28 Years Later: La rabbia e la memoria di un incubo post-apocalittico

Introduzione

Nel panorama del cinema horror contemporaneo, 28 Years Later si presenta come un’opera tanto attesa quanto sorprendente. Diretto da Danny Boyle e scritto da Alex Garland, questo film del 2025 segna il ritorno del team creativo che aveva rivoluzionato il genere zombie con 28 Days Later nel 2002. Ambientato quasi tre decenni dopo gli eventi catastrofici dei primi due capitoli, 28 Years Later non è solo un altro racconto di sopravvivenza post-apocalittica: è un viaggio attraverso i traumi individuali e collettivi, una lente sulle dinamiche sociali di una comunità isolata e un affresco simbolico che mescola horror e critica culturale. Boyle, ormai sessantottenne al momento delle riprese, infonde nel film l’energia sovversiva dei suoi esordi unita alla maturità di uno sguardo riflessivo; il risultato è un’opera in bilico tra il passato e il presente, tra incubo e introspezione.

Nonostante siano trascorsi meno di vent’anni dalla realizzazione di 28 Days Later, il mondo reale ha vissuto eventi che rendono 28 Years Later incredibilmente tempestivo: una pandemia globale che ha ridefinito le nostre paure collettive, e cambiamenti sociopolitici come la Brexit che hanno visto il Regno Unito ritirarsi nella propria insularità. Questo film sembra assorbire tali esperienze storiche e restituircele sotto forma di metafora visiva e narrativa. 28 Years Later immagina infatti un futuro in cui la Gran Bretagna, devastata dal virus della Rabbia e abbandonata dal resto d’Europa, rievoca oscure somiglianze con un’isola che si è volontariamente (e disastrosamente) isolata dal mondo. Nello stesso tempo, la pellicola attinge alla memoria recente di un’umanità che, dopo il picco di allarme iniziale, tende a dimenticare le lezioni del passato: proprio come dopo una pandemia reale abbiamo visto le precauzioni affievolirsi col tempo, anche i protagonisti di 28 Years Later iniziano a prendersi rischi che un tempo avrebbero evitato, quasi che la paura persistente fosse insostenibile a lungo termine. In questo senso, Boyle costruisce un potente parallelo tra la nostra realtà e il suo mondo immaginario: dimenticare il passato e abbassare la guardia comporta conseguenze letali, ieri come oggi.

Con un approccio analitico e narrativo, questo saggio esplorerà a fondo 28 Years Later, combinando prospettive di psicologia, sociologia, simbolismo e critica cinematografica. Ripercorreremo con attenzione la struttura narrativa e i momenti chiave della trama, sviscerando come ogni evento non sia solo azione ma porti con sé temi di peso. Esamineremo i conflitti interiori dei personaggi – dal trauma alla ricerca d’identità, dal senso di colpa alla resilienza – mostrando come i loro drammi personali riflettano questioni umane universali. Interpreteremo il significato simbolico di ambienti, eventi e oggetti emblematici: l’isola di Lindisfarne e il suo ponte sommerso, il tempio di ossa eretto nel cuore dell’oscurità, i costumi sgargianti dei misteriosi “Jimmies” che compaiono sul finale. Analizzeremo il virus non solo come entità biologica, ma come potente metafora di rabbia repressa, paura collettiva e contagio psichico. Ci soffermeremo sull’impatto sociologico del film, riflettendo sull’isolamento e la comunità, sul trauma collettivo di una società post-pandemica e sulla memoria storica – con riferimenti impliciti a fenomeni reali britannici quali la Brexit, lo scandalo di Jimmy Savile e il ruolo ambiguo dei media. Infine, dedicheremo attenzione allo stile registico di Danny Boyle: l’estetica visiva, l’uso del sonoro, la fotografia quasi sperimentale, il montaggio nervoso e il ritmo emotivo che rendono questa pellicola un’esperienza sensoriale oltre che narrativa.

Il tono con cui affronteremo questi temi sarà saggistico ma coinvolgente, come la voce di un critico appassionato che guida il lettore non solo a capire il film, ma a sentirlo. Non troverete tecnicismi aridi o fredde dissezioni accademiche: l’analisi scorrerà in forma narrativa, punteggiata da riflessioni introspettive e immagini evocative. Come in un viaggio, accompagneremo il lettore attraverso paesaggi di desolazione e momenti di poesia macabra, mettendo in luce i significati profondi nascosti dietro ogni frammento di ossa, ogni gesto disperato, ogni silenzio carico di tensione. 28 Years Later emerge così non solo come un horror post-apocalittico, ma come uno specchio oscuro in cui riconoscere le nostre paure e speranze più intime – un racconto che parla di mostri esteriori e interiori, di società allo sbando e di legami familiari che cercano luce nell’oscurità. Prepariamoci dunque a discendere in questo mondo di incubi e simboli: la strada è lunga, ma la destinazione promette di essere illuminante.

Struttura narrativa e momenti chiave della trama

La trama di 28 Years Later si dipana come un lungo percorso iniziatico, in cui passato e presente dialogano continuamente. L’architettura narrativa è scandita da segmenti ben definiti – un prologo folgorante, un ampio atto centrale sull’isola e oltre, e un epilogo che lascia il fiato sospeso – ciascuno con momenti chiave che modellano il viaggio emotivo dei personaggi. Analizzeremo queste parti in dettaglio, per comprendere non solo cosa accade ma perché quei momenti risultano così significativi nel tessuto complessivo del film.

Prologo: il giorno del giudizio

28 Days Later si apriva con un uomo che si svegliava in un ospedale deserto; 28 Years Later, al contrario, decide provocatoriamente di partire prima che tutto precipiti. Nel prologo, ambientato nel 2002, incontriamo un bambino di nome Jimmy in fuga tra le colline malinconiche delle Highlands scozzesi. Il mondo attorno a lui sta collassando sotto l’improvvisa irruzione del virus della Rabbia – quel patogeno che trasforma gli infetti in furie assassine nel giro di pochi secondi. Jimmy raggiunge un piccolo villaggio dominato da una chiesetta di campagna. All’interno, la luce tremolante delle candele rivela suo padre, il parroco del luogo, inginocchiato in preghiera. L’atmosfera è sospesa tra sacro e terrificante: fuori risuonano urla disumane e colpi alle porte, dentro l’uomo mormora parole di Scrittura. Ai suoi occhi, l’apocalisse virale ha il sapore biblico del Giorno del Giudizio. In un atto di disperata fede, il padre porge a Jimmy una collanina con un crocifisso, intimandogli di fuggire e mettersi in salvo. Quella croce, simbolo di speranza e protezione spirituale, sarà l’ultimo dono di un genitore a suo figlio prima del caos: subito dopo, infatti, il parroco apre volutamente le porte della chiesa, lasciando entrare un’orda di infetti su di sé. Il suo sacrificio è straziante e quasi volontario – un martire che attira i mostri su di sé per dare al bambino il tempo di scappare. Gli occhi di Jimmy incrociano per un istante quelli del padre mentre l’ombra degli infetti li separa. Poi il bambino corre via, stringendo a sé quella croce e con essa il peso di un trauma indelebile.

Questo breve prologo è genuinamente raccapricciante e lascia nello spettatore un nodo allo stomaco. La scelta di mostrare un brandello del mondo prima del collasso serve da potente contrasto con ciò che verrà dopo: vediamo l’ultimo frammento di normalità (i bambini che guardano i Teletubbies alla TV, ignari, mentre al piano di sotto i genitori lottano coi “morti che camminano” e sbarrano porte) frantumarsi in un attimo. Danny Boyle infonde in queste scene iniziali un ritmo teso, quasi insostenibile: l’innocenza della routine quotidiana – un cartone animato in sottofondo, le preghiere di un padre – viene brutalmente violata dall’irruzione della violenza. In pochi minuti, viviamo la caduta del mondo attraverso gli occhi di un bambino: il terrore puro dell’infanzia violata, dove persino la chiesa, tradizionalmente rifugio di pace, diventa teatro di sangue. Il montaggio serrato e gli angoli di ripresa convulsi ricordano immediatamente l’estetica cruda di 28 Days Later: camera a mano digitale, tagli rapidissimi, suono diegetico quasi stridente. Ma qui Boyle aggiunge un elemento “retro”: quell’immagine surreale dei Teletubbies in TV durante il massacro, che rimane impressa come un’allucinazione (quasi a suggerire che la cultura pop per bambini stava cullando una generazione proprio mentre il mondo crollava). È un tocco ironico e crudele che preannuncia i temi di memoria selettiva e di responsabilità collettiva che emergeranno più avanti. Alla fine del prologo, quando la narrazione sta per balzare in avanti di 28 anni, ci rimane la figura traumatizzata di Jimmy – un piccolo sopravvissuto che ha perso tutto in un giorno. La croce al suo collo e il suo stesso nome, Jimmy, torneranno a perseguitarci nell’epilogo, ma per ora restano come eco lontane.

Ventotto anni dopo: l’isola dei sopravvissuti

Dopo il buio del prologo, il film ci trasporta ventotto anni nel futuro, catapultandoci in un mondo profondamente mutato. Siamo nel 2030, su un’isola tidale chiamata Lindisfarne, al largo della costa nordorientale dell’Inghilterra. La scelta di Lindisfarne, nota anche come Holy Island, non è casuale: è un luogo reale, ricco di storia antica e spiritualità, famoso per essere accessibile solo con la bassa marea grazie a un sentiero rialzato che la collega alla terraferma e che scompare con l’alta marea. In 28 Years Later, questo dettaglio geografico diventa un elemento narrativo cruciale. L’isola è diventata un rifugio di superstiti, una piccola comunità fortificata e arcaica, l’ultima fiammella di civiltà in un Regno Unito altrimenti ridotto al silenzio. Mentre il virus è stato estirpato dall’Europa continentale, l’intero arcipelago britannico rimane in quarantena a tempo indefinito, abbandonato dal resto del mondo. Si tratta di un colpo d’occhio potente: l’Inghilterra e i suoi vicini, un tempo cuori pulsanti di cultura e progresso, ora sono terra di nessuno, lasciati letteralmente marcire da un’Europa che è andata avanti senza di loro. L’evocazione di Brexit qui è forte: in questa realtà alternativa, il Regno Unito è isolato per necessità virologica, ma agli occhi dello spettatore è impossibile non pensare a un isolamento anche politico e identitario, a quel “voler restare soli” portato all’estremo e sfociato nell’incubo.

La vita su Lindisfarne viene presentata con un ritmo inizialmente lento, quasi bucolico. È un’esistenza medievale quella dei sopravvissuti: agricoltura di sussistenza, un piccolo villaggio raccolto attorno alle rovine di un castello, mura e cancelli sorvegliati contro i pericoli esterni, consuetudini comunitarie che ricordano un’altra epoca. Boyle sottolinea visivamente questo ritorno al passato con inserti curiosi: ad esempio, durante le scene di vita quotidiana sull’isola, il montaggio inserisce brevi spezzoni di vecchi film in costume d’inizio Novecento – immagini di contadini e dame inglesi d’altri tempi – come se la realtà stessa dell’isola stesse imitando l’iconografia di un passato idealizzato. In una taverna locale (l’unico pub del villaggio) campeggia impolverato il ritratto dell’incoronazione della “vecchia regina Elisabetta” appeso in segno d’onore: un tributo malinconico a un regno scomparso, quasi un feticcio di lealtà monarchica in un mondo dove la monarchia è impotente o inesistente. Sono dettagli che dipingono un quadro di nostalgia collettiva: questi sopravvissuti tengono vivi rituali e memorie patriottiche come per aggrapparsi a una continuità con la nazione che fu, sebbene quella nazione li abbia in fondo lasciati soli.

Ma la pace bucolica di Lindisfarne è un’illusione fragile che può infrangersi in un attimo. Lo scopriamo presto attraverso gli occhi di Spike, un ragazzino di 12 anni che è nato e cresciuto sull’isola senza aver mai visto il mondo di prima. Spike vive con suo padre Jamie e sua madre Isla. La famiglia sembra unita dall’affetto, ma gravata da pesi invisibili: Isla è malata da tempo di un male misterioso che la lascia a letto spossata e, cosa ancora più inquietante, le causa frequenti vuoti di memoria e stati confusionari. Per Spike, quella madre distante e smarrita è fonte di preoccupazione e tenerezza: la accudisce come può, ma soprattutto cova la speranza ingenua di poterla un giorno rivedere in salute. Jamie, il padre, è invece un uomo provato ma duro, che pare reggere la comunità sulle proprie spalle come cacciatore e fornitore. Proprio Jamie decide che è giunto per Spike il momento di crescere: secondo la tradizione stabilita sull’isola, quando un bambino raggiunge l’età giusta deve affrontare un rito di passaggio che consiste nell’avventurarsi sul continente e imparare a cacciare e combattere gli infetti. È un’usanza brutale ma ritenuta necessaria: solo imparando a uccidere un infetto un giovane può davvero diventare adulto in quel mondo. Nel caso di Spike, che ha solo 12 anni, questa prova appare prematura e pericolosa – e non a caso Isla ne è terrorizzata e contraria (“Davvero vuoi portarlo laggiù? È follia!”, lo rimprovera). Ma Jamie insiste: c’è un’urgenza nascosta nel suo voler temprare il figlio così presto, forse dettata proprio dalla consapevolezza che Isla peggiora di giorno in giorno. Si ha la sensazione che Jamie tema per la sorte del ragazzo qualora perdesse la madre, e voglia dotarlo al più presto degli strumenti per sopravvivere in un mondo crudele. C’è anche dell’altro: Jamie stesso sembra avere dentro di sé una rabbia repressa, un’inquietudine che lo rode. Lo vediamo negli sguardi tesi, nei modi bruschi con cui a volte si rivolge a Spike o agli altri; è come se il peso di quel mondo medievale gli stesse addosso e la malattia della moglie alimentasse in lui un furore silenzioso.

Padre e figlio dunque partono, attraversando il lungo ponte-causeway che collega Lindisfarne alla Gran Bretagna continentale. È un passaggio carico di tensione simbolica: mentre camminano sul selciato umido che l’oceano scopre temporaneamente, sanno che alle loro spalle l’acqua risalirà a breve isolandoli. Ogni spedizione sulla terraferma è una corsa contro il tempo – prima che la marea ritorni e chiuda la via di fuga. Questa regola del luogo aggiunge un ticchettio costante di suspense ad ogni escursione: Lindisfarne è sicura finché resta isola, ma appena il cordone ombelicale con il continente si riapre, può anche diventare una trappola mortale se non si torna in tempo. Jamie e Spike avanzano in un paesaggio spettrale: la costa britannica è invasa dalla vegetazione, carcasse di automobili arrugginite emergono qua e là tra le sterpaglie, scheletri di case diroccate punteggiano l’orizzonte. Non c’è traccia di vita umana, ma l’ombra degli infetti potrebbe annidarsi ovunque.

In effetti, durante questa loro prima sortita, padre e figlio fanno due scoperte inquietanti. La prima è all’interno di un cottage fatiscente: qui trovano un infetto solitario, stranamente incatenato e con un marchio sul petto che forma il nome “Jimmy”. La creatura è emaciata, forsennata ma fisicamente debole – quasi uno spettro affamato dopo anni di isolamento. Perché porta quel nome inciso addosso? Jamie non ha intenzione di scoprirlo: rapidamente mette fine alla sofferenza di quell’essere, uccidendolo con un colpo deciso. Spike osserva la scena con orrore misto a fascino: è il suo primo contatto diretto con uno dei “mostri” di cui ha sentito solo racconti. Ma non c’è tempo per elaborare: subito dopo, nella brughiera avvolta dal crepuscolo, compare un’intera orda di infetti. E qui Jamie e Spike scoprono la seconda, terribile novità: alcuni di questi infetti non sono affatto deboli e scheletrici – al contrario, uno di loro è enorme, un vero colosso deformato dalla rabbia e dalla forza bruta. Il gigante emette un richiamo gutturale e gli altri infetti sembrano obbedire ai suoi movimenti: è un Alpha, una variante evoluta degli infetti, più intelligente e possente, capace di guidare gli altri come un capo branco. Jamie capisce immediatamente di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e letale; afferra Spike e lo trascina in una corsa disperata verso il ponte. La scena che segue è un concentrato di adrenalina: i due corrono attraverso il sentiero fangoso con l’acqua che inizia a salire alle caviglie, l’Alpha a brevissima distanza. Boyle filma l’inseguimento alternando riprese concitate a visuali più ampie che mostrano la silhouette mostruosa dell’Alpha stagliarsi dietro i fuggitivi nell’ultima luce del tramonto – un’immagine che rimanda a incubi ancestrali, come un orco delle fiabe che insegue i suoi piccoli prigionieri. Arrivati quasi a metà del ponte, Jamie e Spike sembrano perduti: l’Alpha li sta per afferrare. Ma dalle fortificazioni dell’isola partono dei dardi giganti: la comunità di Lindisfarne, allertata dalle sentinelle, utilizza una grande balista (sì, proprio un’arma d’assedio medievale) per colpire il nemico. Uno di questi enormi proiettili perfora l’Alpha, che cade in acqua sconfitto. Jamie e Spike, ansimanti, raggiungono la salvezza dietro il portone del villaggio che si richiude con un tonfo.

Questo segmento sull’isola e la prima spedizione sul continente costituiscono il primo atto del film e gettano sul piatto molti elementi narrativi. Da un lato abbiamo il conflitto generazionale e familiare: Spike viene spinto in una prova troppo grande per la sua età, e vediamo quanto possano divergere le prospettive di un padre temprato dal trauma e di un figlio nato nel rifugio. Dall’altro lato compaiono misteri inquietanti: chi era l’infetto chiamato “Jimmy”? Come ha fatto a restare incatenato lì (qualcuno deve averlo legato)? E soprattutto, cosa sono questi nuovi Alphas e come sono diventati così? La sensazione è che il mondo fuori dall’isola non sia rimasto statico: il virus ha continuato a evolvere, e con esso i mostri che genera. L’apparizione dell’Alpha aggiunge un elemento quasi da fantasy oscuro o da videogioco apocalittico: non più zombie tutti uguali, ma creature diverse, alcune enormi e dotate di comportamenti quasi coordinati. Il riferimento culturale viene persino suggerito nel film stesso: “più Resident Evil che The Last of Us”, verrebbe da dire, con quegli infetti simili a boss di fine livello. Questo arricchisce l’iconografia orrorifica del film ma allo stesso tempo serve da specchio metaforico (come vedremo, gli Alphas e persino gli infetti obesi e lenti – soprannominati altrove “Slow Lows” – alludono a tipi umani ben riconoscibili, caricature mostruose di difetti sociali).

Intanto, all’interno del villaggio, il ritorno di Spike e Jamie innesca altre micce narrative. In una scena di festa intorno al fuoco, la comunità celebra la sopravvivenza del ragazzo alla sua prima caccia. C’è un’atmosfera di sollievo e orgoglio collettivo: Spike ha “fatto il suo dovere” e tutti brindano a lui. Ma proprio in questo momento di apparente gioia, Spike scorge suo padre in disparte in un atteggiamento che gli gela il sangue: Jamie, credendosi lontano da occhi indiscreti, scambia effusioni intime con Rosie, la giovane maestra del villaggio. È chiaro che i due hanno una relazione segreta – un tradimento nei confronti di Isla. Il dodicenne osserva attonito: per lui, già sconvolto dagli eventi del giorno, è un ulteriore colpo emotivo. In un attimo, l’eroe che aveva ammirato (il padre protettivo) gli appare sotto una luce diversa, più umana e fallibile, perfino colpevole. Spike fugge turbato dalla festa e corre a casa, dove trova la madre in uno stato confusionale accudita da Sam, un amico di famiglia dal volto mite. È una scena intima e dolorosa: Isla è smarrita, non riconosce quasi il figlio, mentre Sam cerca di calmarla come fosse una bambina. Spike, con il cuore spezzato e il segreto del padre che gli brucia in petto, sente crescere dentro di sé un’urgenza: salvare sua madre a ogni costo. Qui entra in gioco la leggenda locale di un certo dottor Kelson. Sam accenna che forse il fuoco visto in lontananza sul continente (la notte prima padre e figlio avevano scorto un falò misterioso oltre la costa) potrebbe essere opera proprio di Kelson, un medico solitario che un tempo viveva con loro ma è stato bandito o quantomeno evitato da tutti. Kelson incute timore perché anni addietro fu visto bruciare dei cadaveri in modo “rituale” – un comportamento che i superstiti interpretarono come follia o stregoneria. In un contesto medievalizzato, quell’uomo di scienza caduto in disgrazia è diventato una figura semi-mitica, quasi un eremita stregone di cui aver paura. Jamie, come capo-caccia e uomo pragmatico, ha sempre proibito a chiunque di cercare Kelson; anzi, ha inculcato a Spike l’idea che costui sia pericolosissimo. Ma Spike ora vede in Kelson l’unica speranza: se davvero è un medico, forse può curare la malattia misteriosa di Isla. La fede ingenua e disperata di un figlio che vuole salvare la madre si scontra con la prudenza terrorizzata del padre che teme l’ignoto. Quando la mattina seguente Spike domanda apertamente a Jamie se il dottore potrebbe guarire Isla, il padre reagisce con rabbia, troncando il discorso e ribadendo che nessuno deve avventurarsi a cercarlo. Questo scatto iracondo – verosimilmente alimentato dal senso di colpa che Jamie prova per l’adulterio e dall’impotenza verso la malattia della moglie – non fa che convincere Spike di dover agire di nascosto.

Spike dunque prende una decisione radicale: approfittando di un momento propizio, organizza la fuga sua e di Isla verso la terraferma. È una scelta che segna una svolta nel suo arco narrativo: il bambino impaurito del giorno prima lascia spazio a un ragazzo determinato, mosso dall’amore filiale e da un certo candore incosciente tipico dell’adolescenza. Con uno stratagemma astuto, Spike dà fuoco a un emporio disabitato all’interno del villaggio, creando scompiglio: mentre tutti corrono a spegnere l’incendio, lui riesce a portare via la madre senza farsi notare. Carica Isla su un piccolo carro e attraversa nuovamente il ponte durante la bassa marea, avventurandosi nel regno degli infetti. Questa fuga di nascosto è uno dei momenti chiave in cui il film assume toni quasi da fiaba oscura: il giovane eroe ruba la principessa malata dalla torre (anche se qui la “torre” era l’isola protetta) e parte verso la foresta stregata in cerca del mago guaritore. Naturalmente, la realtà che lo attende è molto più cruda delle fiabe.

Nel cuore dell’orrore: il continente e il tempio di ossa

Approdati sul continente, Spike e Isla si trovano immersi in uno scenario da incubo gotico. La terraferma britannica, dopo 28 anni senza esseri umani (o quasi), è tornata in gran parte alla natura: boschi selvaggi hanno inghiottito le città, animali bradi scorrazzano dove un tempo c’erano strade. Ma è una natura intrisa di morte. Ovunque, resti umani e carcasse testimoniano che qui la vita civile si è estinta nel sangue. Mentre madre e figlio avanzano, il film regala momenti di silenzio spettrale in cui solo il vento tra gli alberi e il cigolio di qualche insegna lontana si fanno sentire. Isla sembra in uno stato di semi-coscienza: la fatica e la malattia la fiaccano, e a tratti delira confondendo ricordi e realtà. In uno di questi frangenti, i due trovano riparo in una chiesa in rovina – un’eco sinistra di quella chiesa del prologo. Qui accade un fatto significativo: un infetto isolato li attacca all’improvviso, e Spike rimane paralizzato dal terrore. Ma proprio quando sembra spacciato, Isla si ridesta dal suo torpore e in un impeto quasi sovrumano afferra un oggetto contundente e uccide l’assalitore per proteggere suo figlio. È un gesto istintivo, materno, quasi “automatico”: subito dopo aver fracassato il cranio del mostro, Isla crolla sconvolta, non del tutto consapevole di ciò che ha fatto, come se fosse entrata in uno stato dissociativo per pochi secondi. Questa scena, breve ma intensa, evidenzia la complessità del personaggio di Isla: nonostante la malattia le stia portando via la lucidità, dentro di lei arde ancora la fiamma dell’amore materno e della protezione, capace di emergere nei momenti di massimo pericolo. Allo stesso tempo, la sua confusione mentale dopo l’atto di violenza suggerisce quanto fragile sia ormai il confine tra realtà e allucinazione nel suo mondo interiore.

Proseguendo, i due incontrano uno dei personaggi più inaspettati del film: Erik, un soldato svedese appartenente a una forza NATO di pattugliamento navale. L’uomo è l’unico sopravvissuto del suo equipaggio: la loro nave di quarantena è affondata sulla costa inglese e sono stati massacrati dagli infetti mentre cercavano di raggiungere un punto sicuro. Erik salva Spike e Isla dall’attacco di un altro gruppo di contagiati – la sua comparsa è provvidenziale, con l’effetto sonoro di raffiche di mitra che squarciano l’aria fermando gli assalitori. In uno scenario da fine del mondo, la presenza di un militare straniero rappresenta quasi la voce del mondo esterno “civilizzato” che irrompe nel caos britannico. Non a caso Erik rimane atterrito e sconvolto dallo stato della Gran Bretagna, come se faticasse a credere a quel che vede: per lui, europeo venuto dall’“altro lato”, quest’isola infestata è un incubo fuori dal tempo, una realtà talmente degradata da sembrare surreale. Qui affiora un sottotesto ironico e amaro: agli occhi di un outsider, i britannici rimasti isolati appaiono come barbari in un inferno auto-inflitto, confermando la lettura allegorica di un’Inghilterra post-Brexit abbandonata e impazzita. Erik, come “osservatore europeo”, funge da specchio attraverso cui comprendiamo quanto folle e disperata sia la condizione dei protagonisti.

L’alleanza tra Erik e Spike, tuttavia, è fragile. Dopo il primo momento di collaborazione (Erik addirittura cede a Spike la sua pistola come gesto di fiducia), emergono subito tensioni e differenze culturali. Isla, con la sua bontà innata, soccorre una donna infetta incinta trovata agonizzante lungo la strada. In un atto di straordinaria umanità, Isla mette da parte il disgusto e la paura e aiuta la creatura a partorire un neonato. Miracolosamente, il bambino nasce sano e non contagiato – uno spiraglio di speranza e di purezza letteralmente strappato dal grembo della malattia. Questa immagine potentissima (la madre-mostro che muore dando alla luce una creatura innocente) sottolinea uno dei concetti chiave del film: anche dall’orrore più nero può nascere qualcosa di buono, la vita trova una via persino tra i morti viventi. Purtroppo, non tutti condividono la compassione di Isla. Il soldato Erik reagisce con paranoia e orrore: vede quel neonato come una minaccia in potenza, teme che sia portatore di contagio o semplicemente è così terrorizzato da ciò che ha visto che perde lucidità. In preda al panico, Erik uccide a bruciapelo la madre infetta (che in realtà era ormai moribonda e inerme) e punta l’arma contro Isla e il neonato, intimando a Spike di allontanarsi da loro. Il soldato incarna qui la faccia oscura della sopravvivenza: l’istinto di preservazione tramutato in crudeltà e ottusità. Dopo anni in mare a pattugliare un Regno Unito off-limits, Erik si ritrova al suo interno senza protocolli o rinforzi, e regredisce a una mentalità da “spara a vista” contro ogni anomalia. La tensione sale alle stelle: Spike si frappone per difendere la madre e il neonato, puntando a sua volta la pistola (quella che Erik stesso gli aveva dato) contro il militare. È un duello morale prima che fisico tra due concezioni opposte: da un lato l’innocenza e la speranza (il ragazzino che vuole salvare una vita nuova), dall’altro la paura cieca e la violenza preventiva (l’adulto armato che preferisce uccidere ciò che non capisce). Prima che questo potenziale tragico conflitto si risolva, ecco irrompere ancora una volta la furia del virus: l’Alpha – forse lo stesso ferito sul ponte o un suo simile – salta fuori dalla boscaglia e si scaglia su Erik in un attimo. Con forza brutale, la creatura decapita il soldato con un singolo gesto, strappandogli via la testa e la spina dorsale in un macabro spettacolo. Boyle non risparmia la crudezza della scena, ma paradossalmente la inscena con un certo estetismo del terrore: la violenza è così estrema da diventare quasi surreale, rimandando ancora a quell’immaginario da fumetto horror o videogioco splatter, e prepara il terreno all’entrata in scena di un personaggio altrettanto fuori dall’ordinario.

Proprio sull’onda di quel momento sanguinario, mentre Spike e Isla (con il neonato stretto in braccio) arretrano sconvolti, appare finalmente il dottor Kelson. L’uomo emerge dalle ombre come un moderno Van Helsing, imbracciando una cerbottana artigianale con cui spara un dardo tranquillante all’Alpha. In pochi istanti la bestia rallenta e crolla al suolo sedata: Kelson l’ha colpita con un mix di morfina e sedativo per animali, rivelando una conoscenza approfondita del nemico e risorse tecniche inaspettate. La sua figura è affascinante e sinistra al contempo: il dottore (interpretato con magnetismo da Ralph Fiennes) si presenta come un uomo di mezza età, barba e capelli grigi arruffati, abiti logori macchiati di fuliggine e sangue, ma con occhi vivaci e un’eloquenza calma. Si muove con autorità nel regno dei morti come se ne fosse il custode. Senza indugio, Kelson offre rifugio a Spike, Isla e alla neonata; li conduce attraverso un dedalo di sentieri fino al suo nascondiglio. E qui, lo scenario si apre su una visione tanto incredibile quanto macabra: un tempio fatto di ossa.

Immaginate una radura segreta in mezzo al bosco, in cui svettano enormi colonne e archi composti interamente da teschi umani e ossa lunghe intrecciate; attorno, circonferenze di teschi formano mura ciclopiche, e al centro un’enorme pira funebre arde lentamente. Sembra di essere finiti nelle Catacombe di Parigi o nella cripta di un culto medievale, ma all’aria aperta, sotto un cielo grigio plumbeo. Kelson spiega, con sorprendente pacatezza, che ha costruito quel luogo come un “memento mori” – un memoriale dei morti, per non dimenticare il destino di tutti. Scopriamo così che egli non bruciava cadaveri per follia sacrilega, come credevano i villici di Lindisfarne, bensì per pietà e filosofia: dava fuoco ai corpi degli infetti uccisi per fermare la diffusione del virus (un atto pratico di sanificazione), e con le ossa residue erigeva torri e strutture, quasi a dare un ordine artistico al caos della morte. In mezzo a quell’orrore, Kelson ha trovato una sorta di quiete spirituale: vede bellezza e serenità nell’accettazione della mortalità, al punto da creare un santuario macabro dove ogni teschio ricorda una vita perduta. Questa rivelazione getta nuova luce su di lui: non è un “mago” oscuro, ma piuttosto uno scienziato-filosofo segnato dalla solitudine e dal trauma, che ha reagito all’apocalisse cercando senso nella morte stessa. I suoi modi gentili con Isla e Spike lo confermano: offre loro cibo caldo, un riparo e soprattutto le sue competenze mediche.

In una pausa di calma carica di emotività, Kelson visita Isla e finalmente fa una diagnosi al suo male: cancro terminale al cervello. La malattia, non curata e forse nemmeno riconosciuta sull’isola, spiega i sintomi neurologici e la degenerazione rapida di Isla. La notizia cade come un macigno. Spike, in lacrime, si rende conto che non c’è cura possibile: l’orrore più grande non sono gli infetti fuori, ma quel nemico invisibile che sta spegnendo la madre dall’interno. Isla, invece, sembra accettare la verità con una calma quasi ultraterrena. Forse in cuor suo aveva intuito la gravità del proprio stato. In un dialogo intimo e straziante con Spike, Isla gli fa promettere che sarà forte e continuerà a vivere anche senza di lei; gli sussurra parole di amore eterno, “sarò sempre con te” – un classico addio che risuona però sincero e doloroso nella sua voce fragile. Poi, mostrando un coraggio ed altruismo immensi, chiede a Kelson di porre fine alle sue sofferenze. È un momento quasi insostenibile per Spike: il ragazzo reagisce con disperazione, nega, implora la madre di non parlare così. Ma Isla è risoluta, la sua lucidità a tratti ritrovata solo per dire addio: non vuole che suo figlio la veda consumarsi tra dolori atroci e perdita di sé stessa. Preferisce andarsene ancora padrona della propria volontà, e affidare Spike alle cure del dottore. Kelson, dopo aver chiesto conferma a Spike con lo sguardo (lo immobilizza per evitargli di intervenire, come atto di pietà), somministra a Isla un mix letale di morfina per farla addormentare dolcemente. La morte di Isla è rappresentata con delicatezza e rispetto: Boyle sceglie di non mostrare dettagli cruenti, ma di concentrarsi sul volto di Isla che si distende in un’espressione finalmente serena, mentre la mano di Spike stringe la sua un’ultima volta. In quel silenzio irreale, il fuoco del crematorio improvvisato di Kelson inizia ad ardere: il dottore compie l’ultima parte del rito promesso, cremando il corpo di Isla per evitare che vi sia alcun rischio di contagio (anche se non infetta, è ormai la sua prassi con i defunti). Dalle fiamme, però, salva il suo teschio – integro, candido come avorio – e lo consegna a Spike, invitandolo a trovarle un posto d’onore sul tempio di ossa.

Ciò che segue è una delle sequenze più visualmente e emotivamente potenti di tutto il film. Spike, stordito dal dolore ma deciso a onorare la madre, scala la torre centrale del tempio portando in braccio il cranio di Isla. La colonna vertebrale di pietre e ossa sembra infinita mentre il ragazzino sale, passo dopo passo, con la musica che cresce in un crescendo mistico. Arrivato in cima – forse una decina di metri da terra – Spike trova una nicchia rivolta verso l’esterno del bosco e vi posa il teschio materno, come fosse l’apice di una cattedrale. In quell’istante, il sole trapassa le nuvole grigie e un raggio di luce illumina la bianca calotta cranica: Isla “guarda” ora per sempre il mondo, dall’alto, libera dal dolore. Il figlio trattiene a stento le lacrime, accarezza quel che resta del volto amato e sussurra un addio. La commozione di questa scena è amplificata dalla cornice macabra ma solenne: circondato da migliaia di teschi anonimi, Spike ha trasformato quello della madre in un simbolo personale di amore imperituro. Kelson, da sotto, osserva con rispetto e pronuncia a mezza voce le parole “memento amoris” – un’invenzione sua, in contrapposizione al memento mori. Se quest’ultimo significa “ricordati che devi morire”, Kelson suggerisce invece “ricordati dell’amore”: ossia, nel regno dei morti non c’è solo putrefazione e orrore, ma c’è il ricordo luminoso di chi abbiamo amato che può guidarci. È un concetto che dà un’insospettabile impronta di dolcezza al cuore del film: nel bel mezzo del genere horror, Boyle e Garland inseriscono un messaggio profondamente umano sulla necessità di conservare l’amore e la pietà anche quando tutto è perduto.

Ma ovviamente, la quiete può durare poco in un mondo simile. L’Alpha chiamato Samson – così Kelson ha nominato quel gigante infetto – non è morto, solo sedato, e proprio in quei frangenti riacquista i sensi e irrompe di nuovo nella radura. La bestia ferita e inferocita attacca Spike ancora appollaiato sul tempio. Ne segue uno scontro teso: Spike rischia di cadere dall’alto, Kelson interviene con prontezza per distrarre Samson e proteggere il ragazzo. In un atto di coraggio quasi suicida, il dottore si lascia inseguire dall’Alpha attraverso la foresta di colonne ossee, usando la sua conoscenza del luogo per guadagnare secondi. Spike intanto scende a terra e, ricordando le tecniche apprese dal padre, afferra un attrezzo appuntito (una lancia rudimentale) e colpisce la creatura. In due, Kelson e Spike, riescono a sopraffare Samson: Kelson gli spara un altro dardo tranquillante e Spike, con un impeto di furia vendicativa per la madre, infilza l’Alpha nel punto in cui era già stato ferito, facendolo crollare definitivamente. L’Alpha rantola e perde conoscenza; il ragazzo è sul punto di finirlo per sempre con un colpo alla testa, ma Kelson lo ferma dolcemente, dicendo che non ce n’è bisogno. Forse in quell’atto di misericordia verso il mostro inerme riconosciamo che il dottore, pur efficiente killer quando necessario, conserva un principio di compassione persino per gli infetti (li uccide solo per reale necessità, altrimenti li studia, li sederebbe all’infinito). Kelson a questo punto parla a Spike con tono paterno: gli dice che ora il suo posto non è più in quel santuario dei morti. Deve tornare alla vita, dai suoi, portando con sé l’ultimo dono di speranza: la neonata sopravvissuta. Infatti, durante tutto ciò, Spike non ha dimenticato la piccola, che aveva adagiato al sicuro in una cesta: una bambina venuta alla luce pura in mezzo all’inferno. Per Spike rappresenta ormai una sorta di sorellina, o quasi una figlia da proteggere – sicuramente l’ultimo legame tangibile con il sacrificio di sua madre (che l’ha aiutata a nascere).

Kelson incoraggia Spike a portare con sé la neonata di ritorno all’isola, come simbolo che persino dagli infetti può nascere nuova vita, e chissà, forse come possibile chiave per un futuro senza virus (dato che la piccola è immune per nascita, suggerendo che la seconda generazione potrebbe essere libera dal morbo). Prima di congedarlo, Kelson pronuncia un’ultima frase enigmatica ma rassicurante: “memento amoris”, ribadendo l’invito a ricordare l’amore. Spike annuisce: in quel momento il ragazzino appare profondamente cambiato rispetto a quando era partito. Il suo volto è rigato di lacrime ma anche temprato: ha conosciuto il dolore più grande e ne è sopravvissuto. Ha lasciato la sua infanzia sulla cima di un tempio di ossa e ora tiene in braccio il futuro – una neonata che lui stesso ha deciso di chiamare Isla, in onore di sua madre.

Epilogo: i “Jimmies” e la memoria distorta

L’atto finale del film ci riporta sull’isola e oltre, portando a compimento alcuni destini e svelando l’ultimo tassello rimasto in sospeso dal prologo. Spike torna a Lindisfarne all’alba, stremato ma determinato. Senza farsi vedere dall’intera comunità, che forse lo accoglierebbe con ostilità sapendo che ha portato con sé qualcuno dalla terraferma, il ragazzo lascia la neonata Isla davanti al portone del villaggio, al sicuro in una coperta, con accanto un biglietto. Su quel pezzo di carta spiega chi è la piccola – non contagiata, nata da un’infetta – e affida al padre Jamie il compito di crescerla, dichiarando che tornerà quando sarà pronto ad affrontare tutti. È un gesto d’amore ma anche di rottura: Spike, nel consegnare la bambina alla comunità, implicitamente sta dicendo addio alla sua vecchia vita. Non varca la soglia dell’isola, non torna tra le braccia del padre che pure lo cerca disperato. Jamie infatti, trovata la piccola e letto il messaggio, ha un sussulto di coscienza: corre sul ponte urlando il nome del figlio, pentito di tutte le sue rigidità e paure che li hanno allontanati. Ma è troppo tardi: la marea si sta alzando nuovamente. Jamie arriva a metà del causeway quando l’acqua è già alta alla cintura e deve indietreggiare, mentre Spike è scomparso all’orizzonte. In una ripresa dall’alto, vediamo Jamie in ginocchio sull’istmo che affonda, con la neonata al sicuro dietro di lui al villaggio, gridare e piangere nella solitudine più totale, circondato dall’oceano. È l’ultima immagine che abbiamo di lui: un uomo che ha perso moglie e figlio nel giro di ore, dilaniato dal rimorso e dalla sofferenza. Il film non lo giudica apertamente, ma è evidente che Jamie stia pagando per la sua collera repressa e i suoi errori (non ultimo l’aver tradito la moglie e forse aver trascurato l’urgenza di curarla). Resta a lui, e alla comunità, quel fagottino di neonata – un simbolo di speranza che giunge però insieme alla perdita del nucleo originale.

Spike nel frattempo si è incamminato verso l’ignoto. Lo troviamo qualche settimana dopo (precisamente 28 giorni dopo, come ci suggerisce ironicamente una didascalia temporale) a vagare da solo sul continente. È diventato un piccolo nomade post-apocalittico, che sopravvive pescando e accampandosi nelle foreste costiere. La solitudine del ragazzo in questi minuti finali è quasi tangibile: il regista ci mostra la sua routine muta – accendere un fuoco, arrostire un pesce, stringersi nel suo logoro cappotto mentre la notte cala – e noi percepiamo tutto il peso delle emozioni che probabilmente gli turbinano dentro: dolore, libertà, spaesamento, forse un senso di colpa verso il padre o verso la madre (“Ho fatto bene? Dove vado adesso?”). Spike ha scelto di non tornare all’isola, segno che ormai non si riconosce più in quella società stagnante; ma al contempo è solo un ragazzino in una terra di mostri. Si sente quasi che questa condizione non potrebbe durare a lungo senza conseguenze. Ed infatti, l’epilogo riserva l’ultimo colpo di scena, quello più straniante e carico di significato simbolico.

Mentre Spike sta per essere sopraffatto da un gruppetto di infetti che lo hanno fiutato – una scena di caccia in cui sembra braccato senza scampo – succede l’imprevedibile: delle figure umane compaiono all’improvviso e abbattono gli infetti con lunghe lance. Spike è salvo, ma chi sono i suoi salvatori? La macchina da presa indugia su di loro: sono giovani, biondi, abbronzati e soprattutto vestiti in modo bizzarro – tute sportive sgargianti color porpora, abbinate a grandi collane d’oro pendenti sul petto. Il leader di questi sconosciuti si fa avanti: è un uomo sui trent’anni, con lunghi capelli ossigenati color biondo paglia che gli cadono sulle spalle, occhiali da sole anni ’70 nonostante il cielo coperto, e un sorriso amichevole ma che nasconde qualcosa di inquietante. Si presenta come Jimmy e chiede a Spike se vuole andare con loro. Spike rimane interdetto: quel nome, quell’aspetto… c’è qualcosa di stridente e surreale in tutta la situazione. Lo spettatore, a questo punto, probabilmente intuisce a cosa sta assistendo: il bambino del prologo, Jimmy, è sopravvissuto fino all’età adulta e ora guida un gruppo di superstiti con un look assai riconoscibile. L’aspetto di Jimmy e dei suoi seguaci è una replica palese dell’immagine di Jimmy Savile, celebre presentatore televisivo britannico del passato, noto per i suoi completini da jogging sgargianti, i capelli ossigenati e i grossi gioielli in vista. Boyle ha scelto di far risorgere in questo mondo post-apocalittico proprio quell’icona pop – rivelatasi nella realtà un predatore sessuale seriale – attraverso un culto. Jimmy Crystal (questo il cognome del personaggio, rivelato altrove) ha assunto su di sé l’estetica e forse il personaggio di Savile, trasformandolo in una sorta di mascotte o identità tribale per la sua banda. I suoi compagni, tutti giovani e stranamente floridi (non sembrano affamati o disperati come gli isolani di Lindisfarne; anzi hanno un’aria quasi salutare e ben nutrita), imitano il suo stile: tute colorate, parrucche bionde, collane vistose, e portano con sé armi affilate ricavate da pezzi di antenne o tubi (una sorta di lance moderne). L’apparizione di questo “culto dei Jimmy” sul finale cambia drasticamente il registro: dal tono malinconico e intimista dell’addio di Spike alla madre, passiamo a un’atmosfera di disturbante follia grottesca. È come se fossimo entrati in un altro incubo, non più quello dei morti viventi ma quello della memoria distorta e selettiva di ciò che era il mondo prima.

Jimmy (il leader) tratta Spike con sorprendente gentilezza. Gli sorride, gli fa cenno di non aver paura. “Vieni con noi, piccolo,” dice con accento affabile (forse sforzandosi di imitare il tono da presentatore di Savile). Alle sue spalle, i suoi adepti ripuliscono con efficienza la zona dai cadaveri degli infetti uccisi, agendo in coordinazione quasi militare. Spike è frastornato. Riconosce quel nome – Jimmy – perché sua madre Isla, in uno dei deliri, aveva biascicato qualcosa su un certo Jimmy e una collana (ricordi confusi che ora acquistano senso). Inoltre, tra i cadaveri per terra, Spike nota una cosa raggelante: uno degli infetti uccisi porta al collo un piccolo crocifisso argentato. Non può essere sicuro, ma ha il forte presentimento che sia la stessa collana che Jimmy bambino ricevette dal padre nel prologo. E infatti così è: ci rendiamo conto che il gruppo di Jimmy ha catturato o marchiato nel tempo vari infetti con quel nome “Jimmy” – forse come forma di esorcismo simbolico (ogni mostro ucciso col nome del loro leader è come se quest’ultimo vincesse la morte ancora e ancora). Jimmy Crystal, il bambino traumatizzato della chiesa, è cresciuto in un mondo di incubi e sembra aver risolto il suo trauma identificandosi con il mostro buono della TV che ricordava dall’infanzia: Jimmy Savile era, prima della rivelazione dei suoi crimini, percepito come un eccentrico benefattore, un intrattenitore amato da adulti e bambini. Nel contesto di un collasso della civiltà nel 2002, è plausibile che le rivelazioni sulle atrocità di Savile non siano mai emerse. Quindi per Jimmy Crystal e coetanei cresciuti nell’apocalisse, quell’uomo rimane solo il buffo zio della TV che “faceva star bene la gente”. Con inquietante ironia, 28 Years Later ci mostra come, in assenza di memoria storica accurata, anche un mostro reale possa essere idolatrato come un eroe popolare. Jimmy Crystal ha fondato un culto attorno a quell’immagine: i suoi seguaci si chiamano tra loro “Jimmies”, adottando la medesima identità, come se annullassero il passato individuale per fondersi in un unico personaggio collettivo. È uno sviluppo narrativo che esplode di significati socioculturali: da un lato c’è la critica a come la società seleziona cosa ricordare e cosa rimuovere (il film concretizza l’idea che la Gran Bretagna post-apocalisse abbia “dimenticato” il lato oscuro della propria storia, incarnato da Savile, e ne abbia anzi fatto un totem), dall’altro c’è il profondo effetto del trauma infantile di Jimmy che lo ha spinto a creare un mondo a sua misura, ricalcato su un simulacro rassicurante dell’infanzia. Savile vestiva eccentricamente e prometteva di esaudire i desideri (“Jim’ll fix it” era il suo programma): ecco che il nostro Jimmy ora veste i suoi “bambini sperduti” allo stesso modo e forse si propone come colui che “sistemerà tutto”. Ma la valenza perturbante è evidente: lo spettatore sa chi era davvero Savile, e vedere quell’immaginario resuscitato in un contesto già di per sé orrorifico provoca disgusto e brivido. È come se i sopravvissuti, pur di avere un mito, avessero scelto il più sbagliato possibile senza saperlo.

Spike, ignaro del retroscena reale di quell’estetica, percepisce comunque qualcosa di strano. C’è troppa allegria ostentata in quei volti, troppo ordine nei loro movimenti – quasi un branco anch’esso, ma un branco umano. Tuttavia, è esausto, affamato e solo; l’idea di unirsi a un gruppo che appare forte e organizzato lo tenta. L’ultimo fotogramma del film si chiude proprio su questo momento sospeso: Jimmy allunga una mano verso Spike, in offerta. Spike fissa Jimmy negli occhi e poi guarda la mano; noi non vediamo la sua decisione, poiché Boyle stacca l’inquadratura su un panorama più ampio: i boschi inglesi con i loro nuovi abitanti (mostri e “Jimmies”), mentre in cielo si avvita uno stormo di uccelli neri. Fine.

Questo finale aperto getta le fondamenta per il sequel già annunciato – 28 Years Later: The Bone Temple – ma soprattutto lascia lo spettatore con un turbinio di domande e sensazioni. Abbiamo iniziato con un padre che offriva una croce e finiamo con un altro “padre” che offre una mano guantata d’oro. Jimmy e Spike, due bambini sopravvissuti a destini opposti, ora si incontrano: uno ha abbracciato l’oblio mascherandolo da spettacolo, l’altro ha abbracciato il dolore trasformandolo in memoria. Il confronto tra loro sarà inevitabile e promette sviluppi affascinanti. In termini di struttura narrativa, 28 Years Later compie così un cerchio: dal giorno del giudizio religioso del 2002 alla setta profana del 2030, dalla sacralità del sacrificio del parroco all’eresia di un culto che santifica un peccatore. Ogni momento chiave – la fuga iniziale di Jimmy, il rito di Spike, la morte di Isla, la scoperta del tempio, l’arrivo dei Jimmies – ha costruito pezzo per pezzo un mosaico che è insieme racconto di formazione (Spike ha perso l’innocenza e trovato una missione) e tragedia corale (una comunità intera soffre e cerca risposte nel modo sbagliato). È una storia che potrebbe reggersi già così, ma volutamente l’epilogo la lascia in sospeso per un seguito. Ciononostante, i temi e le emozioni seminati in questa trama risultano già ricchissimi, pronti per essere analizzati più a fondo.

Nei paragrafi successivi, dunque, non ricapitoleremo più gli eventi (che ora abbiamo ben presenti), ma ci addentreremo nelle loro implicazioni: cosa significano per i personaggi interiormente, cosa simboleggiano e che riflessioni ci propongono sul nostro mondo. Inizieremo proprio dai protagonisti, figure scolpite dal trauma e dall’amore, attorno a cui ruota tutto il cuore di 28 Years Later.

I conflitti interiori dei personaggi: trauma, attaccamento, identità e resilienza

Una storia post-apocalittica, per quanto ricca di azione e terrore, non avrebbe risonanza emotiva senza personaggi sfaccettati alle prese con conflitti interiori universali. 28 Years Later eccelle nel delineare figure complesse, ciascuna alle prese con i propri demoni psicologici: i protagonisti vivono traumi profondi, lottano con sentimenti di colpa, cercano un senso di identità in un mondo frantumato e mettono alla prova la propria capacità di resilienza. Esaminiamo dunque i principali personaggi – Jamie, Isla, Spike, il dottor Kelson e Jimmy – esplorando la loro dimensione psicologica e il modo in cui il film rappresenta i loro conflitti interiori.

Jamie: il padre e la furia della protezione fallita

Jamie incarna la figura archetipica del padre sopravvissuto in un mondo ostile, caricato della responsabilità di proteggere la famiglia ad ogni costo. All’inizio del film lo vediamo come un uomo pragmatico, forte, addestrato a combattere e provvedere: è lui che guida le spedizioni, insegna ai giovani a sopravvivere e mantiene l’ordine a Lindisfarne. Ma dietro questa facciata di determinazione si agitano conflitti emotivi potenti. Jamie è divorato da una rabbia silenziosa – una furia quasi “virale” che lo infetta da dentro, pur senza aver mai contratto il patogeno. Da dove viene questa rabbia? In parte è frutto di ventotto anni di lotta continua: Jamie avrà visto amici e parenti morire, avrà dovuto uccidere per difendersi, e vive in uno stress costante. Ma a livello più personale, la sua rabbia è alimentata dall’impotenza: l’uomo è costretto ad assistere all’inesorabile declino della moglie Isla senza poterla salvare. Ogni giorno la vede spegnersi un po’ di più, dimenticare volti e nomi, soffrire – e non può fare nulla. Per un carattere d’azione come il suo, l’incapacità di proteggere chi ama dal nemico invisibile della malattia è un colpo durissimo all’orgoglio e al senso di scopo. Jamie sublima questa frustrazione gettandosi nel ruolo di “duro” della comunità: accentua la disciplina, anticipa i pericoli, e a tratti impone decisioni con aggressività (come quando impone a Spike il rito di passaggio malgrado i dubbi). È come se cercasse costantemente un nemico esterno su cui sfogare la rabbia che in realtà prova verso sé stesso e la sorte.

Vediamo il suo conflitto interiore venire a galla in vari momenti. Quando Spike menziona il possibile aiuto di Kelson per Isla, Jamie reagisce con collera sproporzionataen.wikipedia.org: non è solo paura irrazionale del “medico stregone”, ma anche il risentimento di un marito che vive quel suggerimento come un’accusa di non aver fatto abbastanza. È come se pensasse: “Credi che non stia già facendo l’impossibile? Nessuno può salvarla, smetti di illuderti!”. La rabbia diventa scudo contro la disperazione. Un altro aspetto del conflitto di Jamie è la colpa – sebbene il film non ne parli esplicitamente, è chiaramente suggerita dal suo comportamento. La tresca con Rosie, la maestra, indica che Jamie ha cercato altrove un conforto emotivo e fisico che probabilmente Isla non poteva più dargli a causa della malattia. Questo tradimento pesa sulla coscienza di Jamie: lo vediamo nella sua espressione quando Spike li scopre e fugge; Jamie non corre subito dietro al figlio, quasi paralizzato dalla vergogna. L’adulterio in un contesto apocalittico ha un sapore diverso che in tempi normali: non è solo una scappatella, ma un segnale che Jamie stava già dando per persa la moglie, un modo per anestetizzare il dolore anticipando il lutto. Ciò in lui genera un conflitto morale devastante: ama ancora Isla ma la tradisce, vuole essere un padre esemplare ma delude suo figlio. Questa lacerazione si manifesta poi nel finale, quando Jamie perde tutto in un colpo: la moglie muore lontano da lui, il figlio se ne va dopo averlo visto nel suo lato peggiore, e lui resta con i rimorsi. Nell’immagine di Jamie inginocchiato sul ponte sommerso, c’è la rappresentazione plastica del fallimento del suo ruolo: non è riuscito a tenere insieme la famiglia, nonostante fosse la sua missione primaria. Il suo prototipo di maschio forte e controllante si è sgretolato di fronte a forze (la malattia, le scelte autonome di Spike) che non poteva dominare.

Psicologicamente, Jamie illustra bene il tema della rabbia repressa come virus interiore. Boyle e Garland suggeriscono che la rabbia del virus non è solo un fattore esterno: può albergare nel cuore degli uomini più comuni. Jamie è “infetto” di rabbia figurativamente – “non ha bisogno di morsi o sangue contaminato per diffonderla”, come nota acutamente la recensione Den of Geek. Infatti, la sua ostinazione e i suoi scatti d’ira contagiano negativamente i rapporti umani (Spike ne viene investito, reagendo con azioni impulsive; la comunità intera vive forse più nella paura perché riflette la severità di Jamie). In un certo senso, Jamie rappresenta quell’archetipo del padre-padrone che, pur mosso dalle migliori intenzioni, rischia di soffocare chi ama con la sua overprotezione rabbiosa. La tragedia è che il suo amore per Spike e Isla è genuino e profondo, ma espresso male: invece di mostrarsi vulnerabile e chiedere aiuto (ad esempio accettare di cercare Kelson prima che fosse troppo tardi), Jamie tenta di controllare tutto da solo, finendo con lo spingersi oltre (il tradimento) e alimentare tensioni. In termini di attaccamento, potremmo dire che Jamie sviluppa un attaccamento ansiogeno verso i suoi cari: la paura di perderli lo rende ipercontrollante e incapace di sintonizzarsi sui bisogni emotivi reali (come la speranza di Spike di salvare la madre).

Eppure, Jamie non è un “cattivo”: è un uomo tragicamente umano. La sua resilienza fisica (sopravvive a mille battaglie) non è accompagnata da una resilienza emotiva altrettanto forte. Non può reggere alla perdita e crolla. La sua evoluzione si interrompe bruscamente con l’uscita di scena di Spike: non sappiamo come affronterà l’ennesimo trauma (la morte di Isla e la scomparsa del figlio), ma possiamo immaginare che gli servirà tutta la sua forza per non soccombere alla disperazione o all’ira definitiva. Forse la presenza della neonata Isla gli darà un nuovo scopo, forse invece accentuerà il rimorso. In ogni caso, Jamie ci ha mostrato il volto di un padre che, in un mondo privo di sostegni sociali, porta il peso del mondo sulle spalle finché quel peso non lo spezza. È il simbolo di un’Inghilterra “patriarcale” che vorrebbe proteggere i propri figli ma commette errori fatali per orgoglio e cecità.

Isla: la madre smarrita tra attaccamento e oblio

Isla è il cuore tenero e tragico del film. Se volessimo sintetizzarla in un’immagine, sarebbe quella di una candela che arde tremula nel vento: rappresenta la bontà, la cura, l’amore incondizionato, ma minata da una forza ineluttabile che la consuma. Isla, quando la conosciamo, è già lontana dalla figura che forse era in passato: la sua malattia neurodegenerativa (che scopriremo essere un tumore al cervello) l’ha resa vulnerabile, smemorata, a tratti infantile. Eppure, attraverso le sue interazioni, comprendiamo molto di lei. Isla è profondamente legata affettivamente a Spike e Jamie; anche se la mente vacilla, l’istinto d’amore resta saldo. La vediamo sforzarsi di ricordare le cose per non far preoccupare Spike, vediamo i suoi occhi velarsi di tristezza quando intuisce che qualcosa non va (ad esempio, durante la festa, percepisce la tensione e chiama debolmente Spike, quasi presentendo la crisi). Questa sensibilità emotiva di Isla è parte del suo personaggio: anche confusa, capta gli umori attorno a sé.

Il suo conflitto principale è con la propria identità in dissolvimento. Isla sta letteralmente perdendo pezzi di sé – memoria, abilità cognitive, forza fisica. Questo la getta in uno stato di dipendenza forzata dagli altri, che contrasta col suo desiderio di essere madre e moglie presente. Probabilmente era una donna attiva un tempo (forse aveva ruoli nella comunità), ora deve essere accudita come una figlia. Il film ce lo mostra con delicatezza: Isla è spesso a letto, sfinita, e altre persone (Spike, Sam) le portano da bere, la aiutano a lavarsi. Si sente la sua frustrazione: in alcune scene Isla scoppia in crisi di pianto o ira confusa perché non ricorda chi ha di fronte o dov’è. C’è una sequenza molto toccante in cui Isla chiede di Jamie e poi, quando lui arriva, lo guarda con vuoto negli occhi, non riconoscendolo per un attimo – per poi vergognarsi e disperarsi appena la memoria le torna in lampi. Questi momenti dipingono un quadro realistico di ciò che molte famiglie affrontano con malati di Alzheimer o demenza: ed è commovente che in un film horror si inserisca questo tipo di dramma intimo. Isla combatte una battaglia persa contro l’oblio, e la combatte soprattutto per amore dei suoi: teme di dimenticare il volto del figlio, teme di “non essere più lei” e far soffrire chi la ama. In questo senso, Isla è portatrice del tema della paura della perdita di identità. In un mondo dove i mostri esterni rubano corpi, a lei un mostro interno sta rubando l’anima.

Nonostante la sua debolezza, però, Isla dimostra una resilienza emotiva e morale straordinaria. Ha i suoi momenti di crollo, certo, ma riesce anche ad attingere a forze insospettabili. L’episodio nella chiesa, quando difende Spike uccidendo un infetto, è emblematico: il suo attaccamento al figlio è così profondo che nemmeno la malattia può impedirle di proteggerlo. Quel gesto è quasi archetipico: la madre che diventa leonessa per un attimo di fronte al pericolo del suo cucciolo. Subito dopo ricade nello smarrimento, ma l’amore materno ha brillato potente. E quell’amore si vede ancor più nel momento della scelta finale: Isla con lucidità chiede di morire per non gravare e per dare a Spike la possibilità di andare avanti. È un sacrificio supremo, diverso da quello del parroco (che era un atto di fede e protezione attiva) ma ugualmente intriso di altruismo. Isla decide di spegnersi dignitosamente, forse anche nella speranza che il suo teschio nel tempio possa guidare spiritualmente il figlio (in fondo “sarò sempre con te” prelude proprio a quell’idea di guardarlo dal suo posto d’onore tra le ossa).

Il conflitto di Isla, dunque, è lacerante: attaccamento vs. rassegnazione. Da un lato vorrebbe aggrapparsi alla vita – per Spike, per l’amore che prova. Dall’altro capisce che lasciar andare è l’unica via. Psicologicamente, potremmo dire che Isla raggiunge una forma di accettazione serena del proprio destino, qualcosa che a Jamie manca. Affronta la morte con coraggio perché la considera un atto d’amore: l’ultimo gesto materno di cura è non far pesare oltre la sua sofferenza sul figlio, e affidarlo a chi forse può dargli ciò di cui ha bisogno (Kelson in quel momento funge quasi da figura sostitutiva paterna protettiva). Isla incarna la resilienza affettiva: anche totalmente vulnerabile, la sua presenza emotiva è forte e influenza positivamente Spike. Si può dire che il ricordo di Isla – la sua memoria emotiva – diventa il faro interiore che guida il ragazzo e lo distingue moralmente dagli altri.

Inoltre, Isla porta un altro significato: il suo nome, che richiama “isola”, la collega metaforicamente all’isola di Lindisfarne. Entrambe, l’isola e Isla, sono luoghi (fisico uno, affettivo l’altra) di rifugio per Spike, ma entrambi sono destinati a essere lasciati alle spalle per crescere. Quando Isla muore e Lindisfarne viene abbandonata da Spike, c’è un parallelo: Spike sta lasciando la sicurezza dell’attaccamento primario e del grembo familiare (Isla come madre, l’isola come “madre patria”) per addentrarsi nel mondo da solo. Questo è doloroso ma necessario per la sua identità nascente. Così Isla – pur nella sua tragica fine – rappresenta anche la fonte di vita da cui Spike è nato due volte: letteralmente dalla sua pancia, e figurativamente dal suo sacrificio che lo spinge verso l’età adulta. Non a caso, Spike ribattezza la neonata col nome Isla: per non dimenticare mai le radici affettive, per tenere con sé quell’amore. Isla come persona muore, ma Isla come amore materno sopravvive in quella bambina e nel cuore di Spike. In questo senso il suo conflitto (attaccamento vs oblio) trova una soluzione poetica: Isla scompare come individuo, ma il suo attaccamento si perpetua nella memoria viva dei suoi cari e nel nome tramandato.

Spike: l’innocenza spezzata e la nascita dell’identità

Tra tutti, Spike è il personaggio che più incarna il viaggio dell’eroe classico in chiave coming-of-age (crescita personale). Lo conosciamo ragazzino esitante e ce lo ritroviamo, a fine storia, adolescente temprato dall’esperienza e segnato nel profondo. Spike attraversa un arco di trasformazione che tocca temi psicologici universali: il distacco dai genitori, l’assunzione di responsabilità, il confronto con la morte, la tentazione di percorrere strade oscure e la ricerca di un proprio posto nel mondo.

Inizialmente, Spike è un bambino protetto. Pur crescendo in ambiente difficile, non aveva mai oltrepassato il confine dell’isola né affrontato direttamente un infetto. La sua visione del mondo è ingenua, alimentata da racconti e paura dell’ignoto ma anche speranze tipiche dei giovani. Il suo attaccamento a Isla è fortissimo: è un figlio amorevole, premuroso, quasi a rischio di diventare “genitore del genitore” visto che la accudisce lui stesso spesso. Questo attaccamento lo motiva in ogni passo: è per lei che affronta il rito di passaggio, è per lei che viola gli ordini del padre e fugge sull’odiato continente. Nelle prime fasi, Spike vive anche un conflitto di lealtà tra i genitori: percepisce che Jamie e Isla non sono allineati (il padre è duro e segreto, la madre vulnerabile e sincera). Quando scopre il tradimento del padre, questo conflitto esplode: Spike si sente tradito anch’egli, prova rabbia e disgusto, e naturalmente si schiera emotivamente con la madre. Questo evento segna un punto di non ritorno nella sua maturazione: l’idealizzazione dell’infanzia (dove papà e mamma sono baluardi) crolla. Spike capisce che i genitori sono fallibili, e che lui deve prendere in mano la situazione se vuole salvare ciò che ama.

Così Spike compie il suo atto di ribellione e coraggio: rapisce la madre per cercare aiuto. Da qui in avanti, vediamo Spike crescere a vista d’occhio attraverso prove successive. Ci sono momenti chiave nel suo sviluppo:

  • Il primo infetto ucciso da vicino (nel cottage con Jamie): Spike sperimenta l’orrore concreto, e anche se non lo uccide lui, quell’incontro ravvicinato gli toglie parte dell’innocenza.
  • L’inseguimento dell’Alpha: Spike sente la paura ancestrale della morte premere sul collo, ma sopravvive affidandosi al padre e alla comunità – qui è ancora “figlio salvato”, passivo.
  • La scoperta del tradimento di Jamie: Spike passa da figlio ammirato a figlio giudicante, perde fiducia nel padre e decide di agire per conto proprio. Questo è un salto psicologico: Spike si autonomizza emotivamente da Jamie, nutrendo anche risentimento.
  • Il viaggio con Isla: Spike è adesso il protettore di sua madre, i ruoli si invertono. Si prende una responsabilità enorme sulle spalle; ciò lo fa sentire più adulto ma è anche un peso che potrebbe schiacciarlo (infatti vive molto stress e momenti di panico, come in chiesa quando Isla deve salvarlo).
  • L’incontro con Erik: Spike qui è costretto a misurarsi con un’altra autorità adulta. All’inizio lo segue, vede in lui un alleato; ma quando Erik minaccia Isla e la neonata, Spike fa un passo decisivo: prende una posizione morale autonoma contro l’adulto sbagliato. Puntare la pistola a Erik è un atto di tremenda audacia per un dodicenne, segna quasi l’uccisione simbolica del “padre maligno” (Erik rappresenta una distorsione di protezione, la militarizzazione senza umanità). Spike sceglie la compassione contro la logica del “sopravvivi e basta”. Questo momento definisce la sua identità nascente: Spike capisce di voler essere diverso, di non voler perdere l’umanità.
  • La morte della madre: qui Spike affronta il trauma più devastante. È il momento in cui, come dice il recensore, deve “confrontarsi con la dura verità di un teschio vuoto”. La persona che era il suo mondo muore per sua stessa scelta. Spike attraversa tutte le fasi del dolore in breve: negazione (non accetta subito la scelta), rabbia (vorrebbe uccidere l’Alpha con ferocia), depressione (lo vediamo piangere disperato durante la cremazione), e infine una forma di accettazione/eredità (colloca il teschio con cura e rispetto, promettendo implicitamente di ricordare). Questo rito di passaggio estremo spezza definitivamente l’infanzia di Spike. Dopo, nulla sarà più uguale.
  • La decisione di non tornare a casa e di lasciare la neonata al padre: Spike qui mostra una maturità insospettabile. Capisce che ha bisogno di tempo lontano e che il padre, per quanto imperfetto, potrà occuparsi della piccola. Rinuncia quindi al conforto residuo di casa per un bene superiore (la neonata al sicuro) e forse perché sente di dover “ritrovarsi” da solo. Questo è un ragionamento complesso per un ragazzino – segno che l’esperienza lo ha fatto crescere in fretta.
  • I giorni da solo nel bosco: Spike affronta la solitudine e la paura in prima persona. Qui il conflitto è interno: cedere alla disperazione o continuare a vivere? Ogni giorno deve scegliere di alzarsi, procurarsi cibo e non arrendersi all’angoscia o ai sensi di colpa. Questa è resilienza pura in azione.

Alla fine, quando Spike incontra il culto dei Jimmy, è di nuovo in una fase vulnerabile: ha passato molto e potrebbe essere suggestionabile. La mano tesa di Jimmy rappresenta per Spike una tentazione di trovare una nuova famiglia surrogata, un senso di appartenenza che ha perso. Spike dovrà fare la scelta più difficile: mantenere la propria identità e i propri valori (memoria dell’amore materno, compassione, umanità) oppure fondersi in un gruppo che, per quanto accogliente, pare avere connotati inquietanti di settarismo e superficialità. Quel momento finale è cruciale per il conflitto di Spike tra identità autentica vs conformismo per sopravvivere. Non sappiamo cosa sceglierà (lo scopriremo nel sequel), ma dati gli elementi, possiamo sperare che Spike – armato del suo “memento amoris” – sia più incline a restare fedele a sé stesso e magari influenzare il culto dall’interno piuttosto che perdersi.

In sintesi, Spike rappresenta la resilienza dell’innocenza: un cuore puro che attraversa l’inferno ma non diventa un demonio. Ha i suoi momenti di rabbia e violenza (uccide almeno un infetto, aggredisce l’Alpha in vendetta), ma non perde l’umanità fondamentale. Lui dà sepoltura dignitosa alla madre, salva un’infante, non spara a Erik (anche se poteva), e piange i suoi morti – tutti segni che la sua empatia è intatta. Psicologicamente, Spike incarna il concetto di trauma evolutivo: eventi traumatici che, pur lacerando, portano a una crescita post-traumatica, a una nuova forza interiore e consapevolezza. La sua identità di adolescente nasce dal fuoco di quei traumi, temprata ma anche definita nei valori. Spike ha visto il peggio – i mostri fuori e i demoni dentro le persone – ma porta con sé il meglio che ha ricevuto (l’amore di Isla) e ciò gli dà uno scopo: ricordare e proseguire.

Dr. Ian Kelson: il custode della morte e della memoria

Il dottor Kelson è un personaggio affascinante perché vive sospeso tra il ruolo di salvatore e quello di figura gotica inquietante. Psicologicamente è forse il più complesso, poiché la sua sanità mentale stessa è messa in dubbio dal contesto (per i villagers era un folle). Tuttavia, interagendo con lui, scopriamo un individuo lucido, colto, dotato di grande autocontrollo emotivo, ma al contempo profondamente segnato dalla solitudine e dall’orrore che ha affrontato per anni in solitario.

Kelson incarna il conflitto tra razionalità scientifica e bisogno di significato spirituale. Come medico, all’inizio dell’epidemia avrà cercato spiegazioni, cure, applicato protocolli (lo vediamo ancora fare diagnosi precise, come con Isla). Ma col tempo, dovendo bruciare centinaia di corpi e vedendo la fine della civiltà, deve aver sentito vacillare la sua fede nella scienza pura. Da qui nasce il suo progetto del tempio di ossa: un’opera che è al contempo pratica (evitare epidemie secondarie bruciando i corpi) e metafisica (dare forma artistica alla morte per dominarne la paura). Kelson vuole tenere viva la memoria di quanto accaduto (“memento mori”), forse per ammonire chi un giorno vedrà quel luogo, forse per se stesso come rituale per non impazzire. Questa missione lo isola però dagli altri: viene visto come uno stregone. Il suo conflitto interiore sta nel bilanciare la compassione vs la disumanizzazione: per svolgere il suo compito, deve in parte desensibilizzarsi (manipola resti umani come materiali da costruzione, cosa agghiacciante); eppure lo fa in nome di un rispetto per i defunti e per i vivi (evitare il contagio, onorare i morti). Kelson cammina su un filo sottile tra empatia e follia. Il fatto che abbia dato un nome all’Alpha (“Samson”) e lo tenga sedato come uno zoologo studierebbe una bestia, mostra come abbia integrato l’apocalisse nel suo metodo: tratta i mostri come fenomemi da capire, non solo da temere.

Allo stesso tempo, Kelson sembra aver rinunciato alla speranza di normalità. Vive in un regno dei morti, letteralmente. Ciò suggerisce un velato nichilismo o comunque un distacco dalle aspettative di rifondare la società. Lui conserva il passato (i teschi), ma non sembra credere in un futuro di ricostruzione – diversamente dagli isolani che mantengono un simulacro di società. Questo lo porta a un conflitto: solitudine vs desiderio di comunità. Forse Kelson soffre la solitudine (si capisce dal modo in cui parla con Spike e Isla, quasi volesse raccontare tutto di sé, come qualcuno affamato di dialogo). Quando Isla e Spike arrivano, li accoglie con calore, cucina per loro – come un ospite che non ne aveva da anni. Probabilmente il suo lato umano anela contatto, ma sente di non poter tornare tra la gente (lo temono e lui stesso potrebbe non adattarsi più a regole altrui). In Kelson c’è il classico archetipo dell’Eremita saggio, colui che ha conoscenze vitali ma è esterno alla tribù.

A livello di trauma personale, non sappiamo esattamente cosa abbia vissuto (il film non ci fornisce flashback suoi), ma possiamo dedurre: ha visto decimare Lindisfarne da una seconda ondata di virus? Ha perso persone care? Possibile. L’aver bruciato i corpi in modo “rituale” fa pensare a un evento catastrofico dove magari il suo intervento fu male interpretato. Forse ha provato a salvare qualcuno e non c’è riuscito. Di certo la sua missione di bruciare e costruire indica un bisogno di controllo sul caos della morte, tipico di chi ha subito trauma e cerca un coping mechanism. È come se dicesse: “Non posso evitare che la gente muoia, ma posso scegliere come gestire le loro spoglie e trarne un insegnamento estetico/filosofico”. Questo è il suo modo di non impazzire.

Kelson offre una contrapposizione diretta a Jamie sul piano psicologico: dove Jamie rifiuta la fragilità e la maschera con rabbia, Kelson l’abbraccia e la sublima in rituale. E difatti è Kelson che permette a Spike di elaborare subito il lutto in maniera costruttiva (mettendo il teschio in cima al tempio, trasformando un cadavere amato in un monumento), mentre Jamie forse avrebbe seppellito Isla col dolore nascosto. Kelson quindi funge da guida psico-spirituale per Spike: gli insegna come convivere con la perdita. Il motto “memento amoris” che pronuncia è forse la frase più esplicita di tutto il film riguardo la guarigione emotiva: suggerisce di tenere a mente l’amore come antidoto alla disperazione della morte. Questo motto sembra qualcosa che Kelson ha imparato col tempo, quasi una sua filosofia per non cadere nella mera ossessione della fine (il memento mori ripetuto). Probabilmente anche Kelson, in passato, rischiò di sprofondare in un cupo culto della morte, e con “memento amoris” lui stesso cerca un equilibrio: ricordati della morte, sì, ma ricorda anche per chi vivi e cosa ti lega ai vivi.

In termini di resilienza, Kelson è resilientissimo sul piano adattivo: ha creato un suo ecosistema mentale funzionante nell’orrore. Ma è forse meno resilient sul tornare umano tra gli umani. Ha accettato così tanto l’oscurità che gli costa tornare alla luce. Una scena che lo evidenzia: quando Spike sta per andarsene con la neonata, Kelson non insiste per accompagnarli o unirsi a loro. Dice a Spike di tornare a casa, ma lui stesso rimane. È come se Kelson avesse scelto il ruolo di custode delle ossa, distaccandosi dalla vita sociale per sempre. Questo è in parte tragico: la sua saggezza resta isolata. Ma dall’altro lato ne fa una figura quasi mitica, destinata a comparire solo quando necessario (forse nel sequel tornerà come mentore).

Il conflitto di Kelson dunque è quello del sopravvissuto intellettuale: come rimanere umano dopo aver vissuto tra i morti tanto a lungo? La sua soluzione è stata creare una nuova forma di umanità in se stesso, una sorta di sacerdote laico della morte. Egli appare sereno, ma è una serenità che inquieta un po’, come chi ha visto oltre il velo. Quando confida i suoi pensieri a Spike, si percepisce una calma stoica unita a un abisso di dolore mai del tutto rivelato. Kelson probabilmente ha accettato la propria morte futura molto tempo fa ed è per questo che non ha paura di rischiare la vita affrontando l’Alpha. Questo lo rende coraggioso e quasi altruista (euthanasia a Isla, protezione di Spike), ma ci si chiede se tenga ancora alla propria vita.

In conclusione, Kelson è lo psicopompo della situazione, colui che traghetta i vivi attraverso il trauma della morte. Il suo conflitto – ragione vs spiritualità, solitudine vs bisogno degli altri – rimane in parte aperto. Egli però offre al film uno strumento narrativo potentissimo: tramite lui, 28 Years Later affronta direttamente il tema del come convivere con la perdita, fornendo non un lieto fine ma un rito di elaborazione (il tempio) e un messaggio di speranza paradossale (trovare bellezza anche nel lasciar andare). È un ruolo raro in un horror, quasi da personaggio di romanzo dostoevskiano trapiantato in un mondo zombesco.

Sir Jimmy (Jimmy Crystal): il profeta del culto e la memoria selettiva

Jimmy Crystal, il bambino del prologo divenuto leader di un culto, è un personaggio che appare pienamente solo nel finale ma la cui ombra aleggia su tutto il film. Egli rappresenta la conseguenza psicologica estrema del trauma infantile combinato con la distorsione della memoria storica. Se Spike è una risposta “positiva” al trauma (soffre ma mantiene l’umanità), Jimmy è potenzialmente la risposta “negativa”: chi, non avendo avuto sostegno emotivo, si rifugia in una costruzione identitaria fittizia e pericolosa.

Ripensiamo a Jimmy bambino: ha visto suo padre morire in modo orribile davanti ai suoi occhi, convinto fosse la fine del mondo e dandogli un simbolo religioso. Quell’esperienza lo ha segnato irrevocabilmente. Possiamo immaginare Jimmy cresciuto probabilmente senza genitori, forse un orfanello allevato alla meglio da qualche gruppo di sopravvissuti, o magari da solo per un periodo (ci sarà un retroscena nel sequel presumibilmente). La collanina col crocifisso era l’ultimo legame con la sua famiglia e con un’interpretazione apocalittica (il prete diceva “giorno del giudizio”). Da adulto, Jimmy è tutt’altro che devoto: non si fa chiamare Padre Jimmy, ma Sir Jimmy, come se avesse assunto un titolo nobiliare/fantastico. E il suo culto non è religioso in senso tradizionale, bensì pop. Questo suggerisce che Jimmy bambino, crescendo, ha rigettato la narrativa religiosa del padre (forse ritenendo che pregare in chiesa non servì a nulla) e ha cercato nuovi miti. La televisione e la cultura pop pre-apocalisse sono la base più evidente: Jimmy Savile era un personaggio onnipresente sulla BBC per decenni. È probabile che Jimmy Crystal lo ricordasse da piccolo e che quell’immagine sgargiante gli sia rimasta impressa come simbolo di tempi felici e di potere (Savile in TV sembrava onnipotente, realizzava desideri dei bambini, era amato da tutti). In un mondo senza regole e in macerie, il giovane Jimmy deve aver pensato di incarnare lui stesso quell’archetipo: un eccentrico benefattore a capo di una banda.

Dal punto di vista psicologico, Jimmy appare come un caso di identificazione e rimozione. Identificazione con l’aggressore, in un certo senso: Savile era un predatore travestito da amico dei bambini; Jimmy Crystal, vittima del mondo, per sentirsi forte si traveste da Savile, cioè assume la maschera di un impostore carismatico. Allo stesso tempo, la società intorno a lui (ossia i giovani sopravvissuti che lo seguono) probabilmente non conosceva il lato oscuro di Savile e ha quindi potuto proiettare su Jimmy quell’aura di “vecchio mondo scintillante”. E qui subentra la memoria selettiva: il culto dei Jimmies vive in un’illusione condivisa che rimuove deliberatamente gli aspetti scomodi del passato. Essi adottano simboli e gadget del passato (tute, gioielli, canzoni pop? non sappiamo, ma magari tramandano jingle o frasi celebri) e li reinterpretano come fondamento di un nuovo ordine. È quasi un esperimento sociale su come nascono le religioni: con un collage di miti misconosciuti e reinterpretati. Jimmy Savile è, per loro, un dio della gioia e della sopravvivenza (forse credono che portare il suo stile li renda invincibili o che “Jim aggiusterà tutto” come il suo show prometteva). Ciò è distorsione della memoria storica nella sua forma più inquietante, perché colpisce un nervo reale: nella nostra società, per decenni Savile fu venerato e le sue colpe insabbiate; in quella del film, le colpe non sono mai emerse, dunque la venerazione è proseguita in modo ancora più assurdo nel contesto sbagliato.

Per Jimmy leader, guidare il culto ha varie funzioni interiori:

  • Potere e controllo: da bambino inerme diventa un adulto con potere su altri, col potere di vita o di morte (lo vediamo uccidere infetti con sicurezza e dare ordini). Questo risarcisce il suo trauma di impotenza.
  • Negazione del trauma: vestendo i panni colorati e ridendo, Jimmy nega l’orrore circostante. Crea una bolla di apparente felicità eccentrica nel mondo grigio. Invece di un tempio di ossa a ricordare la morte, lui crea una “carnevalata” a scacciare la paura. È un meccanismo di coping opposto a Kelson: non memento mori ma piuttosto “dimentica che sei morto, fai festa”. I Jimmies appaiono quasi felici rispetto agli isolani.
  • Identità sostitutiva: Jimmy potenzialmente ha dissociato la propria identità traumatizzata e ne ha costruita una nuova grandiosa. Chiamandosi “Sir” e replicando Savile, adotta un ruolo. Questo può essere visto come un disturbo post-traumatico tradotto in comportamento carismatico e forse psicopatico. Non sappiamo ancora la sua indole esatta, ma l’idea che dei giovani lo seguano fanaticamente lascia intendere che abbia capacità manipolatorie notevoli (Savile stesso nella realtà le aveva, dietro la maschera bonaria).
  • Selective morality: c’è anche un conflitto morale interessante. Jimmy bambino aveva un padre religioso, un contesto di giustizia divina; Jimmy adulto rifiuta quell’etica e abbraccia un nichilismo “pop”. Il suo eventuale codice morale è ignoto – salva Spike, quindi appare buono, ma potrebbe averlo fatto perché vuole reclutarlo. Probabilmente i Jimmies uccidono infetti, ma come trattano altri umani? Non sappiamo. È facile immaginare che possano essere un culto con lati oscuri (magari pratiche iniziatiche, edonismo estremo, o soprusi nascosti – riflesso di Savile). Se così fosse, Jimmy Crystal avrebbe replicato il modello di Savile fino in fondo: presentarsi come salvatore divertente e dietro le quinte commettere atrocità (Savile abusava vulnerabili, Jimmy potrebbe abusare del potere su membri del culto o su altri gruppi).

Il conflitto di Jimmy, narrativamente, sarà tra la maschera e il volto. Ha rimosso il ricordo della sua vera infanzia traumatica? O ogni tanto affiora? Potrebbe darsi che vedere Spike – che è quasi come il se stesso di un tempo (bambino solo e spaventato) – risvegli qualcosa in lui. Oppure che consideri Spike un figlio spirituale da plasmare. Sicuramente l’interazione tra Jimmy e Spike sarà anche uno scontro psicologico: Spike ricorda la madre e il suo amore, Jimmy ha rimosso i genitori e abbracciato un surrogato di affetto del pubblico/cultisti. Questo li pone in contrasto su come affrontare il dolore passato.

In conclusione, Jimmy Crystal è un monito vivente: se il trauma e la storia non vengono elaborati correttamente, possono generare nuovi mostri. Il virus è sparito dal suo sangue, ma la “rabbia” intesa come malessere ha mutato forma in lui: non è la rabbia cieca di Jamie, né il dolore affrontato di Spike, bensì si è travestita da follia colorata. In termini sociologici, è anche la personificazione delle “ombre della cultura britannica” – quell’idolo nazionale che si rivelò un orco in realtà. Nel film quindi Jimmy/Savile è un’ombra letteralmente rinata a infestare il futuro. E questo porta dritto al prossimo livello di analisi: i significati simbolici di questi elementi e come il virus stesso funzioni da metafora.

Simbolismo di ambienti, eventi e oggetti

Oltre alla dimensione narrativa e psicologica, 28 Years Later è un film ricchissimo di simboli visivi e concettuali. Ogni luogo, ogni oggetto chiave, ogni evento rilevante è costruito in modo da evocare significati più profondi, che arricchiscono la storia di risonanze tematiche. In questa sezione analizzeremo alcuni dei simboli più evidenti: l’isola di Lindisfarne e il suo ponte sommerso, il tempio di ossa nel bosco, i costumi sgargianti dei “Jimmies”, nonché altri elementi come il fuoco, la croce, il neonato. Attraverso questi simboli, il film parla per metafore: di isolamento e connessione, di memoria e oblio, di morte e speranza, di identità collettive e devianze.

Lindisfarne, l’isola santuario e il ponte della separazione

L’isola di Lindisfarne è di per sé un simbolo potentissimo nel film. Luogo reale carico di storia – fu sede di uno dei primi monasteri inglesi e scenario di invasioni vichinghe – qui diventa un microcosmo allegorico. Lindisfarne è un santuario in mezzo al mare, ultima roccaforte di umanità civile, e al tempo stesso una prigione dorata. La sua natura tidale, accessibile solo con la bassa marea, simboleggia la precarietà di ogni isolamento: è un rifugio, sì, ma mai del tutto staccato dal mondo esterno. Dipende dai capricci delle maree, proprio come la sicurezza degli isolani dipende da fattori fuori dal loro controllo (il virus, le risorse).

Il fatto che Lindisfarne si chiami “Holy Island” (Isola Sacra) suggerisce che la comunità la viva un po’ come l’arca di Noè, una terra promessa dove ricostruire valori. Infatti la presenza del castello, del ritratto della regina, delle mura, delle celebrazioni rituali (il rito di passaggio dei giovani) sono tutti simboli di un tentativo di ricreare un ordine sociale e spirituale. C’è quasi un senso di missione nel mantenere viva l’isola: i sopravvissuti la percepiscono come l’ultimo baluardo della “vecchia Inghilterra” (monarchica, comunitaria, rurale) in un mare di caos. In tal senso Lindisfarne rappresenta la nostalgia del passato: loro letteralmente vivono come in passato (uno stile di vita pre-industriale), e i dettagli come la foto della regina o i costumi nei flashback di film d’epoca evidenziano questa dimensione nostalgica. Il loro piccolo mondo è rassicurante perché ordinato come un villaggetto antico, ma è anche stagnante, impermeabile al nuovo.

Il ponte-causeway, elemento architettonico e naturale insieme, è il simbolo del legame/distanza. Quando la marea è alta, l’isola è completamente isolata: ciò segna la sicurezza nella separazione (nessun infetto può arrivare, ma nessun isolano può scappare). Quando la marea è bassa, appare il sentiero: opportunità e pericolo insieme. È un “ponte levatoio” naturale che di volta in volta invita all’esplorazione o minaccia l’invasione. Ogni attraversamento del causeway nel film segna un momento di transizione e rischio. Per Jamie e Spike all’andata, è l’inizio dell’avventura (il padre porta il figlio fuori dal grembo sicuro, come un parto inverso). Per loro al ritorno inseguiti dall’Alpha, il causeway è quasi un collo di bottiglia dove si gioca la vita – e la minaccia che possa sommergersi aggiunge suspense. Per Spike quando scappa con Isla, attraversarlo di nascosto significa tagliare il cordone ombelicale: sta volontariamente recidendo la connessione con la comunità per salvarla. Infine, per Jamie nell’epilogo, il causeway sommerso simboleggia la separazione definitiva: l’acqua che sale impedendo a un padre di raggiungere il figlio è un’immagine di destino inesorabile, quasi biblica (come Mosè che vede la terra promessa ma non la raggiunge). È come se la natura stessa ponesse un confine tra generazioni o tra scelte: quell’innalzarsi della marea al momento clou è il segno che “il tempo è scaduto”, le possibilità di riconciliazione sono andate per quel giorno, forse per sempre. Il causeway è quindi simbolo della possibilità di connessione e al contempo del destino di separazione.

In chiave più ampia, l’isola e il suo ponte rappresentano l’Inghilterra stessa rispetto all’Europa. Come notato, c’è un parallelo con la Brexit: un’isola che si stacca dal continente, per scelta o necessità, convinta di far meglio da sola e di preservare le sue tradizioni, ma che di fatto si trova isolata e “arretrata”. L’acqua che divide Lindisfarne dal Regno Unito è una piccola barriera, come la Manica lo è tra UK e Europa. Il film amplifica la questione mostrando che l’Europa se l’è cavata (virus eradicato), mentre la Gran Bretagna “isolata” è rimasta maledetta e abbandonata. Lindisfarne è come un Regno Unito in miniatura: glorioso nelle memorie (la regina, i castelli) ma bloccato nel tempo, mentre altrove la storia va avanti. Il causeway allora simboleggia anche la connessione perduta con il continente: i soldati svedesi annegano metaforicamente quando la loro barca affonda e rimangono intrappolati, e quell’ultimo europeo vivente (Erik) muore proprio su suolo britannico, come a dire che l’ultimo filo con l’esterno è reciso in modo violento. La scena in cui Erik è terrorizzato di restare sull’isola con “questi selvaggi” ha un significato simbolico: l’europeo vede quell’isola come una follia isolazionista di cui non vuole far parte, riflettendo come molti in Europa vedevano Brexit Britain.

Infine, Lindisfarne rappresenta il sacro vs profano. Nome “Holy” ma in realtà il sacro lì è di facciata (ritratto della regina quasi come idolo, violenza ritualizzata nel rito di passaggio). Nel momento in cui Spike porta via Isla, quella sacralità ipocrita viene violata dalle fiamme dell’emporio incendiato – fuoco come purificazione e caos. E poi Isla, il cui nome richiama l’isola, muore e la sua testa finisce su un altare molto più sincero (il tempio di ossa). Quasi a suggerire che la vera sacralità stia nel riconoscere la morte e l’amore (Kelson’s temple) anziché aggrapparsi a vecchi simboli di potere (l’isola con i suoi cimeli reali). In altre parole, Lindisfarne come santuario fallisce (Isla muore lontano da lì), mentre un santuario nuovo (il tempio) compie il rito di passaggio genuino per Spike. Così Lindisfarne simboleggia anche l’insufficienza del rifugio sterile: non si può vivere per sempre isolati dal cambiamento e dalla verità.

Il tempio di ossa: memento mori e bellezza nell’orrore

Il tempio di ossa costruito da Kelson è forse il simbolo visivo più potente e originale del film, tanto che il sottotitolo del sequel sarà The Bone Temple. Visivamente colpisce per la sua macabra grandiosità, ma il suo significato va oltre il gore: è un luogo carico di simbolismo sulla mortalità, la memoria e il tentativo umano di dare senso alla distruzione.

In primis, il tempio è un gigantesco memento mori esplicito. Nell’arte e nella letteratura, i “memento mori” (ricordati che devi morire) erano oggetti o composizioni che servivano a ricordare la caducità della vita – teschi sul tavolo nei dipinti barocchi, ad esempio. Qui Kelson crea un’opera permanente usando direttamente le reliquie dei morti. Ogni osso incastonato nel tempio è la testimonianza di una vita stroncata dal virus. Invece di lasciare che i cadaveri si decompongano nell’anonimato, Kelson li trasforma in architettura, ossia in cultura, in struttura. Questo è già di per sé un simbolo: trasformare il caos in ordine – un ordine artistico, meditativo. Il tempio è quindi segno dell’anelito umano a strutturare l’esperienza della morte, a non farsi sopraffare dalla sua irrazionalità.

Poi c’è l’aspetto di sublimazione della violenza: i teschi, normalmente immagini macabre, qui compongono addirittura un monumento di bellezza cupa. La descrizione del Den of Geek parla di barocca, serena bellezza nell’oblio pieno di mostri. E la recensione ABC evidenzia la scena del teschio di Isla pulito con cura come “una delle cose più belle mai viste” in modo paradossale. Questo chiaramente simboleggia l’idea che perfino nella fine (soprattutto se affrontata con ritualità) c’è una forma di tranquillità estetica e spirituale. Il tempio è letteralmente un luogo di pace: Kelson lo dice, c’è bellezza e serenità in quell’oblio infestato di mostri. Sembra contraddittorio (“monsters” e “serenity”), ma il tempio concilia gli opposti: è costruito di resti violenti, ma in forma armoniosa e stabile. Ciò simboleggia la resilienza collettiva: anche dalle peggiori tragedie, l’umanità può ergere memoriali che diano conforto e insegnamento. Un parallelo nella nostra realtà sono proprio le Catacombe di Parigi citate: luoghi spaventosi ma anche turistici e affascinanti, segno di come integriamo la morte nella cultura.

Inoltre, il tempio di ossa, immerso nella foresta, evoca simbologie religiose e mitologiche trasversali. Ricorda i templi aztechi di teschi, i reliquiari medievali, ma anche le ossature di chiese gotiche (alcune ossarie esistono davvero, come la Chiesa di Sedlec in Repubblica Ceca decorata con ossa). Questo richiama l’idea di un culto alternativo: Kelson, volente o nolente, ha creato una sorta di religione della memoria. Il suo tempio è un luogo dove si va a commemorare e contemplare. Non è un caso che proprio qui Isla venga accolta e omaggiata. Diventa come un santuario laico dove Spike vive la sua catarsi. È l’opposto speculare della chiesa di pietra del prologo: lì un simbolo sacro (la chiesa cristiana) fu invaso e profanato dagli infetti; qui un luogo “profano” (un bosco qualunque) viene reso sacro dall’intenzionalità di ricordare i morti e dall’assenza di infetti all’interno (Kelson lo tiene sicuro). Il fuoco che arde al centro del tempio serve sia per la cremazione sia come luce – ricorda il fuoco sacro che in tante culture va mantenuto acceso nei templi come segno di vita eterna. Kelson è custode di quel fuoco, come un sacerdote. Il tempio di ossa quindi simboleggia anche la possibilità di una spiritualità nuova nell’apocalisse, costruita non su dogmi antichi (che nel prologo falliscono) ma sull’esperienza comune della mortalità e dell’amore perduto.

Quando Spike aggiunge il teschio di sua madre in cima, il tempio assume un significato personale: diventa un monumento all’amore oltre che alla morte. In quel momento il memento mori viene completato dal “memento amoris”. Dalle ossa – emblema di ciò che resta quando tutto è perduto – nasce un atto d’amore (il figlio che onora la madre). Dunque il tempio incarna la memoria stessa: ogni teschio racconta una storia che non va dimenticata, e finché qualcuno li guarda (Kelson e poi Spike) quelle persone in qualche modo vivono nel ricordo. Questo è un simbolo potentissimo su come gestiamo i traumi storici: il film sembra dirci che solo costruendo un memoriale (fisico o mentale) possiamo andare avanti senza ripetere gli errori. Ricordare i morti è ciò che differenzia una civiltà da una banda di disperati.

In contrapposizione, il culto dei Jimmy possiede anch’esso un luogo-simbolo, che intravediamo solo in parte: essi operano all’aperto e sembrano non avere un tempio, ma i loro costumi e la loro organizzazione implicano una sorta di spazio comunitario (magari avranno un rifugio decorato con poster di Savile o cimeli pop). Se il tempio di ossa è rivolto al passato tragico, il “tempio” dei Jimmy è rivolto a un passato falsato (anni ’70 spensierati). Quindi potremmo dire: tempio di ossa = ricordo autentico del dolore, culto di Jimmy = rimozione e celebrazione superficiale del passato. Sono due risposte opposte alla questione memoriale. Ed è affascinante che 28 Years Later ce li mostri entrambi in parallelo: quello saggio e oscuro di Kelson, e quello folle e kitsch di Jimmy.

In definitiva, il tempio di ossa funge da simbolo centrale di tutto il film: la condizione post-apocalittica come ritorno a una sorta di medioevo dove i monumenti sono fatti non di marmo ma dei resti della civiltà precedente – letteralmente resti umani. È un memento terribile: se l’umanità cade, i suoi monumenti saranno i suoi scheletri. Ma, sotto la guida giusta, anche quelli possono diventare insegnamenti per chi verrà. Quindi è un simbolo di monito ma anche di speranza morale: l’umanità, persino ridotta all’osso, può ancora produrre significato e bellezza. È un simbolo che tocca punte filosofiche profonde circa il nostro rapporto con mortalità e arte.

I costumi viola dei Jimmies: l’innocenza perduta e il mostro travestito

I costumi viola (o comunque sgargianti) e gli accessori dei Jimmies sono tra i simboli più ironici e inquietanti del film. Il loro aspetto – tute colorate, parrucche bionde lunghe, grossi gioielli d’oro – è la replica dell’iconografia di Jimmy Savile. Di per sé, questo visuale in un film horror post-apocalittico è straniante: sembra quasi carnevalesco, strappato da un contesto pop del passato. E infatti incarna proprio la dissonanza temporale e morale.

Da un lato, il viola brillante delle tute può richiamare il colore porpora tradizionalmente legato a regalità e liturgia. È come se i Jimmies avessero creato una nuova “nobiltà” o “clero” con le loro uniformi sgargianti. È un colore che spicca tra i grigi verdi del paesaggio morto, simboleggiando la volontà di riportare colore e spettacolo nel mondo cupo. Ciò potrebbe essere letto come un simbolo di speranza superficiale: portare gioia e ironia (il kitsch anni ’80) dove c’era solo disperazione. Ma la scelta di quell’estetica porta con sé il seme della perversione, poiché Savile era tutt’altro che gioioso nell’animo.

Le parrucche bionde lunghe e i gioielli uniformi indicano una volontà di omologazione identitaria. Tutti diventano “Jimmy”. Questo è simbolo di perdita dell’individualità in favore del culto. Invece di valorizzare le persone reali e i loro veri nomi (come fa Kelson mettendo i teschi senza nome ma preservando il concetto di ognuno fu una persona), qui si cancellano i propri nomi per assumere quello del leader/idolo. È l’apice della memoria distorta: non ricordano i singoli defunti, ricordano un personaggio di fantasia (per loro Savile è un mito, non sapendo la verità, è un personaggio semifictizio). Dunque i costumi dei Jimmies simboleggiano l’auto-inganno collettivo: si vestono da qualcosa di allegro e rassicurante per dimenticare chi sono e cosa hanno perso. I costumi sono anche protezioni psicologiche: come se travestirsi esorcizzasse la paura (un po’ come i bambini che indossano costumi per sentirsi forti).

In un contesto sociologico, quell’abbigliamento è una critica graffiante alla cultura pop britannica e al ruolo dei media. Savile era un prodotto e una colonna dei media britannici del XX secolo – venerato come icona pop/benefattore televisivo. Il fatto che la sua immagine ricompaia come culto in un mondo post-società suggerisce che anche dopo il collasso, i miti mediatici possono sopravvivere come pseudo-religioni. È un monito su quanto i media influenzino la memoria popolare: qui è portato all’estremo, letteralmente un culto cargo cult attorno a un presentatore TV. Questo è un simbolo tagliente: i Jimmies incarnano l’eredità tossica di un’informazione manipolata (nessuno li ha informati dei crimini di Savile, quindi loro perpetuano l’idolatria). Viene anche da pensare ai romanzi distopici in cui la pubblicità o la cultura pop diventano religione (tipo Idiocracy dove si venerano brand). 28 Years Later col culto di Savile sta dicendo: attenzione, se non elaboriamo criticamente la nostra cultura, essa può diventare superstizione futura.

Inoltre, c’è la dimensione per cui i Jimmies uccidono gli infetti e li marchiano “Jimmy” (come quello incatenato trovato da Spike e Jamie). Questo appare come un rituale oscuro: marchiare col nome del capo forse per esorcizzare la propria paura di morire come infetti. Simbolicamente, è come se cercassero di dominare la morte dando il nome del loro idolo ai mostri e poi uccidendoli. Tipo “ogni volta che un infetto muore con nome Jimmy, Jimmy Savile vince sul virus” – assurdo, ma nei culti i simboli funzionano così. Questo ribadisce come la loro approccio alla memoria è contorto: invece di ricordare i cari defunti, replicano all’infinito il nome di un estraneo.

I costumi dunque simboleggiano la maschera sociale collettiva: così come Savile mascherò i suoi crimini dietro un aspetto eccentrico e benevolo, il culto maschera la realtà brutale (sono giovani traumatizzati in un mondo di orrori) dietro un cosplay permanente da show televisivo. È tragico e sinistro allo stesso tempo. E nel film funge da ultimo shock: dopo tanto buio emotivo e serietà, vedere questi buffoni inquietanti appare quasi surreale – come se l’assurdità finale superasse l’orrore. Ci fa riflettere su quanto l’essere umano pur di non affrontare il proprio trauma può rifugiarsi nel ridicolo.

In chiave di simbolo dell’innocenza perduta, va sottolineato: Jimmy Savile lavorava con bambini, li faceva divertire, ed era percepito come “amico dei piccoli”. Ecco che dei bambini (come Jimmy Crystal all’epoca, e i suoi seguaci probabilmente anch’essi cresciuti orfani e allo sbando) recuperano quell’immagine perché era l’unica memoria felice dell’infanzia. Quindi i costumi viola rappresentano l’innocenza fraintesa: i Jimmies pensano di aver creato una “Neverland” spensierata, ma in realtà è una farsa guidata dal fantasma di un orco. È davvero l’immagine di un’innocenza corrotta: l’abito del clown nasconde il predatore, come fu per Savile, come chissà sarà per Jimmy Crystal (sarà diventato anche lui malvagio? Lo scopriremo).

A livello cromatico e scenico, quei costumi preludono a un cambio di tono: preludono forse a un sequel più focalizzato sul grottesco sociale che sull’horror intimo. Quindi come simbolo cinematografico, segnalano che l’orrore sta virando da personale a culturale: ora l’antagonista non è solo il virus, ma la follia dei superstiti. E questa follia è incapsulata in un look preciso.

Riassumendo, i costumi dei Jimmies sono il simbolo di: memoria distorta, identità di gruppo patologica, fuga dalla realtà e critica al potere tossico dei media/pop culture. Dove il tempio di ossa era sincero e austero, i costumi sono ingannevoli e sfavillanti – due modi opposti di affrontare i fantasmi del passato. Il film ci lascia con questo contrasto aperto, come due strade di fronte a Spike (e all’umanità): affrontare la verità della morte con rispetto, o mascherarla dietro spettacoli e bugie? È un quesito che ribolle sotto la superficie di quell’ultima scena.

Altri simboli: il virus, il fuoco, il neonato e la croce

Ci sono ulteriori elementi simbolici che meritano menzione, perché intrecciano vari livelli tematici del film:

  • Il virus stesso: oltre a ciò che approfondiremo nella sezione successiva (virus come metafora di rabbia e paura), qui lo citiamo come simbolo visivo: i contagiati dagli occhi rossi, la velocità frenetica, il sangue vomitato. Tutto in loro è simbolo di perdita di controllo e civiltà. Se nella tradizione zombie i morti simboleggiavano il conformismo consumista (Romero docet), qui i “Rage infected” simboleggiano l’odio puro e irrazionale che contagia società (pensate a follia collettiva, rivolte, ecc). Il virus è anche simbolo del peccato originale scientifico (nella saga fu creato in laboratorio come cura per la rabbia): è l’uomo che scatena i propri demoni interiori nel mondo. Quindi ogni infetto è la manifestazione delle peggiori pulsioni umane prive di freni.
  • Il fuoco: ricorre in diversi contesti. Il fuoco è distruzione (l’incendio iniziale del mondo, gli incendi per distrarre la comunità, le fiamme di Kelson). Ma è anche purificazione e segnale. Spike vede il fuoco di Kelson come un faro di speranza nel buio; i falò sull’isola sono momenti di comunità (festa) ma anche preludio a conflitti (Spike scopre tradimento). Il fuoco che Spike appicca per fuggire è l’atto con cui brucia i ponti col suo vecchio mondo (letteralmente mette a fuoco un pezzo dell’isola). Il fuoco di Kelson che brucia Isla ne purifica le spoglie e libera la sua essenza (teschio) per l’eternità del tempio. Insomma, il fuoco simboleggia trasformazione: brucia il passato, illumina la verità e consuma il corpo per liberare lo spirito. Il fuoco come arma (la molotov di Spike all’emporio, i dardi incendiari?) è l’ingegno umano in atto, mentre come elemento rituale (pira di Kelson) è la spiritualità.
  • Il neonato: la piccola Isla, nata da una infetta, è ovviamente simbolo di innocenza e speranza. In un film così cupo, la visione di un bebè che piange e viene salvato persino dall’infezione è un raggio di luce. Rappresenta la possibilità che la natura (o la provvidenza) dia all’umanità una seconda occasione: magari i bambini nati in questo mondo saranno immuni e potranno ricostruire senza il peso del virus. Simbolicamente è la rinascita: non a caso Spike la porta all’isola come un dono, come a dire “c’è un futuro, eccolo qui, va protetto”. Al contempo, quel neonato crea conflitto (Erik impazzisce) simboleggiando come la speranza pura fa paura a chi è accecato dal cinismo. Il fatto che Spike la chiami Isla suggella che la neonata è il ricordo vivente della madre, e in generale di tutti gli innocenti perduti. Il suo nome destinato all’isola e il suo crescere in quella comunità potrebbe cambiare Lindisfarne – portare freschezza nuova. Quindi è un simbolo di rinnovamento.
  • La collana con la croce: appare subito e riappare velatamente alla fine. La croce nel prologo è simbolo di fede e sacrificio (il padre la dà al figlio come protezione). Rappresenta la vecchia religione che però viene superata dagli eventi (Dio non salva il prete). La croce poi “riemerge” come feticcio di Jimmy? Forse la indossa lui ancora sotto la tuta? O appare su quel cadavere incatenato. Se quell’infetto nel cottage avesse la collana, significherebbe che Jimmy bambino fu morso ma incatenato e poi guarito? Improbabile. Più logico: Jimmy bambino perse la collana e uno degli infetti se ne impadronì (Kelson? Qualcuno l’avrà messa su quell’infetto come nome Jimmy? Difficile). Potrebbe essere un dettaglio aperto. Se la croce appare su un infetto marchiato Jimmy, è come se il simbolo sacro fosse stato appropriato dal culto (magari Jimmy la recuperò e la mette sui “sacrifici” infetti). In tal caso, la croce – segno di salvezza – diventerebbe strumento di un rituale profano, esattamente come Savile era un “santo falso”. Insomma, la croce smarrisce il suo significato originario e diventa pezzo di un gioco malato. Questo sarebbe un forte simbolo di perversione dei valori: l’oggetto che rappresentava amore e redenzione (il padre prete che salva Jimmy dandogliela) viene poi usato da Jimmy in un contesto opposto (forse per marchiare vittime o farne trofei). E se Jimmy la porta al collo come suo segno, sarebbe interessante: mescolerebbe sacro e pop (croce e tuta track). Un vero paradosso. In generale, la croce nel film simboleggia la speranza tradita (per Jimmy bambino non servì a evitare l’orrore) ma anche la memoria del sacrificio paterno. Rivederla su Jimmy adulto, se accade, sarebbe un drammatico promemoria di come lui abbia reinterpretato quell’ultimo dono (forse come segno che lui è “predestinato” a qualcosa? Magari vede la croce come lo scampato giudizio divino e ora lui è giudice? Congetture…).

Tutti questi simboli intrecciati creano un tessuto di significati che arricchisce 28 Years Later oltre la superficie del racconto di zombie. Non c’è quasi nulla nell’ambientazione che non abbia un doppio senso o un’eco culturale. Questo rende l’esperienza per lo spettatore attento incredibilmente stimolante: ogni scena invita a leggere tra le righe, a cogliere riferimenti e metafore. E tra tutti questi simboli, uno dei più pervasivi e fondamentali è proprio il virus e ciò che rappresenta sul piano concettuale – argomento a cui dedicheremo l’intera prossima sezione.

Il virus come metafora: rabbia repressa, paura collettiva, contagio psichico

Sin dal primo film della serie, il cosiddetto “rage virus” – un patogeno immaginario che scatena negli infetti un’ira cieca e violenta – è stato interpretato come una metafora potente. In 28 Years Later, dopo quasi tre decenni in quell’universo narrativo, il virus assume ulteriori significati allegorici, riflettendo non solo la furia individuale ma l’evoluzione di sentimenti e traumi a livello sociale. Qui esamineremo tre dimensioni metaforiche principali associate al virus: la rabbia repressa (individuale e collettiva), la paura collettiva (specialmente in contesto post-pandemico reale) e il contagio psichico (come emozioni negative e ideologie si diffondono socialmente). Queste chiavi di lettura si intrecciano, ma le affronteremo separatamente per poi coglierne la sintesi.

Rabbia repressa: il mostro interiore dietro quello esteriore

Già in 28 Days Later il virus era una concretizzazione biologica di un concetto psicologico: la rabbia incontrollata, l’aggressività primaria che la società civile tenta di imbrigliare. Nel nuovo film, il contesto di 28 anni dopo suggerisce che molta di quella rabbia originaria non è mai sparita, ma si è sedimentata e repressa nei sopravvissuti. I personaggi umani, come abbiamo visto, portano in sé collera e risentimento latenti (Jamie ne è esempio evidente). La presenza degli infetti all’esterno diventa quasi un mirror dei demoni emotivi all’interno degli animi umani.

Quando Den of Geek osserva che Jamie sembra “infetto da una rabbia che non ha bisogno di morsi o sangue per diffondersi”, centra la questione metaforica: il virus è anche uno stato d’animo. In quell’universo, milioni di persone hanno letteralmente perso la testa dalla rabbia; i pochi immuni tuttavia non sono esenti dal provare rabbia, odio, violenza. La differenza è solo di grado e di controllo. Ciò che il virus mette in scena è la paura di ciò che potrebbe succedere se perdessimo completamente il controllo delle nostre emozioni più oscure. Ed è significativo che in 28 Years Later compaiano gli Alpha – infetti ancora più forti, intelligenti e organizzati – come a dire che la rabbia può evolversi, diventare più pericolosa se nutrita a lungo (questi Alpha hanno avuto decenni per crescere e mutare). Simbolicamente, un’ira coltivata e nutrita (anche in senso sociale, pensiamo a rancori covati per anni in una popolazione) può trasformarsi in qualcosa di ancora più distruttivo: mostri intelligenti, sistemi di odio radicati. Un Alpha che strappa spine dorsali e guida altri infetti è quasi il ritratto di un leader violento emerso dalla massa rabbiosa – potrebbe alludere a figure dittatoriali o capipopolo sanguinari che nascono da un humus di rabbia collettiva.

Il virus della Rabbia in 28 Years Later può dunque essere letto come metafora della rabbia repressa che infine esplode. Gli infetti “Slow Lows” (quelli rotund e lenti) incarnano un altro tipo di rabbia: la rabbia “sopita” ma pronta a colpire quando sottovalutata (possiamo paragonarli a figure buffe tipo Boris Johnson che però diventano pericolose perché trascurate). Questo suggerisce che anche ciò che sembra solo goffo o innocuo (il “buffone”) può nascondere un potenziale di danno enorme se viene investito di potere – come un infetto pigro che poi magari attacca all’improvviso. È un commento pungente: la rabbia repressa a volte si maschera da benignità, finché non è troppo tardi.

In termini di personaggi, la rabbia repressa la vediamo liberarsi nel film non solo tramite i contagiati ma anche tramite atti di violenza degli immuni: Erik che spara impulsivamente alla madre infetta e minaccia il neonato – è un outburst di rabbia e paura miste che porta distruzione (lo uccide l’Alpha subito dopo: metafora poetica che la sua stessa aggressività cieca l’ha condotto a morte). Jamie col suo pugno sul tavolo e il tono furioso con Spike – piccoli focolai di quell’ira che cova. Spike stesso, nel colpire l’Alpha per vendicare la madre, mostra come la rabbia può contagiare anche un animo gentile se ferito abbastanza. Fortunatamente, Spike poi frena e non diventa spietato, ma il pericolo c’era.

Il virus come rabbia repressa appare anche a livello strutturale nella vicenda: Lindisfarne è una comunità che prova a reprimere la verità scomoda (Kelson è bandito, i traumi sono un po’ negati) e a vivere pacificamente, ma così facendo accumula tensioni sotto la superficie. Quando Spike porta Isla via, quell’equilibrio salta: la paura e la rabbia verso Kelson emergono, Jamie litiga col figlio, etc. Insomma, i conflitti latenti vengono a galla. Questo rispecchia come il virus, creduto fuori dall’isola, in realtà aleggia metaforicamente: c’è tensione in paese (ad esempio alcune righe di Fangoria citano “scene soffocanti non dall’assalto degli infetti ma dai brindisi alticci di locali benintenzionati ubriachi della promessa di un eroe”, chiaro rimando a una scena in cui la comunità celebra Spike: quell’euforia potrebbe degenerare in violenza se disillusa). Quindi Lindisfarne stessa è come una pentola a pressione: l’isolamento reprime i conflitti ma li carica di potenziale (che deflagra con la fuga di Spike e la morte di Isla).

Allargando il discorso: Boyle con questo film potrebbe metaforicamente parlare della rabbia repressa nella società britannica contemporanea – rancori sociali, classisti, politici che covano sotto la superficie di apparente civiltà e che possono esplodere in momenti di crisi. Già 28 Days Later era ambientato in un’Inghilterra con tensioni post-9/11 e fine era Blair; 28 Years Later allude chiaramente a tensioni post-Brexit e decenni di austerità. La rabbia di una popolazione impoverita, ingannata da leader buffoni, può trasformarsi in comportamenti bestiali – qui resi letterali dagli infetti. Così il virus è specchio di un malessere sociale: i britannici isolani di Boyle hanno tanta rabbia negli animi per come sono andate le cose (abbandonati dal mondo, ecc.) e quella si manifesta o internamente (Jamie) o esternamente (infetti). Persino il culto di Jimmy può essere visto come sublimazione grottesca della rabbia: invece di arrabbiarsi per il passato orribile (Savile che era mostro), la incanalano in adorazione – un meccanismo contorto per non affrontare la collera che dovrebbero avere verso quell’icona.

In conclusione di questo punto: il virus come rabbia repressa è ovunque in 28 Years Later. Ci ricorda che l’orrore più grande non è nelle creature in sé, ma nel furore cieco che quelle creature rappresentano, un furore che ci appartiene. E quando quell’odio non è riconosciuto e gestito, torna sempre a trovarci in forme mutate.

Paura collettiva: l’ombra dell’epidemia reale sullo schermo

È impossibile guardare 28 Years Later senza pensare alla recente pandemia di COVID-19 che il mondo ha attraversato (e che nel nostro 2025 è ancora fresca nella memoria collettiva). Non a caso, come riportato, Danny Boyle stesso ha dichiarato che la vera ispirazione del suo ritorno alla saga è venuta proprio dall’esperienza COVID. Il virus nel film, dunque, funge anche da specchio metaforico della paura collettiva vissuta dal pubblico reale durante la pandemia.

In 28 Years Later vediamo gli strascichi di una società che ha convissuto con un contagio mortale per decenni. Questo richiama immediatamente la sensazione di convivere con la minaccia invisibile che tutti abbiamo sperimentato con il coronavirus. Ci sono parallelismi evidenti: la quarantena forzata di un’intera nazione, la diffidenza verso l’esterno, i protocolli di sicurezza estremizzati (pensiamo a Erik e i militari con compiti di pattugliamento e la paranoia verso possibili contagiati). Anche l’assuefazione progressiva al rischio è mostrata: Jamie porta Spike sul continente come se ormai considerasse normale correre qualche rischio, un po’ come con COVID molti col tempo hanno allentato le precauzioni – esattamente ciò che Boyle sottolinea in interviste. La frase “gradualmente inizi a prenderti più rischi… e così fanno in 28 Years Later” è incarnata da quell’evento: portare un dodicenne a cacciare in territori infetti è come togliersi la mascherina troppo presto – un atto di fiducia/azzardo motivato da stanchezza e necessità di tornare alla normalità.

Il virus quindi simboleggia la paura collettiva ma anche la smemoratezza post-trauma: i sopravvissuti su Lindisfarne hanno dimenticato quanto sia terribile il virus, tanto che i ragazzini quasi lo sottovalutano o lo vedono come un rito folkloristico (il “battesimo del fuoco” di uccidere un infetto). C’è una riga in Fangoria: “non appena dimentichi le lezioni del passato, sei destinato a ripeterle”– riferito al parallelo Spagnola/Covid e al film. Nel film i britannici hanno in parte dimenticato – la nuova generazione non l’ha mai vissuto direttamente 28 anni fa. Così prendono rischi. Questo appare come monito: la paura collettiva scema col tempo, e con essa la prudenza, ma il pericolo potrebbe non essere finito. Non a caso, la seconda metà del film punisce quell’azzardo: Spike porta Isla fuori pensando “non succederà niente di troppo brutto”, e invece innesca eventi pericolosi. Questo rispecchia il timore reale che, passata la fase acuta di una pandemia, la gente si illuda che tutto sia normale mentre sottovaluta possibili ricadute.

Inoltre, il virus metaforicamente è la personificazione delle ansie invisibili che uniscono (o dividono) le persone. Nella quarantena, la presenza degli infetti al di fuori dell’isola è come l’invisibile virus nell’aria di Covid: spinge le persone a isolarsi, sospettare degli estranei (gli isolani temono i forestieri come Kelson o Erik, un po’ come durante la pandemia si guardava con sospetto chi veniva da fuori regioni/province). Kelson brucia i corpi quasi ossessivamente – come le sanificazioni estreme nel mondo reale. Quindi la paura collettiva generata dal virus nel film riflette quell’isteria igienica e ansia che conosciamo: disinfettare, evitare contatti, chiudere confini.

Tuttavia, 28 Years Later approfondisce anche il lato opposto della medaglia: la stanchezza della paura. Dopo 28 anni, molti personaggi sono stanchi di aver paura costante. Jamie rischia più del dovuto, Sam e altri preferiscono considerare Kelson “stregone” piuttosto che affrontare la realtà che magari lui sapeva il fatto suo (paura trasformata in superstizione). Questa stanchezza porta all’incoscienza, come in molti di noi dopo due anni di pandemia volevano solo tornare alla vita normale e magari hanno abbassato la guardia. Quindi il virus è metafora di quanto a lungo si possa vivere in allarme: non all’infinito. L’umanità “evolve” abbassando la guardia, e così succede nel film, con conseguenze drammatiche.

Un altro aspetto è la riflessione su come il virus sia stato strumentalizzato dal potere. Nell’universo del film, il governo britannico è crollato, ma restano implicazioni: l’Irlanda appare quarantinata? (non è menzionata, ma “British Isles” quarantene indica anche l’Irlanda). Comunque, la scelta di isolare UK fu drastica e decisa da poteri maggiori (NATO e altri come vediamo con la pattuglia svedese). Questo scenario può alludere ai governi che sfruttano la paura pandemica per controllare (certamente un argomento discusso in questi anni). 28 Years Later non approfondisce tanto la politica immediata, ma il sottotesto c’è: le persone comuni hanno subito le scelte altrui (Britain left behind). La paura del virus quindi simboleggia anche il senso di tradimento e abbandono da parte delle istituzioni, un sentimento reale post-Covid in alcuni settori (sfiducia, rancore).

La serie 28 ha sempre usato il virus come fattore scatenante per parlare di umanità (in 28 Weeks Later l’esercito USA uccide civili in quarantena per controllo del virus, riflettendo su orrori militari). In 28 Years Later, la presenza prolungata del virus ingigantisce il discorso: come una società traumatizzata dal contagio affronta il post, e come il post può essere persino più insidioso se non elaborato (qui quell’elaborazione mancata porta a culti bizzarri e isolamenti folli).

In sintesi, metaforicamente, il virus rappresenta la paura che unisce e divide la collettività. Unisce perché tutti la provano (sull’isola hanno costruito la comunità su quella paura comune degli infetti). Divide perché porta a sospetti reciproci e rottura di legami (Spike vs Jamie sulla questione rischio di cercare Kelson). Inoltre funge da promemoria che le lezioni del passato vanno ricordate, altrimenti l’umanità rischia di replicare catastrofi (il film letteralmente appare destinato a un’altra ondata di caos, data la conclusione aperta con un culto potenzialmente destabilizzante, preludio ad altri conflitti – come se avvertisse che i veri focolai non erano stati tutti spenti).

Contagio psichico: dalla rabbia al fanatismo, la diffusione dell’”infezione” emotiva

Oltre al piano della rabbia e della paura, il virus e il suo comportamento forniscono un chiaro parallelo con la nozione di contagio emotivo e ideologico. Un tratto caratteristico degli infetti in questa saga è la rapidità con cui perdono se stessi e attaccano indiscriminatamente chiunque vicino, trasmettendo così la malattia. Questo è analogo a come idee distruttive o emozioni tossiche possano diffondersi a macchia d’olio nella società.

Un esempio nel film: Jamie urla con rabbia a Spike, Spike reagisce poi facendo di testa sua – la rabbia del padre “infetta” metaforicamente il figlio spingendolo all’azione avventata. Oppure, quando Erik impazzisce e vuole uccidere il neonato, per un attimo cerca di trascinare Spike nel suo delirio (“dobbiamo farlo, è pericolosa!”) – un tentativo di contagio di panico/violenza di cui Spike per fortuna non rimane vittima. Ma vediamo in piccolo come uno stato emotivo acuto tende a propagarsi: la paura e l’aggressività di Erik quasi convincono Spike che forse quell’infante è un rischio (Spike la difende comunque, ma con tremore, segno che anche lui per un attimo teme il peggio).

Su scala collettiva, l’intera esistenza del culto dei Jimmies è un esempio di contagio psichico di massa. Un’idea folle (vestiamoci tutti come quell’uomo di spettacolo) si è diffusa e ha creato un’intera tribù unita da quella psicologia. È come un virus memetico: Jimmy Savile come meme culturale, replicato letteralmente negli abiti e comportamenti di molte persone. Questi giovani hanno interiorizzato la “memoria selettiva” (ignorano il male di Savile) e l’hanno replicata a vicenda, rafforzandosi l’un l’altro nella convinzione. Questo è molto analogo a come il fanatismo si propaga: un’idea fa presa su alcuni, che la trasmettono ad altri, e si crea un gruppo contagiato da una visione distorta. In questo senso, Boyle fa vedere che il vero “virus” dopo 28 anni non è solo quello biologico, ma l’ignoranza e la distorsione che si trasmette socialmente. La citazione di Business Insider su Boyle/Garland che dicono che il personaggio di Jimmy esplora il tema della memoria selettiva ne è la chiave: gli esseri umani possono “dimenticare” volutamente gli aspetti scomodi e far dilagare solo quelli rassicuranti, contagiandosi a vicenda con una versione falsa della realtà.

Il virus dunque è specchio di come certe emozioni (odio, rabbia) e certe idee (credenze fuorvianti) siano contagiose. La velocità con cui l’infezione trasforma una persona normale in un assassino rispecchia la facilità con cui, in situazioni di panico o fervore ideologico, individui comuni possono trasformarsi in linciatori, in fanatici. La saga 28 ha sempre sottolineato che “non sono veri zombie, sono persone vive molto arrabbiate” – ergo, il male viene da dentro l’umano, non da un cadavere de-personalizzato. Nella metafora, significa che chi si lascia contagiare dall’odio resta un umano, ma agisce come una bestia; proprio come in certe dinamiche di folla (pensiamo a sommosse, pogrom, ecc.) gente normale trascinata dall’onda emotiva compie atti atroci.

Anche il concetto di “pack” (branco) di infetti guidato dall’Alpha riflette una struttura sociale: i contagiati non sono disorganizzati come classici zombie, hanno dinamiche di gruppo quasi tribali. Ciò può far pensare a come un gruppo di individui invasi dalla stessa furia possa auto-organizzarsi in maniera pericolosa (ad esempio, movimenti paramilitari, gang violente, etc.). È come una sociologia del male: il virus li unisce in un branco con leader, analogamente le ideologie estreme uniscono persone in sette con guru. E infatti, guarda caso, anche i Jimmies operano come branco con leader – parallelismo tra infetti e cultisti ancora una volta.

Il “contagio psichico” è presente pure nella scena della festa sull’isola: l’euforia di alcuni diventa contagiosa e convincente per altri (il brindisi generale prima che Spike veda il padre con Rosie). Quella scena appare felice ma Fangoria la definisce “soffocante” perché dietro la facciata di giubilo c’è il fanatismo isolano: tutti compiaciuti dell’idea di un eroe che li salva uccidendo un mostro. È quasi un comportamento tribale di esaltazione – preludio a possibili derive violente, come in effetti poi succede in altri contesti.

L’elemento di psicosi collettiva è anche implicito nel titolo del prossimo film, “The Bone Temple”: se quel titolo suggerisce che il tempio di ossa potrebbe avere un ruolo centrale, magari più persone lo scopriranno e forse ne faranno un luogo di culto o contesa. Potrebbe emergere un conflitto tra due contagi ideologici: quello “memento mori/amoris” di Kelson vs quello fanatico dei Jimmy. Cioè, la diffusione di due visioni diverse su come ricostruire la società: una basata sul ricordare e celebrare con rispetto i defunti (Kelson/Spike), l’altra sul dimenticare i defunti e celebrare un idolo (Jimmy cult). Il fatto che Boyle parli di “mistakes of the past rooting the future’s dread” indica che i fantasmi storici (Savile e co.) contagiano il futuro se non affrontati.

Volendo allargare ancora: 28 Years Later è uscito in un periodo in cui si discute molto di infodemie e contagi di disinformazione (fake news virali, teorie cospirazioniste). Il culto di Jimmy può essere visto come una mega fake news (Savile era buono) che è diventata virale letteralmente. E la quarantena e isolamento possono ricordare come in situazioni di segregazione informativa nascono culti strani (c’è un parallelismo con QAnon in USA, gente isolata socialmente che su internet si è contagiata con ideologie bizzarre). Quindi il virus come metafora di come le idee virali possano devastare società è sicuramente presente.

Infine, a livello micro, c’è anche il concetto di contagio emotivo inevitabile tra persone legate: esempio, la disperazione di Isla contagiava di tristezza Spike e viceversa la sua speranza contagiava la madre. L’amore stesso è presentato come contagioso (in senso buono): Kelson dice “memento amoris” quasi a suggerire “lascia che l’amore ti contagi, non la rabbia”. Quindi in contrapposizione al contagio del virus (odio), c’è la proposta di un contagio emotivo positivo: l’amore e la pietà come virus benevoli da trasmettere. Spike portando la neonata a Lindisfarne potrebbe innescare quel contagio positivo (la bimba come simbolo amato da tutti, che scioglie rancori). Su quell’asse, virus/metafora, potremmo dire: se l’odio e la paura si diffondono, lo possono fare anche la compassione e la speranza, ma occorrono catalizzatori diversi (Kelson, Isla, Spike).

In conclusione, la saga 28 e questo capitolo in particolare usano il virus come uno specchio amplificato di fenomeni psicologici e sociologici. Rabbia individuale e sociale, paura di massa, isteria, fanatismo, contagio di idee: tutti questi elementi vengono drammatizzati nel comportamento dell’infezione e nelle reazioni ad essa. Questo rende il film molto più che un horror di mostri: lo rende un’analisi, seppur metaforica, di come le società crollano o si trasformano sotto la pressione di emozioni primarie e narrative condivise. La vera apocalisse, sembra dire Boyle, non è soltanto il virus fisico, ma l’infezione delle menti e dei cuori se non curata in tempo con comprensione, memoria e amore. E con questo in mente, passiamo a vedere come tali temi sociologici si esprimono ancor più chiaramente su un piano concreto nel film.

L’impatto sociologico: isolamento, comunità e trauma collettivo nell’Inghilterra post-pandemica

Oltre ai conflitti intimi e ai simboli, 28 Years Later offre una forte dimensione di critica e osservazione sociale. L’ambientazione – un Regno Unito in quarantena perenne, isolato dal mondo – è terreno fertile per riflessioni sul comportamento delle comunità in condizioni estreme, sulle conseguenze di decisioni storiche (esplicitamente Brexit come allegoria), sulle ferite collettive di un trauma prolungato e sul ruolo dei media e dei miti nella ricostruzione (o distorsione) della memoria storica. In questa sezione, esploreremo come il film affronta l’isolamento e la formazione di comunità alternative, il tema del trauma collettivo post-pandemico e della memoria storica, con riferimenti puntuali all’esperienza britannica recente: la Brexit, lo scandalo Savile, e più in generale il clima socio-politico e mediatico del Regno Unito degli ultimi decenni.

Isolamento e comunità: la società assediata sull’isola

L’isolamento forzato delle isole britanniche è uno scenario che offre un chiaro commento sociologico. Quando il film mostra che il continente europeo ha eradicato il virus mentre la Gran Bretagna è “lasciata al suo triste destino”, c’è una dichiarazione implicita: isolarsi, autoescludersi (o essere esclusi) può portare a degenerazione interna. Lindisfarne è il microcosmo di questo concetto: una comunità chiusa che ha trovato un suo equilibrio “medievale”, ma proprio perché chiusa tende al provincialismo, alla diffidenza verso il diverso (Kelson l’emarginato), a costumi arcaici brutali (il rito di passaggio quasi tribale). Boyle sembra chiederci: ecco cosa succede se una società si chiude in sé stessa per decenni, guardando solo al glorioso passato – regredisce. Non necessariamente perde la dignità (gli isolani sono persone perbene in fondo, cercano di vivere con principi), ma smette di progredire e diventa vulnerabile a minacce che altrove sarebbero gestibili (un dottore come Kelson altrove sarebbe ascoltato, lì è demonizzato, e ciò nega cure). Questa è una palese stoccata a quell’idea di “splendid isolation” britannica che la Brexit in un certo senso incarnava – il sogno di recuperare un passato di autonomia che però può diventare incubo di irrilevanza e arretratezza. Difatti Fangoria sottolinea: “il volto della Gran Bretagna è molto diverso dopo quasi tre decenni… un volto sfigurato da austerità, invecchiato”. E Lindisfarne letteralmente appare come un pezzo di passato malconcio.

Il rapporto con l’esterno è cruciale: i pochi contatti con il mondo (Erik e i militari NATO) finiscono male, segno di incomunicabilità. Erik rappresenta quell’osservatore europeo che vede negli isolani “dei pazzi selvaggi” e preferirebbe scappare. Questo rispecchia come, nel clima post-Brexit, alcuni europei hanno percepito i britannici come votanti autolesionisti e intrattabili, e viceversa come parte dell’opinione britannica vede l’Europa con sospetto. L’uccisione di Erik da parte di un Alpha poco dopo il suo arrivo può simboleggiare anche la fine brutale di quell’intervento esterno (metaforicamente, l’Europa non può salvare l’UK dall’UK stesso e dalle sue conseguenze). Così l’isola rimane sola.

La comunità isolana, pur con i suoi difetti, mostra però anche aspetti di solidarietà e adattamento. Hanno sviluppato ruoli (Jamie cacciatore, Rosie maestra, un consiglio di anziani citato con Jenny), preservano l’educazione (c’è una scuola!), mantengono tradizioni (festa, pub, credenze). Questo è uno spaccato di neo-tribalismo: quando la macro-società crolla, i sopravvissuti creano micro-società coese. C’è un gusto quasi antropologico nell’osservare Lindisfarne – ricorda The Wicker Man o comunità rurali eccentriche: isolati che sviluppano un miscuglio di superstizione (temono Kelson come stregone), patriottismo (reliquia della regina), e pratiche necessarie (far crescere i giovani come guerrieri). Da un lato ciò appare come critica (chiusura mentale), dall’altro c’è anche un tono affettuoso nel mostrare la semplicità agreste e la cooperazione. Il film definisce queste vite “positivamente medievali” con una certa meraviglia: la vita è dura ma c’è pace finché seguono le regole. L’ambivalenza è chiara: la comunità isolata è sia rifugio salvifico sia potenziale gabbia di arretratezza.

Il tema del comunitarismo vs individualismo è evidenziato quando Spike, l’individuo, infrange le regole comunitarie per motivi personali (salvare la madre). L’impatto sociologico qui è la tensione eterna tra bisogno di conformarsi per il bene comune e spinta a realizzare i propri bisogni personali (soprattutto se la comunità non li soddisfa, come la cura per Isla). Vediamo come la comunità reagisce: inizialmente non lo sanno subito, ma Jamie come figura autoritaria cerca di impedire l’iniziativa (minacciando Spike di non nominare Kelson). Questo riflette un aspetto delle società assediate: conformismo e controllo sociale intensificati. In situazioni di pericolo costante, le comunità tendono a stroncare il dissenso o l’innovazione per paura di destabilizzazione. È un fenomeno reale osservato in ambienti stressati (ad esempio, paesi in guerra sviluppano spesso intolleranza verso chi esce dalla linea, in nome della sicurezza).

Tuttavia, l’evoluzione finale suggerisce che l’apertura all’“estraneo” (il neonato proveniente dagli infetti) è paradossalmente la salvezza: portare quel bebè potenzialmente immunizzato e innocuo nell’isola è come reintrodurre nuova linfa. Quindi, sociologicamente, 28 Years Later propone che una comunità isolata per rinascere ha bisogno di contaminarsi positivamente col mondo esterno – esattamente il contrario dell’ideologia isolazionista. Il virus cattivo arriva dall’esterno, sì, ma anche la cura (il medico Kelson) e la speranza (la neonata) stanno fuori. Ciò appare una chiara allusione: chiudersi al mondo illudendosi di evitare i mali può precludere anche i beni (la scienza, lo scambio, l’innovazione). Ecco di nuovo un sottotesto pro-integrazione: il Regno Unito isolato perde risorse (Kelson non è col loro, la NATO li contatta a malapena) e rischia la stagnazione.

Altro angolo sociologico è il ruolo del trauma condiviso nell’identità comunitaria. Gli isolani sono uniti dal ricordo di due outbreak catastrofici. Questo li definisce: come i nostri nonni dalla guerra, loro hanno quell’ethos “abbiamo passato l’inferno insieme”. Ciò li rende coesi ma anche cauti al cambiamento. L’opposto sono i Jimmies, che formano comunità non sul trauma elaborato ma su uno strano escapismo (l’idolatria pop). Due modi di formare gruppi dopo un crollo: o col vincolo del dolore comune (Lindisfarne, che però rischia di incancrenirsi in nostalgia), o col vincolo dell’illusione condivisa (i Jimmies, gruppo apparentemente gaio ma fondato sulla falsità). Nessuno dei due sembra, per ora, il modo ottimale di ricostruire una società sana. Forse l’incontro/scontro di queste comunità (con in mezzo personaggi come Spike, Kelson) genererà nel prosieguo un terzo modo migliore.

Trauma collettivo, memoria storica e riferimenti alla realtà britannica

Abbiamo toccato come la quarantena di UK evochi Brexit e come Savile entri come simbolo culturale. Approfondiamo questi aspetti:

Brexit: Boyle stesso dice che la decisione di tornare alla saga fu ispirata da Brexit e dall’idea del “guardare indietro in modo regressivo”. Nel film la quarantena involontaria dell’UK è un’allegoria: quarantena reale = confini chiusi, autosufficienza forzata. “Volontaria” Brexit = confini chiusi volontariamente, isolazionismo. Il film accentua i lati negativi di ciò: un’isola mentalmente intrappolata nel passato (il fantasioso ritorno al “glory days” dell’Impero citato da Fangoriadove però ora sono derelitti). Anche il personaggio di Jenny nel consiglio isolano (nome generico, ma chissà, voluto come suono simile a “Britannia” o “Jenny” come common folk) e la presenza dell’effige della regina è un chiaro rimando al nazionalismo nostalgico. Boyle è noto repubblicano e critico di quella retorica patriottica vuota – qui appare come reliquia insensata (la Regina sorridente sul muro mentre loro vivono di stenti). E quando Fangoria nota che Boyle “si ricorda di essere repubblicano e rifiutò un titolo onorifico”, allude proprio al quadro di Elisabetta II che li osserva sereni mentre leadership reale/politica è inesistente ad aiutarli. Questo è un colpo a come il popolo è stato lasciato solo anche politicamente.

Savile: Jimmy Savile in questo contesto è come un sismografo morale del Regno Unito. La sua vicenda fu uno shock di memoria collettiva: dopo la sua morte venne alla luce che per 40 anni aveva abusato di vulnerabili, protetto da istituzioni e media compiacenti. Fu un trauma nazionale: come poté la società essere cieca o omertosa? In 28 Years Later, quell’evento è reinterpretato: se la società collassa prima di rivelare la verità, ecco che Savile rimane un eroe. Questo evidenzia una dinamica di rimozione storica. Ci dice: la memoria storica è fragile, dipende da chi racconta le storie. I cultisti Jimmy si tramandano un falso mito perché non hanno più giornali, investigatori o vittime che possano parlare. Così, Savile assurge a santo. Questo è un commento amaro sul ruolo dei media e del discorso pubblico: nella realtà, la BBC e la stampa tennero nascosto il caso per anni; nell’universo del film, quell’omertà non viene mai rotta. Dunque 28 Years Later amplifica il rimprovero alla società britannica: “guardate, se l’apocalisse fosse venuta un decennio prima, avreste venerato per sempre quell’uomo, senza mai sapere la verità”. È un invito implicito a riflettere su quante altre “idoli” o narrative in assenza di confronto critico possano percolare nel futuro come menzogne tossiche. Tra l’altro, Business Insider evidenzia che Danny Boyle conferma consapevolmente Savile come ispirazione e il tema della “memoria selettiva”. Dunque la presenza di Savile è una lente su come i traumi non elaborati (gli abusi coperti) possano reincarnarsi letteralmente come figure del male se non affrontati. Potrebbe anche esserci un parallelo: Savile cacciava vittime tra i vulnerabili; in un contesto post-apocalittico, un leader Savile-like potrebbe rivelarsi predatorio (forse Jimmy Crystal stesso abuserà del suo potere). Un rimando che i fan hanno colto: “Il finale è ancora più oscuro di quanto sembri” titolano siti come LadBible, perché appunto i protagonisti incontrano un male travestito da bene peggiore di zombie.

Media britannici e crollo di fiducia: con l’apocalisse, i media tradizionali non esistono più. Ma il film ricorda la loro esistenza passata con quel cameo dei Teletubbies (media per bimbi innocenti inconsapevoli del dramma dietro la porta). I Teletubbies del prologo servono da critica ai media: intrattengono e rassicurano mentre la realtà va a rotoli. Così come forse TV e giornali distraevano da verità scomode (es. Savile protetto), quell’immagine dice “guardavamo la TV mentre il mondo bruciava”. In un contesto post collasso, i superstiti come i Jimmies costruiscono i propri media e miti (pettegolezzi, leggende, memorie distorte). Questo evidenzia la funzione dei media come memoria collettiva artificiale: se saltano, restano solo memorie orali che si deformano. 28 Years Later così fa riflettere sul ruolo di chi narra la storia: i Kelson di turno provano a mantenere ricordi veri (templi, diari? Kelson avrà appunti medici?), i Jimmy di turno li riscrivono a proprio favore (costruiscono narrazioni convenienti). Per la Gran Bretagna, ciò allude alla battaglia su memorie storiche come l’impero, i crimini coloniali, le figure come Savile: c’è chi vuole ricordare onestamente e chi invece edulcorare. Nella quarantena, il lato edulcorato (Jimmy cult) prende piede perché rassicurante. Questo è un commentary sulle tendenze contemporanee di certa stampa o politica britannica di enfatizzare narrativa patriottica nostalgica ignorando capitoli bui (es. nostalgici coloniali vs chi ricorda le atrocità). Il film quindi ingrandisce: in un vuoto informativo totale, vincono i narratori più consolatori (anche se falsi). Un monito su come i media post-verità possano plasmare realtà se non c’è verifica.

Trauma collettivo: il film è permeato dalla tristezza di un paese traumatizzato (indicativo il titolo 28 Years Later – rimarca la durata di un trauma). I personaggi più giovani (Spike, i Jimmies) sono figli di un trauma che non hanno vissuto direttamente ma ne portano gli effetti (società collassata, genitori traumatizzati). Questo riflette situazioni reali come seconde generazioni dopo guerre o disastri, che ereditano PTSD genitoriali in forma di ansie, iperprotezione o al contrario incoscienza. Spike e i Jimmies mostrano due reazioni: Spike, cresciuto protetto e con affetti, ma in ombra di morte, ha paura ma anche curiosità – tipico figlio di traumatizzati che vuole capire il passato; i Jimmies, forse cresciuti senza guida stabile, reagiscono all’assenza di memoria inventandone una fantasiosa – fenomeno che può ricordare giovani che aderiscono a subculture radicali perché mancano di ancoraggi tradizionali (es. orfani di valori, cercano nuovi in miti digitali come QAnon o culti vari). Il film quindi indica che il trauma collettivo, se non affrontato con narrazioni sane e figure di supporto (Kelson?), lascia un vuoto dove crescono spettri (Savile-culto) o conflitti generazionali (Spike vs Jamie). La quarantena stessa è un trauma condiviso: come la pandemia Covid, costringe tutti a un sacrificio prolungato. Alla fine, 28 Years Later sembra mostrare che il trauma può evolvere in resilienza o in paranoia/follia, a seconda di come viene trattato. Lindisfarne tende alla paranoia (Kelson esiliato, rigidità), i Jimmies alla follia (escapismo settario), mentre figure come Kelson e Spike rappresentano la resilienza elaborativa (riconoscere il dolore, ricordare e trovare scopo oltre esso).

Riferimenti politici britannici: Fangoria fa una chiara analogia tra i “Slow Lows” infetti gluttoni e Boris Johnson – citandolo per nome con quell’immagine buffa (Johnson su zipline con bandiere). Questo è uno spunto sociopolitico: quell’infetto grasso, lento che pare innocuo simboleggia leader populisti eccentrici che la gente ha sottovalutato, salvo scoprire che la loro incapacità porta danni enormi (Brexit condotta in modo dilettantesco, etc.). L’articolo dice: “Come con i Slow Lows, abbiamo sottovalutato quel particolare brand di eccentrismo britannico e guarda dove ci ha portati”. Quindi, ancora un parallelo tra infetti evoluti e classi dirigenti: i mostri al potere. Non più virus accidentale, ma incompetenza e buffoneria come virus socio-politico. La quarantena potrebbe anche essere vista come la destinazione finale di quel percorso: Britain isolata e devastata (metafora iperbolica di un Paese indebolito dal decennio di austerità e divisioni interne post Brexit). Il film distorce ma la linea è lì: “facendo scelte sbagliate per decenni (il film menziona 3 decenni di diseguaglianze, austerity, sottomissione agli USA – “lapdog to a country that wouldn’t piss on us”forse all’essere cagnolino degli USA, citando l’antipatia di Boyle per Blair/Bush) vi siete ritrovati in un vicolo cieco, isolati e a pezzi – il mondo di 28YL”.

Sull’aspetto memoria storica: c’è anche l’immagine delle rovine e natura che riprende i luoghi, con un albero famosissimo di Sycamore Gap caduto recenetemente menzionato. Questo indica la riflessione su cosa rimane della storia umana se l’umanità si ferma. Lì le vestigia (castelli, chiese) restano, e i protagonisti adattano storie attorno ad esse. Quindi una riflessione: i monumenti (come quell’albero o un castello) possono sopravvivere e diventare “altari” per nuove narrazioni – es. Kelson costruisce attorno ai resti. La memoria storica reinterpretata è ovunque: l’isola santifica Elisabetta e demonizza Kelson erroneamente; il culto santifica Savile erroneamente; Kelson santifica i morti correttamente. In mezzo, i giovani come Spike devono scegliere quale storia seguire. Questo riflette come in UK oggi c’è dibattito sul come ricordare colonialismo, figure controverse, etc. Il film pone in scena drammaticamente i due eccessi (negare col passato immaginario vs ossessionarsi del passato macabro) e poi suggerisce un equilibrio (memento amoris – ricorda il passato con amore, ovvero impara ma non incattivirti).

In conclusione, l’impatto sociologico rappresentato in 28 Years Later è una critica multi-sfaccettata alla situazione e alla psiche collettiva britannica: isolazionismo e nostalgia portano stagnazione; traumi nascosti generano mostri; la cattiva leadership buffonesca è letale; il recupero sano passa per la memoria onesta e la solidarietà umana. Non è un messaggio ottimista, perché il film ci lascia ancora in mezzo ai guai (il culto incombente). Ma getta luce su ciò che bisogna evitare e ciò che bisognerebbe fare. In un certo senso, è come se Boyle attraverso la lente del genere volesse far riflettere la sua nazione: “Guarda in che incubo potremmo trovarci se continuiamo su certe strade – e quali valori invece potrebbero salvarci (l’amore, la verità, la comunità aperta)”. Ed è significativo che scelga la forma popolare del film horror per farlo, quasi a volere che questo discorso risuoni come monito emotivo nello spettatore, più che come saggio politico.

A questo punto, avendo esplorato temi e messaggi, ci rimane da considerare come 28 Years Later li esprime anche attraverso il suo stile registico: la regia, la fotografia, il suono, il montaggio – in altre parole, la componente formale che dà vita a questi contenuti con un preciso linguaggio cinematografico, quello inconfondibile di Danny Boyle.

Lo stile registico di Danny Boyle: estetica, suono, fotografia e ritmo emotivo

Danny Boyle è un regista noto per la sua versatilità stilistica e per la carica energetica che imprime ai suoi film. Con 28 Days Later aveva imposto un’estetica nuova al genere horror post-apocalittico – immagini sgranate da digitale MiniDV, montaggio febbrile, colonna sonora iconica – che influenzò profondamente il cinema successivo. In 28 Years Later, Boyle torna alle sue radici “infezionate” ma con quasi vent’anni di esperienza in più e con un mondo cinematografico evoluto attorno a lui. Il risultato è uno stile che al contempo richiama le origini (per compiacere i fan e mantenere coerenza) e sperimenta nuove soluzioni audaci per servire la storia e i temi. Analizziamo alcuni aspetti chiave: la fotografia e le scelte visive (incluse le tecnologie di ripresa), il montaggio e il ritmo, l’uso del suono e della colonna sonora, e l’atmosfera emotiva generale che Boyle costruisce, con i riferimenti stilistici che l’hanno ispirato.

Fotografia e ambientazione: dal digitale granuloso all’iPhone panoramico

Visivamente, 28 Years Later presenta un’evoluzione rispetto ai precedenti capitoli. Una delle scelte più interessanti è l’uso di riprese con iPhone 15 Pro Max da parte del direttore della fotografia Anthony Dod Mantle (lo stesso di 28 Days Later)abc.net.au. Questa decisione ricalca in parte lo spirito sperimentale dell’originale (che fu uno dei primi film ad alto profilo girato in digitale a bassa definizione), ma aggiornato al presente: oggi gli smartphone hanno camere potentissime e offrono un’estetica peculiare. L’uso dell’iPhone conferisce alle immagini un aspetto iper-reale e straniato: Dod Mantle riesce ad ottenere profondità di campo molto estesa, inquadrature grandangolari con nitidezza ovunque e colori accentuati quasi “radioattivi”. Questo crea una qualità visiva a tratti onirica: il paesaggio post-apocalittico appare limpido e definito, ma con un senso di irrealtà, come se fosse troppo perfetto e quindi inquietante. È diverso dalla patina sporca e sgranata di 28 Days Later, che trasmetteva immediatamente la sensazione di reportage crudo; qui l’effetto è più subdolo: l’immagine è bella, pulita, quasi surreale, e in quella nitidezza si percepisce che qualcosa non quadra (perché il contenuto dell’inquadratura è la natura selvaggia che ha riconquistato tutto, con relitti umani sparsi – uno scenario sublime e terribile). Questa scelta riflette il tema del film – bellezza nella desolazione – con il medium stesso: la camera dell’iPhone dà a ruderi e ossa una bellezza nitida, ma quell’eccesso di chiarezza può risultare angosciante. Una critica parlava di “un’eerie unreality… with deep focus, wide angles and sharp edges, colors turned into irradiated hues”, suggerendo un mondo leggermente allucinato.

Inoltre, il film adotta un aspect ratio panoramico (probabilmente 2.35:1 scope) – mentre iPhone di per sé girerebbe in 16:9, ma viene adattato – e questo panoramico risulta in contrasto con l’idea di “ripresa da telefono”. In pratica, immagini con look smartphone ma su schermo ampio cinematografico: un connubio che disorienta piacevolmente. Ciò serve anche per sottolineare i paesaggi aperti: molte inquadrature mostrano spazi vasti (le colline rigogliose, la spiaggia con il causeway, la radura del tempio, etc.), con i personaggi spesso piccoli nel frame. Questo comunica visivamente la loro vulnerabilità e la grandiosità indifferente del mondo intorno. Siamo lontani dalle strade claustrofobiche di Londra in 28 Days Later: qui la natura domina il quadro. E la fotografia ce lo fa sentire, con campi lunghissimi dove un infetto può comparire come un puntino all’orizzonte e poi farsi minaccioso via via (ad esempio l’Alpha che insegue sul ponte, ripreso anche da lontano per farci vedere la scena completa). Questo da un lato costruisce tensione (lo spettatore scruta gli angoli ampi per scorgere movimenti), dall’altro accentua il tema pastorale: l’Inghilterra è tornata verde e bellissima… se non fosse per quei mostri.

Un elemento visivo importante è il contrasto tra luce e buio. Molte scene a Lindisfarne sono luminose, diurne, con tonalità naturali vivide. Al contrario, la parte del bosco e del tempio gioca su toni notturni o comunque cupi, illuminati da fuochi e candele. La cinematografia dunque segue la narrazione emotiva: la prima metà ha un’atmosfera quasi idilliaca (per quanto tesa sotto la superficie) – i pomeriggi assolati sull’isola, i tramonti sul mare – che poi precipita nell’oscurità letterale quando Spike va sul continente (il tramonto durante l’inseguimento, la notte nella chiesa, il buio fitto nel bosco illuminato solo da torce e lumini nel tempio). Questa progressione di luminosità riflette il viaggio dall’illusione di sicurezza alla cruda realtà della morte. E quando torniamo all’alba finale con Spike da solo sulla spiaggia, c’è di nuovo luce ma è fredda, diafana, non più il caldo sole protettivo dell’isola. Insomma, Dod Mantle dipinge con la luce gli stati d’animo: colori caldi e sereni per la routine isolana (con punte quasi nostalgiche, come la luce di candela nella taverna), luci taglienti e bagliori di fuoco per l’orrore notturno.

Un tocco stilistico notevole è l’inserimento, come detto, di spezzoni di filmato d’epoca all’interno del montaggio. Durante la prima parte, vediamo in flash momentanei immagini di costume drama inglesi antichi, che servono da commento ironico e stilistico: Boyle letteralmente mette in scena il passato cinematografico per dire “queste persone vivono come se fossero in un vecchio film ambientato nel medioevo”. È un’operazione quasi di montaggio found footage o collage, che spezza la narrazione diegetica per un attimo per creare un parallelismo. Questo è molto in linea col suo stile playful: ricorda come in Trainspotting inseriva momenti onirici e citazioni pop. Qui però cita la storia del cinema britannico (vecchi cinegiornali? film in costume anni ’20), in un horror, creando un effetto straniamento che in realtà rafforza il tema: la vita su Lindisfarne è letteralmente come un archivio polveroso che prende vita.

La resa degli infetti merita menzione visiva: Boyle torna a rappresentarli con quella ferocia convulsa, ma anche con novità. I “rotund” lenti li vediamo strisciare – qui la fotografia li fa apparire quasi grotteschi, patetici (immagini come di bozzoli cascanti nell’erba). Gli “Alpha” invece vengono mostrati con angolazioni drammatiche: l’Alpha appare incorniciato contro l’orizzonte rossastro mentre insegue Spike – una posa iconica, quasi epica, per far percepire allo spettatore “questo non è uno zombie qualunque, è una creatura diabolica di un altro livello”. Probabilmente c’è anche l’uso di effetti pratici e make-up notevoli (un attore alto interpretava Samson), e la fotografia li valorizza con saturazione di rossi (gli occhi, il sangue) e dettagli raccapriccianti (la scena della decapitazione di Erik è filmata in modo viscerale). Interessante la scena di bellezza macabra: la pulizia del teschio di Isla. La ABC la descrive come mostrata in grande dettaglio, e “una delle cose più belle mai viste” nonostante la violenza. Ciò indica che Boyle indugia su quell’atto (immergere la testa incenerita, strofinarla, etc.) ma con una delicatezza che la fotografia rende paradossalmente poetica – come un rito di lavacro. Probabilmente colori caldi delle fiamme e inquadrature ravvicinate lente, in contrasto con la frenesia di altre scene. Questo sottolinea la versatilità tonale visiva: può passare da frenetico videoclip a quadro pittorico lento.

Montaggio e ritmo: tra adrenalina e contemplazione

Il montaggio in 28 Years Later si muove su due registri distinti, riflettendo la doppia anima del film (azione horror vs dramma riflessivo). Da un lato, come notato, Boyle ripropone la sua firma di editing frenetico e adrenalinico nelle scene di attacco degli infetti, richiamando 28 Days Later e le sue sequenze iconiche. Frame rapidi, camera a mano convulsa, tagli sincopati: tutti elementi che ritroviamo nelle scene di pericolo, come l’irruzione degli infetti nel prologo (sarà montata accelerata e confusa per far sentire il caos), o l’inseguimento sul causeway (forse con alternanza di riprese larghe e stacchi ravvicinati dell’Alpha e dei volti terrorizzati). Il Den of Geek cita espressamente che le scene con gli infetti rievocano “la propulsione del montaggio cinetico che definì il cinema indie britannico di fine ’90 e inizio 2000, come 28 Days Later e Trainspotting”. Quindi, aspettiamoci jump cuts, ritmi serrati e quell’effetto “stacco su movimento” che Boyle ama per aumentare l’ansia (ad esempio, camera che si gira di scatto verso un infetto e subito cut su un altro angolo come se la percezione fosse frammentata dall’adrenalina).

Tuttavia, Den of Geek aggiunge: “pur essendo frequenti, questi guizzi non sono il vero impulso creativo del film: 28 Years Later in realtà è interessato alla vita pastorale e a ritmi differenti”. Dunque, il montaggio non è uniformemente frenetico: vi sono ampie sezioni più lente e contemplative. Ad esempio, la vita quotidiana sull’isola viene mostrata con un ritmo piuttosto misurato: si osservano i lavori agricoli, i momenti di famiglia, magari con piani sequenza o comunque tagli lenti per farci entrare in quell’atmosfera pacifica (che però nasconde tensione). Così, quando poi c’è un improvviso scoppio di violenza (come l’attacco dell’Alpha), il contrasto ritmico è fortissimo ed efficace. Boyle sa usare benissimo questi contrasti: alternare quiete e esplosione per portare lo spettatore sulle montagne russe emotive. In 28 Years Later, ancor più che nel primo film, ci sono segmenti dilatati: per esempio, la parte con Kelson e Isla nel tempio è costruita per sospendere la frenesia e creare un crescendo emotivo lento, tragico. Il montaggio lì probabilmente rallenta notevolmente: lunghe inquadrature del dialogo, del rito di cremazione, quasi in tempo reale per far percepire il peso di ogni gesto. La recensione ABC conferma un cambio di passo: “Il film salva le idee più stuzzicanti per l’ultimo segmento; con un sequel in arrivo, questo lascia il film incompleto”, e lodano come il racconto umano rimane contenuto e soddisfacente. Ciò implica che, nonostante la presenza di azione, il cuore emotivo è montato con pazienza, permettendo agli attori e alle scene di respirare.

In generale, la struttura ritmica rispecchia quasi un crescendo-decrescendo musicale. All’inizio: shock del prologo (montaggio rapido), poi calma bucolica (montaggio lento), poi tensione crescente (inserimento elementi strani, montaggio accelera un po’ man mano che Spike e Jamie stanno sul continente, culminando nell’inseguimento – qui massima velocità), poi di nuovo un plateau di tensione e orrore (parte con Erik e l’Alpha – montaggio teso ma non velocissimo, un mid-tempo di thriller), poi rapida fiammata (Alpha decapita Erik – colpo di montaggio improvviso), poi arriva Kelson e la narrazione decresce in velocità e si approfondisce in intensità drammatica (il montaggio rallenta molto durante la diagnosi, la morte di Isla, il posizionare il teschio – qui magari lunghi silenzi e pochissimi tagli per rispetto). Dopo ciò, risale un’ultima volta per l’epilogo: l’assalto finale dell’Alpha (di nuovo tagli veloci in combattimento), concluso quello, di nuovo quiete (Spike che si allontana – forse ellissi di 28 giorni scorsa con montaggio lineare semplice per mostrare la sua routine), e poi l’apparizione dei Jimmies con un montaggio calibrato: qui forse invece di super velocità, la scena finale potrebbe essere montata in modo deliberato per generare suspense e stupore, magari rallentando il momento in cui li vediamo per dare tempo allo spettatore di realizzare la loro identità. Magari c’è un montaggio alternato con flash del prologo (il bimbo Jimmy) e l’adulto di fronte a Spike, per enfatizzare la rivelazione – Boyle potrebbe fare qualcosa di creativo in quell’istante (anche se non è esplicito se Spike capisce chi sia quell’uomo, ma lo spettatore sì).

Il ritmo emotivo dunque è scorrevole ma orchestrato: come un racconto al focolare con momenti di brivido. Boyle ama mantenere il pubblico coinvolto con variazioni continue. E qui è facilitato anche dalla durata del film moderata (115 minuti, quindi piuttosto serrato, non un’epopea da 3 ore). Critici notano solo come il finale risulti tronco, forse segno che il montaggio finale è più brusco (si chiude su un quasi-cliffhanger). Questo “moncone” narrativo è voluto (essendo 1° di trilogia), ma montaggiamente parlando, crea un unresolved rhythm: lo spettatore resta con un battito sospeso, come una sinfonia interrotta a metà cadenza. È un rischio calcolato: può lasciare qualcuno insoddisfatto, ma anche alimenta discussione (e attesa per il seguito).

Suono e colonna sonora: l’urlo della Rabbia e il sussurro della pietà

L’elemento sonoro è cruciale nell’esperienza di un film di questo genere. 28 Days Later aveva fatto scuola con i suoi contrasti tra silenzi spettrali (il protagonista che vaga in una Londra muta) e improvvise esplosioni sonore (l’attacco in chiesa con quell’urlo di infetto che fece sobbalzare tutti). E naturalmente con l’uso magistrale della musica, includendo il celebre brano “In the House – In a Heartbeat” di John Murphy che diventò la colonna sonora emotiva del film.

In 28 Years Later, la colonna sonora è affidata non a Murphy ma ai Young Fathers, una band scozzese dall’approccio sperimentale che mescola hip-hop, elettronica, gospel e pop. Questa scelta è già un segnale: ci si aspetta una colonna sonora eclettica, contemporanea, con contaminazioni tribali e avanguardistiche. I Young Fathers probabilmente portano un sound molto diverso: meno orchestrale, più beat-driven e vocale. Ciò potrebbe dare al film un’identità sonora unica. Per esempio, potrebbero aver creato un tema per gli infetti con ritmi martellanti e urla campionate, e magari un tema per l’isola con cori evocativi o percussioni tribali (ricordiamo che Lindisfarne ha retaggi celtici e i Young Fathers hanno radici anche afro-scozzesi: c’è possibilità che abbiano utilizzato sonorità etniche interessanti).

Il sound design includerà certamente gli iconici versi degli infetti – quell’urlo gutturale, quasi un ruggito, che nella saga è distintivo. Aspettiamoci momenti di quiete rotti all’improvviso da un latrato inumano in distanza, o da un colpo secco (ad esempio la jump scare del prete infetto nel prologo dietro Jimmy forse avverrà con un effetto sonoro brutale). Anche i suoni naturali giocheranno un ruolo: il vento sulla brughiera, le onde che coprono il causeway – suoni atmosferici che aumentano il senso di ambientazione. Nella recensione ABC, notano come il film resista a certi limiti del girato iPhone integrando droni e cineprese all’occorrenza, e parlano del suono: nominano Hildur Guðnadóttir come compositrice dello score in Den of Geek (erroneamente), indicando come la sua musica “avvolga quell’immagine del ragazzino e teschi con beatitudine”. In realtà la score è dei Young Fathers, ma magari Hildur comparirà nel sequel. Comunque la descrizione suggerisce che in quel momento (Spike sul tempio) la musica è solenne e coinvolgente emotivamente, quasi a portare pace (infatti Den of Geek dice “not rage but beatific surrender… enveloping the image of a boy staring at skulls”). Quindi i Young Fathers o chi per loro hanno creato una traccia in quel punto di intensità emotiva tale da dare i brividi in modo contemplativo.

Interessante pensare come potranno aver differenziato i temi musicali: potrebbe esserci un tema di “rabbia” (dissonante, rumoroso), un tema di “memoria” (magari un motivo malinconico ricorrente, forse con un coro o melodia folk celtica per l’isola?), e un tema “Savile/culto” magari ironico/disco? Sarebbe audace se i Jimmies avessero una sorta di motivo associato (magari prendendo un jingle di Savile come “Jim’ll Fix It” e distorcendolo? Potenziale ma non certo se abbiano i diritti o il coraggio di farlo).

Sicuramente, il film utilizza i contrasti sonori: silenzio vs cacofonia. Ad esempio, la sequenza di Isla che muore è quasi muta se non per il fuoco crepitante e una musica tenue, per poi magari essere seguita dal frastuono dell’Alpha che ricompare ruggendo. Oppure la festa nell’isola: rumorosa di canti e risate, contrapposta subito dopo dal silenzio di Spike che scappa di notte con la madre in barca (immagino quella scena con suoni ovattati, solo remi nell’acqua e respiri affannati, enfatizzando il clandestino).

Da menzionare il suono diegetico: armi medievali come la balista avranno suoni meccanici possenti (lo schwing del lanciare il proiettile e l’impatto nel corpo dell’Alpha, magari seguito dallo stridio della bestia). I fuochi di Kelson con i loro crepitii e i canti sussurrati (forse Kelson sussurra dei motti latini come “memento mori” – suono vocale rituale). E come i boati del mare (che infatti isolano Jamie e Spike). L’ABC evidenzia la transizione dall’audio ovattato del MiniDV all’audio crisp dell’iPhone e di come usano anche registrazioni di alta qualità ma mantenendo un feeling reale. Quindi i rumori ambientali immagino siano iper-definiti e inquietanti (un ramo che scricchiola nel bosco si sentirà chiarissimo e isolato, facendo sobbalzare per anticipo).

È interessante che Den of Geek erroneamente citasse Hildur Guðnadóttir, la nota compositrice di Joker e Chernobyl, la quale però è confermata per il sequel Bone Temple, non per questo. Forse Den of Geek ha visto anteprima con una traccia temp? O i Young Fathers hanno collaborato con Hildur in parte? Non chiaro. Comunque, Hildur è nota per suoni cupi e droni. Non impossibile che i Young Fathers abbiano anche usato toni simili.

A prescindere, l’aspetto sonoro sarà determinante per creare il ritmo emotivo: ad esempio, quell’ultimo shot con i Jimmies – c’è musica? Forse uno shock di silenzio per far emergere solo il suono degli strumenti primordiali (le lance colpire infetti, il respiro di Spike), poi un suono crescente inquietante mentre appare Jimmy sorridente, magari concluso con un abrupt cut to silence sui titoli di coda (per lasciare appesi).

Boyle e i suoi sound designer sanno come manipolare l’udito per il brivido: in 28 Days Later la scena in galleria col gocciolio di benzina e poi i topi fu magistrale. Qui potrebbero avere sequenze analoghe (ad esempio Spike e Isla nella chiesa col silenzio rotto da un passo dietro l’altare).

Atmosfera emotiva e influenze stilistiche: dal gotico al folk horror

L’atmosfera di 28 Years Later risulta da tutti questi elementi combinati: è un film che mescola horror gotico, folk horror, action e melodramma intimo. Boyle cita il “medieval pageantry” come ispirazione, e infatti c’è una vena di gotico medievale: il tempio di ossa rievoca i memento mori medievali, Lindisfarne con il suo castello e i suoi riti richiama un villaggio gotico, la presenza del “santone” Kelson nella foresta ha echi da Cuore di Tenebra (Fiennes è definito “Kurtz-like” dalla ABC). Allo stesso tempo, l’imagerie di folk horror britannico affiora: isole remote, culti sinistri (i Jimmies ricordano vagamente la degenerazione di comunità in storie come The Wicker Man, sebbene qui siano altrove; anche il motivo di sacrificare e venerare i teschi ha toni pagani).

Boyle è abile nel fondere i generi: ad esempio, la recensione Den of Geek nota come questo film non è tanto “modern horror” quanto un ritorno a un mood barocco e contemplativo, con persino momenti di tranquillità macabra. Questo richiama registi come Guillermo del Toro (che sa trovare bellezza nel gotico) o i classici Hammer (immagini come torri di teschi sono molto The Devil Rides Out o The Skull per i culti satanici). Ma Boyle non perde la sua identità moderna: quell’utilizzo di musica contemporanea e i riferimenti pop (Savile, Teletubbies) donano una patina postmoderna. Il film quindi ha un’atmosfera tutta sua: un medievalismo punk, potremmo dire.

Le influenze stilistiche possono includere anche Apocalypse Now (il personaggio di Kelson e la giungla di morte ricordano Kurtz nel suo regno di teschi – e infatti gli articoli notano il parallelo). C’è un sentore di video game horror come Resident Evil (citato esplicitamente per gli Alphas). Boyle gioca con quell’estetica: spina dorsale strappata come in un fatality di videogame, infetti come boss – sembra quasi strizzare l’occhio al pubblico videoludico, creando scene esagerate apposta, come a dire “guardate, ora la saga è andata in modalità boss fight gotica”.

Eppure, lungi dal diventare un cartoon, l’atmosfera emotiva è molto seria e toccante nei momenti giusti. La performance degli attori (Comer, Fiennes, Taylor-Johnson) è evidenziata come eccellente, con Comer in particolare lodata per trasmettere la fragilità e la forza di Isla. Ciò significa che Boyle dà spazio a recitazione e pathos: l’atmosfera in quelle scene è intima, quasi sacra. Per esempio, mentre Isla è confusa a letto e cerca lo sguardo di Jamie o i ricordi di Spike, Boyle probabilmente minimizza gli artifici visivi per lasciar parlare i volti (telecamera stabile, primi piani commoventi). Questi momenti costruiscono un legame emotivo forte tra spettatore e personaggi, che poi rende ancor più efficace l’atmosfera di orrore quando li minaccia.

Insomma, lo stile di Danny Boyle in 28 Years Later riesce a essere al contempo vigoroso e contemplativo, modernissimo e antico. Egli impiega tutte le tecniche a disposizione – dalle innovazioni tecnologiche (iPhone, droni) alla conoscenza dei generi – per creare un’esperienza immersiva e suggestiva. Non punta al semplice spavento jump-scare (anche se ci saranno di certo momenti spaventosi), ma mira a un horror atmosferico che rimane sottopelle. Ci sono momenti che, come dice ABC, sono “inaspettatamente teneri” nel bel mezzo della brutalità, e momenti che tolgono il fiato per tensione. Questo ritmo emotivo orchestrato è la firma di Boyle: lui vuole che si passi dalla paura al pianto alla riflessione quasi senza accorgersene.

In conclusione, lo stile registico di Boyle in questo film è quello di un autore ormai padrone dei mezzi, che gioca con la forma per servire la sostanza. E la sostanza è un viaggio emotivo e simbolico che, come abbiamo visto, va oltre i confini del genere. Boyle sa intrattenere – qui lo fa con sequenze d’azione e shock – ma soprattutto sa ispirare e far pensare, e lo fa con la macchina da presa, il montaggio, il suono, costruendo una voce cinematografica unica. Una voce che, pur evolvendosi, conserva l’anima appassionata e “guerrigliera” dei suoi esordi (ricordiamoci che 28 Days Later fu quasi un film guerrilla per come venne girato nelle strade vuote). In 28 Years Later, quell’energia iniziale non è persa: è filtrata attraverso un occhio più maturo, quasi contemplativo, che riesce a trovare bellezza nell’orrore e orrore nella bellezza. In termini di esperienza per lo spettatore, questo significa un film che non solo si guarda, ma si vive: con il fiato sospeso, il cuore in gola, e magari una lacrima pronta a scendere inaspettata tra un urlo e l’altro.

Conclusione

Alla fine di questo lungo viaggio tra i meandri di 28 Years Later, emerge l’immagine di un film che è molto più della somma delle sue parti horror. Danny Boyle e Alex Garland hanno confezionato un’opera che intrattiene con il suo ritmo teso e i suoi brividi, ma che soprattutto invita a riflettere. Combattendo contro infetti e incubi, i personaggi mettono in scena drammi umani universali: il dolore di un padre che non sa esprimere il proprio amore se non attraverso la rabbia, la devozione di una madre pronta a morire per proteggere suo figlio, il cammino di un ragazzo che perde l’innocenza e trova una nuova identità nel ricordo dei suoi cari. Sullo sfondo, una società isolata e ferita cerca di darsi spiegazioni e speranze, oscillando tra la tentazione di rifugiarsi nelle illusioni del passato e la necessità di affrontare le verità dolorose del presente.

28 Years Later mescola sapientemente piani differenti. È una storia di sopravvivenza e formazione – seguiamo Spike nel suo “romanzo di crescita” fatto di sangue e resilienza. È un thriller apocalittico adrenalinico, con sequenze di attacchi e fughe che fanno balzare lo spettatore sulla sedia. Ma è anche un affresco sociologico sull’Inghilterra e, per estensione, sul nostro mondo reduce da crisi: parla delle cicatrici invisibili che eventi epocali lasciano nelle comunità, e di come le persone tentino di guarirle (a volte in modi sbagliati, a volte con toccante umanità). Il virus della Rabbia diventa specchio di tanti “virus” dell’animo e della società: il rancore, la paura, la violenza, ma anche – nel suo rovescio, nel suo antidoto – l’amore e la memoria che ci tengono umani.

La voce che emerge dal film è quella di un critico appassionato e profondo, per riprendere la metafora con cui abbiamo condotto questo saggio. Attraverso le immagini e la narrazione, Boyle sembra porci delle domande: Cosa succede a un popolo che erige muri attorno a sé e al proprio dolore? Quanto a lungo si può reprimere la rabbia prima che diventi un mostro? Come ricordare i morti – con venerazione onesta o distorcendone il ricordo per comodità? E ancora: cosa significa davvero sopravvivere? È sufficiente essere vivi, o servono comunità, affetti, significati condivisi?

Non ci sono risposte facili. 28 Years Later offre alcune tracce: ci mostra che la vendetta cieca e la rabbia conducono solo ad altro spargimento di sangue (Erik, consumato dalla paura, ne è un esempio). Ci mostra che l’attaccamento e l’amore, per quanto possano condurre a scelte dolorose (Spike che deve lasciare la madre andare), sono ciò che alla fine dà un senso alla lotta. Il tempio di ossa, con quell’inscrizione ideale di “memento amoris”, rappresenta forse la filosofia ultima del film: ricordati dell’amore anche in mezzo all’apocalisse, perché è l’unica cosa che ti distingue dai mostri. La piccola neonata Isla, frutto innocente di due mondi (quello infetto e quello umano), è un segno che perfino dal ventre della tenebra può nascere la luce, se c’è qualcuno disposto a prendersene cura.

Sul piano cinematografico, 28 Years Later avvolge questi messaggi in un’esperienza sensoriale avvincente. La regia di Boyle danza tra silenzi carichi di tensione e rapide stoccate di orrore, tra la crudezza documentaristica delle scene d’azione e la liricità quasi onirica di momenti contemplativi. È un film che a tratti inchioda al terrore primordiale (l’inquadratura di quell’Alpha imponente rimarrà incisa nella mente dello spettatore), e a tratti commuove con delicatezza (il volto di Isla che, prima di morire, ritrova per un attimo se stessa guardando suo figlio). La colonna sonora dei Young Fathers – fatta di ritmi tribali, voci lontane e note emozionali – sottolinea questo oscillare di stati d’animo, ora facendo pompare il sangue nelle tempie, ora cullando in un abbraccio malinconico.

Alla luce di tutto ciò, 28 Years Later si propone come un saggio cinematografico travestito da film di genere: intrattiene come un horror post-apocalittico, ma in filigrana racconta un pezzo dell’animo umano e della società contemporanea. Chi lo guarda senza cercare nulla oltre la superficie troverà comunque una storia avvincente e ben congegnata; ma chi si lascia coinvolgere in profondità scoprirà un ricco sottobosco di simboli e significati che solleticano il pensiero. In questo senso, l’opera riflette lo stesso approccio che abbiamo tenuto in questo scritto: unire analisi e narrazione, testa e cuore, per offrire un’esperienza completa.

Mentre scorrono i titoli di coda, rimaniamo con molte immagini potenti nella mente: un bambino che corre stringendo una croce tra grida disumane, un’isola verde circondata da un mare minaccioso, una madre che sorride al figlio tra le lacrime prima dell’addio, un ragazzo in cima a una torre di teschi illuminata dal fuoco, e un uomo in tuta viola che emerge dal nulla con un sorriso ambiguo. Sono immagini che difficilmente dimenticheremo. E forse, riflettendo su di esse, faremo anche noi un piccolo “memento”: ricorderemo di non dare mai per scontato il confine sottile che separa la civiltà dalla barbarie, la memoria dalla dimenticanza, la rabbia dalla follia – e, soprattutto, ricorderemo quanto sia fondamentale, perfino nel buio più profondo, aggrapparsi a ciò che ci rende umani: l’amore, la compassione e la capacità di dare un senso alle nostre storie, anche le più dolorose.

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