella cena mi comporterò come farebbe uno socievole: farò 2 chiacchiere con qualcuno al bar, sorriderò e porgerò la mano a sconosciuti”. All’inizio sarà meccanico, ma magari scopre che non viene divorato dai draghi, anzi riceve risposte positive – e questo lo aiuta a acquisire davvero più socievolezza.
Nell’ACT esiste il concetto di “valori”: agire nonostante la paura è più facile se connesso a qualcosa di profondamente importante per noi. Se il mio valore è “essere un professionista utile agli altri”, allora cercherò di parlare al meeting importante anche se sudo freddo, perché concentrarmi sul valore mi dà un senso di scopo che supera la paura. In altre parole, trovare un perché forte aiuta ad affrontare qualsiasi come. Quindi identificare i propri valori chiave e legare le azioni di cambiamento a essi è motivante: “Sto cercando di non sabotare più le mie relazioni perché valorizzo l’amore e il rispetto reciproco, e voglio costruire una famiglia serena; quindi cercherò di gestire i miei impulsi per il bene di questo valore, anche se costa fatica”.
Una citazione di un proverbio zen dice: “Il miglior momento per piantare un albero era 20 anni fa. Il secondo miglior momento è adesso.” Questo atteggiamento applicato a chi si auto-sabota da anni è: anche se ho sprecato tempo e occasioni, non è mai troppo tardi per iniziare a fare piccoli passi. E un motto che può aiutare è “fatto è meglio che perfetto”: ricordarsi che portare a termine qualcosa imperfettamente batte il non farla affatto in nome della perfezione. Darsi il permesso di agire in maniera “abbastanza buona” riduce l’autosabotaggio da perfezionismo.
Infine, va menzionato che agire nonostante la paura include anche il chiedere aiuto quando serve. Per molte persone autosabotanti, accettare di non dover fare tutto soli è un grande passo. Significa per esempio iniziare una psicoterapia, o parlare con un mentor, o coinvolgere amici fidati come “body double” (ad esempio, se saboto il mio studio, mi organizzo per studiare in biblioteca con un amico così rimango sul pezzo). Queste azioni possono essere percepite come segni di “debolezza” inizialmente dall’orgoglio, ma in realtà sono acceleratori di miglioramento. Rendersi conto che uno non deve vincere l’auto-sabotaggio in solitaria, ma può appoggiarsi ad altri, spesso alleggerisce e consente di progredire più rapidamente e con meno ricadute.
In breve, l’azione contraria all’impulso sabotante è l’antidoto più diretto: ogni volta che facciamo qualcosa anche se la parte impaurita/critica dice “non farlo”, stiamo indebolendo quel circuito. All’inizio può sembrare di andare contro natura, ma col tempo quella diventa la nuova natura, soprattutto quando vediamo i frutti positivi di aver osato. E se la paura non sparisce? Pazienza, portiamo la paura con noi e facciamo lo stesso la cosa importante. Questa attitudine sposta la prospettiva da “prima devo non aver più paura poi agisco” a “agisco, e scoprirò che la paura diminuisce mano a mano che avanzo”.
4. Allenarsi all’autocompassione e a un dialogo interno di supporto
Molti auto-sabotaggi, come abbiamo visto, sono alimentati da un dialogo interno estremamente critico e punitivo. Una strategia potente è quindi sviluppare autocompassione, ossia la capacità di rivolgere a sé stessi comprensione, gentilezza e incoraggiamento, invece che giudizi spietati. Il concetto di autocompassione (promosso da autori come Kristin Neff) non significa autocommiserazione o indulgenza passiva, ma trattarsi con la stessa empatia e pazienza che avremmo verso un caro amico che sta lottando.
In pratica, allenarsi all’autocompassione può iniziare con semplici esercizi: ad esempio, quando mi colgo a insultarmi mentalmente (“sei un idiota, ecco che hai rovinato tutto di nuovo”), provare a cambiare prospettiva e immaginare di parlare a una persona amata che ha fatto quell’errore: cosa le direi? Probabilmente qualcosa come “Hai sbagliato, ok, ma capita a tutti. Non significa che sei un idiota, hai avuto una difficoltà. Cosa si può fare ora? Io ci sono per te.”. Queste parole, rivolte invece a sé stessi, possono fare un’enorme differenza. All’inizio può sembrare innaturale – molti con bassa autostima trovano persino doloroso provare autocompassione, come se non la meritassero – ma è questione di pratica.
Un esercizio guidato tipico è il letter writing: scrivere una lettera a sé stessi dal punto di vista di un “amico compassionevole”. Ci si siede e si immagina di essere un amico che vuole bene a noi, quindi scrive: “Caro X, vedo che stai soffrendo per aver di nuovo rimandato quell’impegno e ora ti senti un fallito. Voglio ricordarti che…” e così via, offrendo parole di sostegno, normalizzando la caduta (“capita a tutti di avere timore e di rimandare, non sei l’unico”), esprimendo fiducia (“so che puoi migliorare, perché hai queste qualità…”). Poi si consegna la lettera a sé stessi e la si legge ogniqualvolta il critico interiore alza la voce. Questo aiuta a internalizzare una voce amica al posto o accanto alla voce ipercritica.
Di Fiore propone proprio di chiedersi: “Se una persona cara fosse nella mia situazione, come la tratterei? Posso usare lo stesso tono verso me stesso?”. Questo confronto spesso fa scoprire quanto siamo ingiusti con noi stessi rispetto a come saremmo con gli altri. Pian piano, l’obiettivo è sviluppare un “genitore interno positivo” che contrasti il genitore punitivo.
L’autocompassione è anche accettazione dell’umanità comune: realizzare cioè che tutti siamo imperfetti, tutti sbagliamo, e non c’è niente di riprovevole nel lottare con difficoltà interiori. Chi si auto-sabota spesso si sente isolato nella sua vergogna (“sono l’unico a fare questi sciocchezze”), invece comprendere che tanti altri provano le stesse cose allevia la vergogna e motiva al cambiamento. Gruppi di supporto o anche leggere storie di altri che hanno superato l’auto-sabotaggio possono rafforzare questo senso di comunanza. Ad esempio, scoprire che un collega stimato aveva anch’egli problemi di procrastinazione e ne è uscito può far pensare “ok, non sono un caso disperato, succede anche ai migliori, posso farcela anch’io”.
Un ostacolo all’autocompassione è la convinzione che “ci vuole la frusta per migliorare, altrimenti mi impigrisco”. Molti hanno paura che trattandosi con gentilezza “si giustificheranno troppo”. In realtà la ricerca (Neff, etc.) mostra che l’autocompassione produce più motivazione sostenibile e minore ansia da fallimento rispetto all’auto-critica feroce. In soldoni, chi è compassionevole con sé tende di più a correggere gli errori perché lo fa in un clima di supporto e crescita, non di terrore. Un esempio: uno studente che si boccia a un esame e reagisce con autocompassione dirà “ok, è andata male, ho sofferto, ma posso ritentare, magari cambiando metodo di studio; va bene sentirsi giù, è normale dopo tanto impegno, ma non significa che sono stupido”; questo studente quasi sicuramente riprenderà a studiare e farà meglio. L’altro estremo, uno che si insulta ferocemente, potrebbe cadere in depressione o ansia e sabotare il prossimo appello.
Pratiche di mindfulness focalizzate sull’autocompassione esistono, come la Loving-Kindness Meditation (metta), in cui si coltivano sentimenti di benevolenza verso se stessi e gli altri, ripetendo frasi tipo “Che io possa essere felice, che io possa essere al sicuro, libero dalla sofferenza”. Può sembrare lontano dal problema pratico dell’auto-sabotaggio, ma in realtà agisce sul terreno emotivo di fondo: più uno sviluppa un atteggiamento benevolo verso di sé, meno scenderà a patti con comportamenti che lo danneggiano. Diventa come un atto di amicizia verso se stessi dire “no, questo auto-sabotaggio non lo voglio più fare, merito di meglio”.
Quindi, ridurre l’auto-sabotaggio spesso passa per imparare a volersi più bene. Laddove l’auto-sabotatore interiore è crudele, serve coltivare un alleato interiore. Con quell’alleato al fianco, affrontare le sfide di cambiare abitudini nocive risulta molto più fattibile, perché abbiamo una base emotiva di sicurezza interna su cui contare.
5. Valorizzare il processo e i piccoli successi (ristrutturare la mentalità del tutto-o-nulla)
Chi tende ad auto-sabotarsi spesso ragiona in termini dicotomici: o vittoria completa o fiasco totale. Questa mentalità tutto-o-nulla è veleno per la motivazione, perché qualsiasi deviazione dall’ideale viene vissuta come fallimento e quindi come pretesto per buttare tutto a monte. Una strategia importante è imparare a valorizzare il percorso, i progressi graduali, invece di focalizzarsi solo sul risultato finale perfetto. In altre parole, celebrare i piccoli successi e vedere valore anche nei tentativi imperfetti.
Ad esempio, se il mio obiettivo è correre 10 km ma ne corro 3 per ora, invece di dire “ho fallito perché non ho fatto 10”, mi alleno a pensare “ho corso 3 km, che è 3 km in più di stare sul divano, è un buon inizio, sto costruendo resistenza”. Oppure, se sto cercando di non procrastinare e un giorno su cinque ho lavorato bene, invece di dire “eh ma gli altri 4 ho perso tempo, inutile quel giorno buono”, mi dico “c’è stato un giorno ottimo, significa che è possibile, come posso aumentare i giorni buoni?”. Questa ricompensa intrinseca data al progresso alimenta motivazione positiva.
Una tecnica pratica è tenere un “registro dei successi”: scrivere ogni sera 2-3 cose che si sono fatte bene o parzialmente bene quel giorno. Anche se il giorno è stato brutto, sforzarsi di trovare qualcosa (“ho risposto a quell’email che rimandavo da settimane”, “ho fatto 10 minuti di lettura invece di guardare il telefono”, “ho evitato di criticare il partner quando avrei potuto farlo”). Rileggendo dopo un mese il registro, ci si rende conto di avere fatto più passi di quanto la memoria selettiva ricordasse. Questo contrasta il bias di vedere solo ciò che non va.
Imparare a gustarsi i benefici immediati del cammino è un altro concetto. Invece di pensare “sarò felice solo quando avrò raggiunto l’obiettivo X”, cercare cosa c’è di significativo oggi nel percorso. Ad esempio, se sto scrivendo una tesi e di solito mi auto-saboto procrastinando perché penso che tanto non verrà perfetta, cambio approccio e penso: “Ogni pagina che scrivo è un’opportunità per esplorare qualcosa di interessante, per imparare; e intanto sto sviluppando disciplina e conoscenza. La soddisfazione non sarà solo quando avrò la lode, ma anche nel diventare una persona più esperta e costante”. Questa mentalità riduce la pressione, perché sposta il focus su ciò che guadagni comunque, successo finale a parte.
Nel lavoro sulla mentalità, è utile adottare una mindset di crescita invece di fissa (concetto di Carol Dweck). Significa vedere abilità e successo come frutto di impegno e miglioramento continuo, non come doti innate immutabili. Così un insuccesso parziale non definisce “chi sono” per sempre, ma è solo un gradino sul percorso di apprendimento. Chi ha mindset di crescita in genere reagisce ai contrattempi cercando di capire cosa migliorare, mentre chi ha mindset fisso li vive come giudizi definitivi sul proprio valore e quindi o molla o reagisce male. Allenarsi a dire “Non ancora” invece di “Non mai” è un tipico trucchetto: se non ho raggiunto un obiettivo, aggiungo mentalmente la parola “ancora”. “Non ho superato quell’esame… ancora. La prossima volta con più studio posso farcela”. “Non sono riuscito a gestire la mia rabbia con i bambini… ancora. Sto imparando e ci riuscirò meglio col tempo”. Questo semantico sposta dall’assoluto al temporaneo.
Altro aspetto: accettare il margine di errore. Per non auto-sabotare un progetto perché non perfetto, bisogna accettare che un po’ di imperfezione è normale. Un motto aziendale dice “done is better than perfect” (fatto è meglio di perfetto). Possiamo dire a noi stessi: “Portare a termine con qualche difetto è comunque un successo, perché avrò qualcosa di concreto su cui eventualmente lavorare”. Ad esempio, uno scrittore può darsi l’obiettivo di finire la bozza di un romanzo sapendo che avrà parti brutte: meglio un brutto romanzo scritto che un capolavoro immaginato mai iniziato. Con la bozza in mano, poi può revisionare.
Collegato a ciò, è utile la tecnica del Kintsugi metaforico: in Giappone riparano i vasi rotti con l’oro, evidenziando le crepe. Analogamente, i nostri passi falsi o momenti di rottura possono essere considerati parte preziosa del nostro percorso, non da nascondere ma da usare per dare forma alla nostra crescita. Questa prospettiva allevia l’ossessione di dover essere “integri” e senza errori: anzi, le crepe fanno parte della bellezza finale. Quindi anche se ho sabotato 100 volte prima, ogni crepa mi ha insegnato qualcosa e posso ripararla nel nuovo tentativo con l’oro della consapevolezza.
In sintesi, passare da una mentalità di risultato a una mentalità di processo riduce l’auto-sabotaggio, perché non butti via tutto al primo intoppo. Uno slogan potrebbe essere: “Progress, not perfection” (progresso, non perfezione). Questo motto può essere appeso sulla scrivania come promemoria. E va di pari passo con l’autocompassione: come un buon coach, uno impara a dirsi “ok, non abbiamo vinto la partita oggi, ma abbiamo migliorato la difesa rispetto a ieri; continuiamo così e i risultati arriveranno”. In quell’atmosfera incoraggiante, l’auto-sabotatore interiore ha meno appigli, perché non c’è un ideale rigido da difendere con la fuga o la distruzione, c’è un’evoluzione flessibile in corso e ogni contributo, per quanto piccolo, conta.
6. Cercare supporto professionale e costruire una rete di sostegno
Infine, non si può sottolineare abbastanza l’importanza di non combattere l’auto-sabotaggio da soli quando diventa troppo grande da gestire. Abbiamo integrato varie tecniche terapeutiche lungo il discorso, ma qui ribadiamo: un percorso di psicoterapia può essere prezioso per affrontare dinamiche profonde che alimentano l’auto-sabotaggio. Soprattutto se parliamo di traumi, attaccamenti insicuri o disturbi di personalità, la guida di un professionista è quasi indispensabile. Una psicoterapia individuale offre uno spazio sicuro per esplorare le radici emotive, elaborare il passato e sperimentare nuove modalità relazionali in vivo col terapeuta (ad esempio, un paziente evitante potrà gradualmente fidarsi del terapeuta e questo diventa un modello per fidarsi anche di altri fuori). Terapie come la Cognitivo-Comportamentale e la Schema Therapy offrono strumenti pratici e insight, la Terapia EMDR aiuta a risolvere traumi che scatenano auto-sabotaggi inconsci, la Terapia Dialettico-Comportamentale insegna skill di regolazione emotiva cruciali per borderline che auto-sabotano, l’IFS aiuta a dialogare con le parti interne sabotate, etc. Insomma, c’è una varietà di approcci – e un bravo terapeuta spesso li integra – che possono essere cuciti su misura della persona.
Oltre alla terapia, ci sono i gruppi di supporto. Sapere di non essere soli nelle proprie difficoltà è di enorme beneficio. Ad esempio, gruppi di 12 Passi non solo per dipendenze ma anche per auto-sabotaggio (esistono fellowship come “Underearners Anonymous” per chi auto-sabota le finanze, o gruppi online di mutuo aiuto per procrastinatori). In un gruppo, condividere le esperienze e ascoltare come altri le hanno superate crea speranza e anche un senso di responsabilità condivisa: ci si motiva a vicenda a restare in carreggiata. Un procrastinatore incallito che si unisce a un body double group (gruppi dove le persone lavorano ciascuna al proprio compito ma connessi via Zoom per farsi compagnia) scopre magari che l’energia collettiva lo traina più di quanto riusciva da solo.
Anche coinvolgere le persone care può aiutare, se fatto con giudizio. Per esempio, se so di autosabotare la mia dieta, chiedere al partner di non portarmi cibo spazzatura in casa e di incoraggiarmi invece di tentarmi. Oppure informare un amico intimo: “sto cercando di non sabotare più le mie relazioni con sparizioni improvvise, se noti che lo sto facendo chiamami fuori, fammelo notare con gentilezza”. Dare il permesso a qualcuno di richiamarci ai nostri obiettivi può essere utile, purché sia persona di cui ci fidiamo.
Bisogna però scegliere bene a chi aprirsi: purtroppo, chi ha intorno persone tossiche o manipolative potrebbe vedersi rinforzare l’auto-sabotaggio (ad esempio un partner insicuro che scoraggia il proprio miglioramento per non perdere il controllo su di noi). In questi casi, il supporto professionale è ancora più centrale perché la rete naturale potrebbe non essere sana. Talvolta, parte del superare l’auto-sabotaggio include circondarsi di persone più positive e allontanarsi da chi alimenta le nostre insicurezze.
Da non dimenticare, anche il sostegno medico se necessario: se l’auto-sabotaggio è legato a depressione grave o ansia patologica, farmaci antidepressivi o ansiolitici possono dare quello spazio di respiro per applicare poi le strategie psicologiche. Così come trattare condizioni come ADHD (che può portare a procrastinazione cronica e problemi organizzativi) con il giusto approccio farmacologico e comportamentale, riduce gli auto-sabotaggi “involontari” dovuti a difficoltà di attenzione. Insomma, adottare un approccio globale alla propria salute mentale e fisica fornisce basi solide per smettere di auto-ostacolarci.
In definitiva, chiedere aiuto non è segno di debolezza ma di coraggio e amore verso se stessi. Significa dire: “merito di stare meglio e faccio ciò che serve per riuscirci”. Spesso rompere l’orgoglio o la vergogna di farsi aiutare è l’ultimo break-through necessario. Come in montagna: se hai provato cento volte a scalare una parete e cadi sempre allo stesso punto, forse è ora di usare una corda di sicurezza o di chiedere a qualcuno di farti da guida su quel tratto. Una volta che superi quell’ostacolo con l’aiuto, potrai magari proseguire da solo più in alto di quanto avresti mai fatto.
Le strategie che abbiamo elencato – consapevolezza, ristrutturazione cognitiva, azione graduale, autocompassione, focalizzarsi sul processo e cercare supporto – lavorano sinergicamente. Non c’è una ricetta unica, ognuno deve trovare il mix adatto alla propria situazione. Ma il messaggio chiave è: l’auto-sabotaggio non è un destino immutabile. È un pattern appreso e mantenuto per motivi specifici, che possono essere compresi e modificati. Con pazienza e aiuti appropriati, si può passare da essere nemici di se stessi a diventare, gradualmente, alleati di se stessi.
Auto-sabotaggio e cultura contemporanea: un malessere dei nostri tempi?
Abbiamo esplorato l’auto-sabotaggio dal punto di vista individuale e intrapsichico, ma c’è un contesto più ampio che influenza questi fenomeni: la cultura in cui viviamo. Il nostro tempo è caratterizzato da forti pressioni verso il successo, l’efficienza e la continua auto-miglioramento, e allo stesso tempo da incertezze e cambiamenti rapidi (sociali, tecnologici, economici) che possono alimentare ansie nuove. In questa sezione, rifletteremo su come la società contemporanea e i suoi valori possano contribuire ad alimentare dinamiche di auto-sabotaggio – o, in alcuni casi, esserne addirittura il terreno di coltura. Parleremo della “cultura del successo ad ogni costo”, dell’iperproduttività e del fenomeno del burnout, nonché dell’impatto dei media e dei social network nel plasmare la nostra auto-percezione. Lo scopo non è spostare la responsabilità dall’individuo al sistema (abbiamo sottolineato l’importanza di lavorare su di sé), ma capire che l’individuo non opera nel vuoto: certe tendenze diffuse possono indurre o rinforzare comportamenti auto-sabotanti. Allo stesso modo, vedremo come una maggiore coscienza collettiva di questi temi possa portare a controtendenze più salutari (ad esempio la valorizzazione della salute mentale e del work-life balance).
La tirannia del successo e la paura di brillare
Mai come oggi si parla tanto di successo: nelle carriere, nelle relazioni, nella visibilità pubblica. Il messaggio mediatico è spesso: “devi farcela, devi eccellere, chi si impegna davvero raggiunge qualsiasi traguardo”. Questa retorica motivazionale, se da un lato ispira, dall’altro può essere un boomerang: genera una norma per cui chi non raggiunge l’eccellenza viene percepito (e si percepisce) come un fallito. Il risultato paradossale? Molte persone sviluppano un’ansia da prestazione esistenziale così elevata da preferire, inconsciamente, tirarsi indietro e auto-sabotarsi, piuttosto che affrontare il peso di “dover essere vincenti”. È il fenomeno del “fear of success” di cui parlavamo: in un contesto iper-competitivo, il successo non appare più come una gratificazione, bensì come un fardello di aspettative da sostenere.
Pensiamo ai cosiddetti millennial e Gen Z, cresciuti con l’idea di dover trovare la propria passione, trasformarla in lavoro, avere impatto sul mondo, il tutto entro i 30 anni magari. Molti, di fronte a queste aspettative, collassano in quella che viene chiamata “quarter-life crisis”: un senso di stallo e inadeguatezza che li porta a sabotare opportunità perché nulla sembra all’altezza dell’ideale. C’è chi preferisce rifugiarsi in una sorta di “limbo” (ad esempio rimandando all’infinito scelte di carriera, o restando in università a oltranza) perché il mondo del dopo appare spietato e definente: meglio restare potenziale inespresso, con la scusa “potrei fare grandi cose se volessi, ma non voglio ancora”, piuttosto che lanciarsi e misurarsi davvero. Questo è un auto-sabotaggio influenzato dal mito culturale del successo: il successo è dipinto come uno stato quasi sovrumano (imprenditori ventenni miliardari, artisti superstar, ecc.), e la persona comune ne è intimidita al punto di arrendersi prima di cominciare.
Inoltre, viviamo in una cultura molto visiva e comparativa, alimentata dai social media, dove ognuno espone i risultati migliori (il corpo perfetto, la vacanza da sogno, la promozione) e nasconde le fatiche e i fallimenti. Questa “vetrina” continua crea un senso di pressione diffusa: “tutti stanno facendo cose straordinarie, io devo tenere il passo”. Paradossalmente, molti reagiscono con procrastinazione e auto-indulgenza: bombardati da immagini di altri che si allenano tutti i giorni e seguono diete impeccabili, c’è chi finisce col sentirsi così sopraffatto da abbuffarsi sul divano e rinviare ad libitum il proprio percorso di benessere – tanto non sarà mai all’altezza di quei modelli. È come se l’iper-esposizione al successo altrui generasse un sabotaggio per scoraggiamento.
C’è un fenomeno osservato chiamato “impostor syndrome” (sindrome dell’impostore), particolarmente diffuso tra i professionisti di successo oggi, specialmente donne e minoranze in campi elitari: anche arrivando in alto, ci si sente come fraudolenti, convinti di non meritare davvero il posto e terrorizzati di essere “smascherati”. La cultura aziendale spietata e competitiva, con la sua enfasi sui top performer, può accentuare questo vissuto. Chi si sente impostore può auto-sabotare attivamente la propria carriera (rifiutando promozioni, evitando progetti di visibilità) per evitare di alimentare l’ansia insostenibile di doversi dimostrare sempre all’altezza. In particolare, in ambienti un tempo dominati da un gruppo (per esempio gli uomini bianchi nel tech) chi appartiene a un altro gruppo può sentire la pressione di dover rappresentare tutti e sfidare stereotipi, e questo porta un carico mentale che può far preferire un passo indietro. Anche qui, il contesto (aziendale e sociale) incide nell’innescare l’auto-sabotaggio.
Cultura dell’iperproduttività e burnout: sabotaggio della salute e delle passioni
Negli ultimi anni si è diffusa la retorica dell’hustle culture: lavorare incessantemente, fare straordinari, coltivare side project anche nel tempo libero, ottimizzare ogni momento per essere produttivi. Se non stai “sempre grindando” (sgobbando), sembra che tu stia perdendo colpi rispetto agli altri. Questa cultura dell’iperproduttività genera spesso il fenomeno opposto: persone esauste, disilluse, che entrano nel burnout e alla fine mandano tutto all’aria. Il burnout, ufficialmente riconosciuto come stress lavorativo cronico mal gestito, porta a calo di efficacia, cinismo e crollo energetico. Si può vedere il burnout come una forma di auto-sabotaggio involontario dettato da valori culturali malsani: spingendosi oltre i propri limiti in nome del dovere o dell’ambizione, la persona finisce per compromettere il proprio lavoro e la propria salute. Spesso nel burnout c’è un elemento di resistenza interiore ignorata: magari il corpo e la mente mandavano segnali che quella marcia in più era troppa, ma la persona (e la cultura intorno) li ha zittiti con caffeina, auto-imposizioni, ecc., finché il sistema è collassato (esaurimento nervoso, malattia psicosomatica, dimissioni improvvise). In quell’atto finale – crollare o lasciare il lavoro senza un piano – c’è un auto-sabotaggio di ciò per cui aveva lavorato tanto, ma è come l’esito inevitabile di un sistema di valori che non prevedeva il rispetto del limite.
Un altro fenomeno correlato è la “toxic productivity”: l’idea che si debba sempre essere impegnati in qualcosa di utile. Questo porta a sensi di colpa nel tempo libero e paradossalmente a evitamento e procrastinazione per sovraccarico. Esempio: uno studente che sente di dover studiare 10 ore ogni giorno può ritrovarsi a non studiare affatto perché la prospettiva è insostenibile, e quindi passa ore sullo smartphone in colpa, auto-sabotando gli studi. Se avesse un approccio più bilanciato (studio e riposo), forse sarebbe più efficiente. Ma la cultura che glorifica i “super-impegnati” e fa guardare con sospetto l’ozio porta molte persone a una polarizzazione: o tutto (super produttivo) o nulla (inerzia totale). Come reazione, stiamo vedendo nascere movimenti come la “slow living” (vita lenta), la rivalutazione dell’ozio creativo, il “quiet quitting” (fare il minimo sul lavoro per non farsi sfruttare). Questi movimenti sociali sono una risposta all’iperproduttività: alcuni li criticano come pigri, ma possono essere letti anche come tentativi di massa di ridurre l’auto-sabotaggio da burnout e ritrovare equilibrio.
Infine, la cultura dell’efficienza tocca anche le relazioni: c’è chi applica mentalità da performance anche in ambito privato (essere la coppia perfetta, i genitori modello coi figli iperstimolati, ecc.). Questo può generare forti stress e delusioni e, infine, sabotaggi come divorzi improvvisi o abbandono di ruoli. Quando tutto diventa “lavoro”, la psiche prima o poi si ribella, e talvolta in modo esplosivo (es. una persona all’apparenza con vita perfetta scappa da tutto per ritrovare sé stessa).
Società 24/7, digitale e attenzione: la battaglia per la concentrazione
Un aspetto moderno che incide sull’auto-sabotaggio è la distrazione digitale. Siamo costantemente sollecitati da notifiche, infotainment, streaming senza fine. Mantenere la concentrazione su obiettivi a lungo termine è molto più difficile in un contesto di immediatezza e gratificazione istantanea. Questo accentua quelle tendenze di cui parlavamo: perché studiare (fatica, ricompensa differita) quando posso scrollare TikTok (piacere immediato)? Il cervello tende a sabotare i compiti noiosi o impegnativi a favore di stimoli brevi e vari – e l’attuale ecosistema digitale fornisce infinite tentazioni. Non a caso, la procrastinazione digitale è forse la forma di auto-sabotaggio più comune oggi: minuti che diventano ore sui social invece di fare ciò che ci eravamo prefissati. Non è solo colpa individuale di “poca forza di volontà”: le piattaforme sono progettate per catturare l’attenzione (persone altamente pagate studiano come mantenerci incollati allo schermo il più possibile, con meccaniche di reward dopaminiche). Essere consapevoli di questo contesto è importante per non colpevolizzarsi eccessivamente e per prendere contromisure (ad es. digital detox, app blocca-distrazioni, ritagliarsi spazi offline). È come voler dimagrire vivendo in una pasticceria: serve un extra sforzo o cambiare ambiente.
La società 24/7, dove negozi e informazioni sono disponibili sempre, leva quei confini che prima obbligavano a pause. Adesso potresti teoricamente lavorare o intrattenerti h24. Molti faticano a autoregolarsi in questo flusso continuo, e l’auto-sabotaggio emerge sotto forma di incapacità di staccare (fino a esaurirsi) oppure, per altri, incapacità di darsi disciplina (perché c’è sempre qualcos’altro di immediato e seducente da fare). Il tempo qualitativo tende a sgretolarsi. Le aziende tecnologiche stesse iniziano a riconoscere il problema (vedi funzioni per monitorare l’uso del dispositivo), ma è una lotta in corso.
Narrativa culturale e identità: pressione a essere “il migliore di te”
La cultura occidentale recente insiste molto sul concetto di self-improvement, self-actualization, “diventa la versione migliore di te stesso”. Questo, se per un verso è positivo (promuove la crescita personale), per l’altro ha un risvolto insidioso: può instillare l’idea che “non sei mai abbastanza finché non migliori quell’aspetto, raggiungi quell’obiettivo, ecc.”. Quindi la nostra identità viene associata alla performance continua. C’è quasi un imperativo morale nel dover sempre lavorare su di sé – se non lo fai, stai sprecando il tuo potenziale (altra frase tipica). Ecco che l’auto-sabotaggio può diventare una forma inconscia di ribellione a questa pressione: come dire “mi rifiuto di essere un progetto da perfezionare in ogni istante, saboto consapevolmente la mia produttività perché rivendico il diritto di essere imperfetto e pigro ogni tanto”. Questo appare in fenomeni come il “slacker pride” (andare fieri di essere fannulloni, tipico di alcune sottoculture giovanili) o il “downshifting” (scelte deliberate di carriera al ribasso per avere vita più semplice). Non sono necessariamente scelte negative – in molti casi sono sane contestazioni di un sistema stressante – ma se avvengono in modo inconscio o reattivo possono portare a esiti indesiderati (es: mollare tutto all’improvviso senza un piano per poi pentirsene).
Anche la cultura del consumo e dell’istantaneità gioca un ruolo. Siamo abituati a soddisfazioni immediate (comprare con un click, vedere la serie in binge, ecc.). La pazienza e la tolleranza della frustrazione sono meno allenate. Questo rende più difficile perseverare in compiti di lungo termine (studiare anni, lavorare a un progetto complesso) – terreno fertile per auto-sabotaggi sotto forma di abbandoni prematuri. Una persona potrebbe abbandonare un percorso di formazione perché “non vede subito i risultati” e preferisce provare qualcos’altro di nuovo (salvo poi fare lo stesso con quello dopo e non concludere nulla, alimentando una narrativa di sé inconcludente). C’è quasi un “consumismo di esperienze”, per cui si passa da un’esperienza all’altra cercando un booster immediato di gratificazione e mollando alle prime difficoltà.
Infine, la cultura influenza anche quali auto-sabotaggi vengono enfatizzati. Ad esempio, in contesti dove c’è stigma sulla salute mentale, le persone possono auto-sabotare la ricerca di aiuto perché temono l’etichetta di “pazzo”. Fortunatamente oggi c’è un trend di maggiore apertura sulla salute mentale (celebrità che raccontano le loro ansie, campagne di sensibilizzazione) e questo potrebbe aiutare a ridurre quell’auto-sabotaggio culturale del “non vado dallo psicologo sennò sembro debole”. Invece, in contesti dove si glorifica l’alcol come mezzo di socialità (pensiamo a certe culture universitarie), i giovani tenderanno ad auto-sabotare di più la propria salute/focus cedendo al binge drinking, perché fa parte del rituale di accettazione sociale. Quindi cambiare cultura (o microcultura) a volte è necessario per sradicare certi pattern di auto-sabotaggio.
In conclusione su questo tema: la cultura contemporanea offre molte opportunità ma anche molte trappole. Essere consapevoli dell’aria che respiriamo a livello sociale ci aiuta a non interiorizzare passivamente valori che innescano auto-sabotaggi. C’è per fortuna una crescente controcultura del benessere, della lentezza, dell’autenticità sopra la performance, che bilancia un po’ gli eccessi. Trovare ambienti e comunità che incarnano valori più umani (datori di lavoro attenti all’equilibrio vita-lavoro, amici che apprezzano la vulnerabilità e non solo i successi, movimenti come mindfulness e decrescita felice) può sostenere il singolo nel suo processo di liberarsi dall’auto-sabotaggio. Dopotutto, “nessun uomo è un’isola”: se attorno a noi la norma diventa prendersi cura di sé e non glorificare l’autodistruzione da performance, sarà più facile per ognuno fare scelte sane. Quindi, cambiare noi stessi e cambiare la cultura vanno di pari passo: lavorare sul proprio auto-sabotaggio contribuisce (nel piccolo) a creare una cultura più consapevole, e battersi per una cultura più equilibrata (nel proprio ufficio, nella propria famiglia, sui social con ciò che si condivide) rende più agevole per sé e per gli altri smettere di auto-sabotarsi e iniziare a fiorire.
Conclusione
“Smettere di essere nemici di se stessi” – in fondo è questo il traguardo che ci auguriamo di raggiungere dopo un lungo viaggio attraverso la psicologia dell’auto-sabotaggio. Abbiamo iniziato esplorando come menti brillanti come Freud intuirono queste dinamiche un secolo fa, e siamo arrivati a vedere come il mondo di oggi, con le sue luci e ombre, le modella e talvolta le esaspera. In questo percorso, abbiamo visto l’auto-sabotaggio da molte angolazioni: come meccanismo inconscio che tenta di proteggerci dal dolore ma finisce per imprigionarci in vecchi schemi; come compagno di disturbi psicologici che merita ascolto clinico; come intruso nelle nostre relazioni, pronto a spezzare legami proprio quando potrebbero renderci felici; e come voce narrante interna che dobbiamo imparare a riconoscere e riscrivere.
Uno dei fili conduttori emersi è che l’auto-sabotaggio non è frutto di “pazzia” o irrazionalità pura: al contrario, è spesso il risultato di logiche psicologiche comprensibili (anche se disfunzionali). C’è sempre un motivo – la paura di soffrire, il bisogno di coerenza identitaria, la lealtà verso chi siamo stati, una zona di comfort per quanto scomoda – dietro ogni atto con cui ci tiriamo la zappa sui piedi. Questa comprensione, lungi dal giustificare l’inerzia, serve a restituirci compassione e lucidità: non siamo “masochisti” perché sì, abbiamo agito per anni secondo regole interiori che forse un tempo ci hanno aiutato a sopravvivere. Ma ora non ne abbiamo più bisogno – o comunque, possiamo trovare strategie nuove, più sane, per soddisfare quei bisogni di protezione o riconoscimento. Possiamo, in altre parole, crescere oltre l’auto-sabotaggio.
Abbiamo anche scoperto che non esiste un’identità fissa di “auto-sabotatore”: spesso le persone di grande talento e potenziale ne soffrono, e spesso chi appare all’esterno in controllo combatte battaglie segrete contro le proprie resistenze. Il messaggio, dunque, è che non c’è vergogna nel riconoscersi in queste dinamiche. Anzi, è un atto di coraggio e maturità farlo. Significa prendere in mano la penna della propria storia e dire: “Finora questo copione mi ha governato, ma ora voglio scriverne uno nuovo”. Le strategie terapeutiche e di auto-aiuto che abbiamo delineato – dall’osservare i propri pensieri sabotanti, al darsi piccoli obiettivi sfidando le paure, al coltivare l’autocompassione – sono come gli attrezzi di un artigiano che si accinge a riparare un meccanismo arrugginito. Non sarà un’aggiustata istantanea: ci saranno scivolate, e forse qualche auto-sabotaggio recidivo capiterà ancora, specie nei momenti di stress (nessuno diventa perfetto, ricordiamolo, e non è questo lo scopo). Ma ogni passo in avanti costruisce fiducia: una volta che hai rotto quel primo mattone del muro – magari completando un progetto che avevi sempre abbandonato, o sostenendo un confronto che prima avresti evitato – inizi a intravedere cosa c’è oltre. E oltre c’è la sensazione, nuova e bellissima, di essere alleati di se stessi.
Essere alleati di se stessi significa trattarsi con lo stesso rispetto e incoraggiamento che offriremmo a un buon amico. Significa riconoscere i propri limiti ma anche i propri meriti, permettersi di sognare in grande ma senza fustigarsi se la strada ha curve. Significa, in definitiva, accettare di meritare il successo, la felicità, l’amore – non come qualcosa da strappare con prove di valore, ma come naturale esito di una vita vissuta con autenticità e impegno. Quando smettiamo di autosabotarci, non è che non incontreremo più ostacoli o fallimenti – quelli fanno parte della vita di chiunque. La differenza è che non saremo più noi stessi a porre i maggiori ostacoli: e questo fa tutta la differenza. Perché affrontare le sfide esterne è molto più facile quando non dobbiamo combattere anche un sabotatore interno.
In una prospettiva umanistica, si potrebbe dire che liberarsi dall’auto-sabotaggio permette di fiorire: quell’energia prima impiegata a frenarci diventa propulsione per crescere, creare, connetterci con gli altri in modo più pieno. Non è un caso che molte storie di superamento dell’auto-sabotaggio coincidano con storie di trasformazione personale profonde: c’è chi, una volta guarito dai suoi blocchi, ha scritto il libro che teneva nel cassetto da decenni; c’è chi ha trovato l’amore perché ha smesso di respingerlo; c’è chi ha semplicemente scoperto una serenità quotidiana che credeva di non meritare. Questi non sono miracoli: sono possibilità accessibili a tutti noi, lavorando con pazienza e magari con l’aiuto giusto.
Arrivati alla fine di questo lungo esame, speriamo che il lettore – terapeuta in cerca di spunti clinici o paziente in cerca di comprensione e speranza – possa portare con sé alcuni messaggi chiave. Primo: capire l’auto-sabotaggio è possibile, non è un enigma insolubile, e questa comprensione già di per sé allevia il senso di caos e impotenza. Secondo: non siamo soli in queste battaglie interiori, anzi sono parte dell’esperienza umana comune; molti ci sono passati e ne sono usciti, e le conoscenze e strumenti esistono. Terzo: il cambiamento è fattibile – magari non rapido né lineare, ma graduale e concreto sì. Ogni persona ha dentro di sé risorse latenti che una volta liberate possono sostituire i vecchi autopietanti con nuove abitudini costruttive.
In conclusione, la psicologia dell’auto-sabotaggio ci insegna una grande lezione di speranza: siamo sia il carceriere che il liberatore di noi stessi. Le stesse straordinarie capacità mentali che possono intrappolarci in loop autodistruttivi (memoria, immaginazione, intuito) possono – se riorientate – spalancarci le porte della crescita e dell’autorealizzazione. Intraprendere questo viaggio richiede gentilezza verso sé, coraggio di affrontare parti dolorose del passato, e fiducia che un futuro diverso è possibile. Ma passo dopo passo, quel viaggio ci porta a reincontrare la persona che eravamo destinati ad essere quando non sapevamo ancora di “non poterlo” – quella persona che non vedeva il successo o la felicità come nemici, ma come nostro diritto e naturale evoluzione. E forse la scoperta più commovente è che quella persona non era sparita: era solo in attesa, dietro alle quinte delle nostre paure, che la invitassimo finalmente sul palco.
Bibliografia
- Freud, S. (1914). Ricordare, ripetere e rielaborare (Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten). Standard Edition, Vol. XII. (Orig. pubbl. in tedesco su Jahrbuch, 1914). –
- Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere (Jenseits des Lustprinzips). Standard Edition, Vol. XVIII.
- Berglas, S., & Jones, E. E. (1978). Drug choice as a self-handicapping strategy in response to noncontingent success. Journal of Personality and Social Psychology, 36(4), 405-417.
- Baumeister, R. F., & Scher, S. J. (1988). Self-defeating behavior patterns among normal individuals: Review and analysis of common self-destructive tendencies. Psychological Bulletin, 104(1), 3-22.
- Horner, M. S. (1972). Toward an understanding of achievement-related conflicts in women. Journal of Social Issues, 28(2), 157-175.
- Maslow, A. H. (1971). The Farther Reaches of Human Nature. New York: Viking.
- American Psychiatric Association (1987). DSM-III-R: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 3rd ed., rev. Washington, DC: APA.
- Scarpellini, E. (2021). Comprendere meglio la coazione a ripetere e l’autosabotaggio. Riflessioni blog, emanuelescarpellini.it.
- Venturi, C. (2020). Coazione a ripetere: perché commettiamo sempre gli stessi errori?.
- Santagostino Psiche (2024). L’autosabotaggio in psicologia. Magazine Santagostino. –
- Di Fiore, G. (2023). L’autosabotaggio: psicologia, cause e soluzioni. Blog giancarlodifiorepsicologo.it. – L
- Bruni Tosi, D., & Soro, E. (2018). Perché il successo ci spaventa? L’autosabotaggio come strategia difensiva.
- Linehan, M. M. (1993). Cognitive-Behavioral Treatment of Borderline Personality Disorder.
- Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema Therapy: A Practitioner’s Guide. New York: Guilford Press. (Ed. it. Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi di personalità, 2007).
- Peel, R., Caltabiano, N., Buckby, B., & McBain, K. (2019). Defining Romantic Self-Sabotage: A Thematic Analysis of Interviews With Practising Psychologists. Journal of Relationships Research, 10, e16.
- Neff, K. D. (2011). Self-Compassion: The Proven Power of Being Kind to Yourself. New York: William Morrow.
- Dweck, C. S. (2006). Mindset: The New Psychology of Success. New York: Random House. –
- Newport, C. (2016). Deep Work: Rules for Focused Success in a Distracted World. New York: Grand Central. –
- AA.VV. (2020). Autenticità e imperfezione: vivere bene senza essere perfetti. (Articoli vari su Psicologia Contemporanea e altre riviste divulgative).
(N.B.: Le fonti sopra elencate includono testi classici, articoli scientifici e contributi divulgativi citati o utilizzati nel corso dell’articolo. Si è cercato di integrare prospettive storiche e attuali, teoriche e cliniche, in modo coerente con quanto discusso nei vari paragrafi.)
Lascia un commento