
Introduzione
In un mondo che premia la produttività frenetica e l’esposizione costante, silenzio e inazione possono sembrare sinonimi di passività o rinuncia. Eppure, scegliere il silenzio o il non-agire in modo deliberato è tutt’altro che arrendersi: può rappresentare un atto di profonda volontà e autodeterminazione. La scelta attiva di non intervenire, di fare un passo indietro o di tacere, spesso richiede coraggio e consapevolezza. Significa resistere alle pressioni esterne di fare e dire a tutti i costi, per dare spazio all’essere e al riflettere. Questo saggio esplora il paradosso solo apparente di silenzio e inazione come forme di agency, ovvero come atti voluti e dotati di senso. Attraverso una prospettiva psicologica e psico-sociale, verranno analizzati i diversi volti di questa scelta: dal suo ruolo salutare per la mente e il sistema nervoso, alle sue radici culturali e spirituali, fino alle implicazioni sociali e cliniche nella vita contemporanea.
Nel corso dei paragrafi seguenti vedremo come il non-desiderare e il non-agire possano costituire risposte adattive, antidoti a un mondo iperattivo. Esploreremo la storia del silenzio e della contemplazione – dalle pratiche monastiche antiche alle odierne forme laiche di mindfulness – e capiremo come l’inazione volontaria possa diventare una forma di resistenza in una società del “fare” incessante. Considereremo inoltre gli effetti benefici del silenzio e della quiete sulla salute mentale e fisica, grazie alla loro capacità di regolare il nostro sistema nervoso sovraccarico. Attraverso esempi concreti, sia letterari che reali (clinici o appartenenti a vissuti queer), incontreremo figure che hanno abbracciato il ritiro, la lentezza o l’invisibilità come atto di libertà personale. Infine, discuteremo del “peso” sociale del non esserci – in termini di stigma e pressioni alla visibilità – e affronteremo prospettive cliniche come il burnout, la “depressione attiva” e la crisi del desiderio. Lo scopo è trarre conclusioni su come recuperare uno spazio sano e vitale per il non-desiderio, la contemplazione e la sosta, integrandoli nelle nostre vite iperconnesse.
Il tono adottato sarà insieme narrativo, clinico e filosofico: intrecceremo riflessioni teoriche con storie ed esempi, per illuminare le molte dimensioni di un tema tanto controcorrente quanto necessario. Prepariamoci dunque a rivalutare il silenzio – da segno di assenza a presenza ricca di significato – e a riscoprire l’arte di non agire quando l’azione non serve.
Psicologia del desiderio, del non-agire e del ritiro come risposta adattiva
Alla base del comportamento umano vi è il desiderio: vogliamo, inseguiamo obiettivi, ci muoviamo per colmare mancanze. La cultura contemporanea celebra il desiderio come motore del progresso personale – bisogna avere ambizioni, sogni da realizzare. Eppure, la psicologia ci insegna che desiderare incessantemente può diventare una trappola di insoddisfazione. Ogni desiderio appagato tende a essere rimpiazzato da un nuovo bisogno, in un ciclo infinito. In questo contesto, saper non-desiderare (ossia accettare il momento presente senza aspirare costantemente a qualcos’altro) può rivelarsi un’abilità preziosa per il benessere. Tradizioni spirituali come il Buddhismo lo affermano da millenni: l’attaccamento bramoso è origine di sofferenza, e il lasciar andare il desiderio conduce alla liberazione interiore. Dal punto di vista psicologico occidentale, questo concetto trova eco nelle pratiche di accettazione e mindfulness, che insegnano a osservare pensieri e impulsi senza reagire automaticamente. Imparare a tollerare il “vuoto” di un desiderio non immediatamente appagato – o addirittura la sua assenza – può sviluppare resilienza emotiva e ridurre l’ansia da prestazione.
Il non-agire intenzionale, lungi dall’essere pigrizia, è spesso indice di maturità emotiva. Nelle situazioni conflittuali, ad esempio, saper non reagire impulsivamente a una provocazione può prevenire escalation e danni nelle relazioni. Fermarsi, fare un respiro profondo e decidere di non fare nulla nell’immediato è una strategia di coping: concede tempo al cervello razionale di riprendere il timone rispetto al cervello emotivo. La psicologia cognitiva mostra che la nostra mente ha un “bias all’azione” (tendiamo a pensare che fare qualcosa sia meglio che stare fermi durante un problema), ma molte volte agire d’impulso peggiora la situazione. Praticare l’“inerzia strategica” – ad esempio rimandare di 24 ore l’invio di una risposta a un’email irritante – può evitare errori e permettere soluzioni più ponderate. In tal senso, l’inazione diventa un atto positivo di autocontrollo e saggezza, anziché un deficit. Come notava lo psicologo Viktor Frankl, “tra lo stimolo e la risposta c’è uno spazio”: scegliere di sostare in quello spazio, anziché reagire subito, è dove risiede la nostra libertà e crescita.
Anche ritirarsi temporaneamente da situazioni stressanti può costituire una risposta adattiva e sana. In psicologia si parla di coping evitante in senso negativo quando una persona sfugge sistematicamente ai problemi; ma esiste un ritiro adattivo quando allontanarsi è fatto per autodifesa e rigenerazione. Ad esempio, prendere le distanze da un ambiente tossico di lavoro o interrompere per un periodo una relazione conflittuale può servire a proteggere la propria stabilità mentale. Similmente, ritirarsi dalla frenesia sociale per qualche tempo – staccare la spina – consente di ridurre la stimolazione eccessiva e ritrovare l’equilibrio. La chiave perché il ritiro sia benefico è la volontarietà: come evidenziato dagli psicologi, la solitudine scelta è ben diversa dalla solitudine subita. Se una persona si isola perché si sente rifiutata (solitudine non voluta), può sperimentare sentimenti negativi; ma se sceglie attivamente di stare sola per un po’, quell’isolamento diventa solitudine positiva o produttiva. Studi sul benessere hanno confermato che l’esperienza della solitudine dipende dal controllo percepito: “il fattore determinante tra solitudine benefica e solitudine dolorosa è la volontarietà con cui la persona la vive”, affermano Long e Averill.
In altre parole, quando il ritiro è una scelta, può dare un senso di libertà (sei libero dalle richieste altrui), favorire la creatività, la spiritualità e perfino migliorare le relazioni (ci si riavvicina agli altri con più autenticità dopo essersi ritrovati da soli).
Un esempio di ritiro adattivo è il time-out emotivo: allontanarsi in silenzio da una lite per calmarsi prima di tornare a dialogare. L’apparente inazione (non rispondere sul momento all’attacco verbale) è in realtà un’azione protettiva: serve ad abbassare la tensione fisiologica (battito accelerato, adrenalina) e a prevenire comportamenti aggressivi di cui ci si potrebbe pentire. Questo tipo di non-azione è dunque profondamente attivo sul piano della regolazione emotiva. Un altro esempio è la pratica contemplativa: restare immobili e in silenzio in meditazione sembra “non fare nulla”, ma a livello interiore è in atto un processo di osservazione e trasformazione della mente. Nella filosofia taoista esiste il concetto del “wu wei”, spesso tradotto come non-agire o azione senza sforzo. Esso non incita all’inerzia totale, bensì a muoversi in armonia col flusso degli eventi, evitando interventi forzati o inutili. Paradossalmente, attraverso il “non-agire” intenzionale si realizzano azioni più efficaci e naturali. In un contesto psicologico moderno, questo può essere paragonato allo “flow”, lo stato di flusso in cui le nostre azioni scorrono spontanee senza sforzo cosciente. Non forzare continuamente la realtà e i propri desideri, ma assecondare i ritmi naturali (inclusi i propri bisogni di riposo e pausa) può portare a soluzioni creative che sfuggono a chi è sempre in azione convulsa.
In sintesi, dal punto di vista psicologico il silenzio e l’inazione intenzionali non sono sintomi di pigrizia o vuoto di motivazione, bensì strategie complesse di autoregolazione. Saper dire “mi fermo” di fronte a un desiderio compulsivo o a una situazione caotica richiede capacità di riflessione e auto-consapevolezza che si sviluppano con il tempo. In un’epoca dominata dall’imperativo del fare, recuperare il diritto di non fare equivale a rivendicare la propria umanità al di là della performance. La psicologia del desiderio insegna l’importanza dell’equilibrio: come l’appetito fisico ha bisogno di sazietà, così l’appetito mentale ed emotivo ha bisogno di momenti di quieta appagamento, in cui non si rincorre nulla e ci si sente completi nell’hic et nunc.

Storia culturale e filosofica della contemplazione e del silenzio
Il valore del silenzio e della contemplazione ha radici antiche e profonde, intrecciate con la storia delle religioni, della filosofia e della cultura. Nelle epoche passate, quando il frastuono tecnologico e informativo di oggi era inimmaginabile, il silenzio era una componente naturale dell’esistenza e un terreno fertile per lo spirito. Già nelle società preistoriche, il silenzio aveva un significato: serviva agli antenati per ascoltare i suoni della natura, per osservare con attenzione l’ambiente e cogliere segnali vitali. Era tutt’altro che assenza: piuttosto un spazio tra i suoni, ricco di potenzialità. In contesti rituali arcaici, momenti di silenzio segnavano la soglia del sacro – si pensi alle cerimonie sciamaniche in cui tacere significava onorare una presenza invisibile o lasciare spazio alla voce interiore.
Nel mondo antico, diverse scuole filosofiche esaltarono la contemplazione silenziosa come via di sapienza. Pitagora avrebbe imposto ai suoi discepoli un periodo di cinque anni di ascolto silenzioso prima di poter parlare nelle sue lezioni, convinto che il silenzio fosse condizione per recepire la verità. Socrate e la tradizione dei filosofi greci valorizzarono il silenzio dell’ascolto attento: il maieuta di Atene sapeva trarre le risposte dagli interlocutori più con il silenzio e le domande aperte che con discorsi pomposi. Gli Stoici, come Marco Aurelio, consideravano il silenzio una pratica per coltivare la padronanza di sé: “parla poco e bene” era la massima, perché il chiacchiericcio è nemico dell’introspezione. Nella Roma imperiale, figure come Seneca meditavano in silenzio quotidianamente, osservando che “parte del tempo ci viene rubata dall’invadenza altrui, parte dalla nostra stessa frivolezza”: ritirarsi in quiete era dunque un modo per riprendersi il tempo e l’anima.
Parallelamente, in Oriente fiorivano tradizioni che fecero del silenzio un cardine spirituale. Lao Tzu nel Tao Te Ching insegnava il valore del wu wei, il non-agire, concetto cui abbiamo accennato: implica accordarsi con il Tao (la via dell’universo) evitando l’azione superflua o innaturale. Questo era inseparabile dal silenzio interiore: “chi conosce non parla, chi parla non conosce”, recita un celebre aforisma taoista. Nell’Induismo, gli antichi saggi (rishi) praticavano la mauna, il voto di silenzio, durante lunghe penitenze nelle foreste, credendo che il silenzio esteriore favorisse la manifestazione del suono interiore del Brahman (l’assoluto). E nel Buddhismo, il silenzio occupa un ruolo centrale: il Buddha storico fu chiamato Shakyamuni, il “saggio silente” – spesso rispondeva alle domande metafisiche dei discepoli con un nobile silenzio, per indicare che certe verità vanno colte oltre le parole. In particolare il Zen, ramo del buddhismo giapponese, elevò il silenzio a strumento didattico: i maestri zen usavano kōan (enigmi paradossali) che lasciavano gli allievi senza parole, oppure rispondevano con un gesto o col silenzio stesso alle domande, forzando la mente a uscire dagli schemi logici verbali per giungere all’illuminazione diretta. Un famoso detto zen afferma: “chi sa non parla; chi parla non sa. Il vero insegnamento avviene nel silenzio.”
Con l’avvento dell’era cristiana e delle altre grandi religioni monoteiste, la contemplazione silenziosa si istituzionalizza in pratiche monastiche. Nel Cristianesimo delle origini, eremiti e Padri del Deserto fuggirono le città per vivere in silenzio e preghiera continua. San Benedetto da Norcia nel VI secolo tracciò la Regola benedettina, dove il silentium è una disciplina fondamentale: i monaci benedettini osservavano ore di silenzio ogni giorno per “ascoltare la voce di Dio” nel cuore. Altre congregazioni medievali, come i Certosini e i Trappisti, portarono questa idea all’estremo col voto di silenzio: alcuni monaci certosini comunicavano solo attraverso cenni o scritti, mantenendo la clausura del silenzio per dedicarsi totalmente alla contemplazione. In quei chiostri, il silenzio divenne sacro: considerato non vuoto, ma pienezza della presenza divina. Anche nel sufismo islamico troviamo la pratica del silenzio (samt), e nella mistica ebraica corrente esoteriche come la Kabbalah incoraggiavano il ritiro in silenzio per la meditazione sui segreti della Torah. In generale, il Medioevo e l’era pre-moderna conobbero il silenzio come via mistica privilegiata: da Meister Eckhart a Santa Teresa d’Avila, i mistici hanno spesso sottolineato che solo nel raccoglimento silenzioso l’anima percepisce il trascendente.
Con il Rinascimento e l’Illuminismo, l’Occidente vede una parziale inversione di tendenza: cresce l’enfasi sull’espressione, il dibattito pubblico, la parola scritta. La riscoperta della retorica e lo spirito critico illuminista esaltano il logos, la ragione discorsiva che rompe i silenzi dogmatici. Tuttavia, anche in quest’epoca il silenzio non scompare dalla cultura, ma assume nuovi volti. Pensatori come Leonardo da Vinci e Galileo Galilei apprezzavano il silenzio quale condizione per l’osservazione scientifica e la scoperta: Leonardo passava lunghe ore in silenzio a studiare vortici d’acqua o muscoli, convinto che “ogni vera cognizione si forma col quieto vedere, più che col frastuono delle parole”. I Romantici dell’800, reagendo alla rivoluzione industriale e al rumore delle città crescenti, trovarono nel silenzio della natura un rifugio e un’ispirazione. William Wordsworth, poeta inglese, celebrava le “solitarie passeggiate” nei boschi del Lake District, dove il silenzio della vallata gli parlava più di mille libri. Henry David Thoreau, filosofo americano, scelse volontariamente due anni di vita isolata sulle rive del lago Walden: dalla sua esperienza di contemplazione quotidiana della natura nacque Walden, ovvero Vita nei boschi (1854), opera divenuta manifesto di come il ritiro dal mondo possa rigenerare l’anima e rivelare le verità essenziali. Thoreau scriveva: “Non ho mai trovato un compagno che mi facesse compagnia quanto il silenzio”. In Russia, lo scrittore Lev Tolstoj negli ultimi anni di vita si fece sempre più silenzioso e ascetico, cercando una purezza morale lontano dai clamori della fama letteraria.
Con il XX e XXI secolo, l’esperienza del silenzio viene rivoluzionata dall’ambiente tecnologico. L’invenzione di radio, televisione e dispositivi elettronici ha progressivamente saturato ogni spazio della vita quotidiana di suoni, voci, musiche. La società contemporanea iper-connessa soffre di quella che alcuni chiamano “inquinamento acustico” e “sovraccarico informativo”. Il silenzio autentico è divenuto raro: dal costante ping delle notifiche sullo smartphone, al brusio onnipresente nelle città, il rumore è la nuova norma. Molti individui oggi provano quasi disagio di fronte al silenzio totale – non sanno più come stare con sé stessi senza stimoli esterni. Eppure, proprio in risposta a questa invasione sonora e mediatica, negli ultimi decenni è nata una controcorrente che rivaluta il silenzio e la lentezza. Si pensi al movimento della Slow Life (vita lenta) e in particolare alla Slow Food nata in Italia, che non riguarda solo l’alimentazione ma una filosofia di rallentamento generale contro la frenesia globalizzata. Anche la pratica della mindfulness – meditazione di consapevolezza – si è diffusa in Occidente come modalità laica di recuperare momenti di silenzio e attenzione al presente, con benefici per la salute mentale riconosciuti scientificamente. Molte persone partecipano a ritiri di silenzio, come i ritiri vipassanā di 10 giorni in cui non si parla, per disintossicarsi dal chiasso mentale e riscoprire la chiarezza interiore.
Persino nel frangente politico e sociale, il silenzio ha assunto nuovi significati. Movimenti di protesta hanno usato il silenzio come forma di espressione potente: celebri furono ad esempio le marce silenziose per i diritti civili e contro la violenza, dove il silenzio dei manifestanti amplificava simbolicamente la gravità delle ingiustizie denunciate. Un caso emblematico in Italia furono le “magliette bianche”: manifestazioni silenziose contro la mafia e il terrorismo, dove la scelta di non urlare slogan comunicava compostezza e determinazione etica. A livello globale, spesso si osserva un minuto di silenzio per commemorare vittime di tragedie – un atto collettivo che conferisce al silenzio valore di solidarietà universale. In tempi recenti è nata la Giornata del silenzio (Day of Silence) nelle scuole americane, in cui studenti e docenti tacciono volontariamente per un giorno per sensibilizzare sul bullismo omofobico, simboleggiando il silenzio imposto alle vittime LGBTQ+: ancora una volta, il tacere diventa voce morale. Tutti questi esempi mostrano come anche oggi il silenzio possa “parlare”, fungendo da linguaggio alternativo per esprimere rispetto, protesta o un bisogno condiviso di pace.
Possiamo dunque tracciare una storia culturale della contemplazione come un’onda lunga: dalle caverne ai monasteri, dai boschi romantici alle sale di meditazione contemporanee, l’essere umano ha sempre cercato nel silenzio un diverso rapporto con sé stesso e col mondo. Mentre le epoche moderne ci hanno regalato conquiste di espressione e comunicazione, oggi stiamo riscoprendo il valore di bilanciare la parola con il silenzio, l’azione con la quiete. Come osserva lo storico e teologo Diarmaid MacCulloch (autore di Silence: A Christian History), “il silenzio è un sottile filo d’oro che attraversa la storia spirituale dell’umanità”. E in un’era rumorosa come la nostra, quel filo d’oro brilla come non mai, offrendoci un appiglio per ritrovare significato e sacralità nella vita quotidiana. In definitiva, la contemplazione silenziosa non è arcaico retaggio di asceti, ma un patrimonio sempre vivo, che oggi assumiamo in forme nuove – dallo yoga al digital detox – per rispondere a bisogni altrettanto antichi: ascoltarci, capire, e semplicemente essere presenti.
L’inazione come forma di resistenza in una società iperattiva e iper-esposta
Viviamo immersi in una cultura che idolatra l’attività incessante. “Darsi da fare” è considerato virtuoso, mentre l’ozio viene colpevolizzato. Sui social network vince chi pubblica continuamente contenuti; sul lavoro è lodato chi fa straordinari e non “perde tempo”; nella vita privata l’ideale è essere sempre impegnati a migliorarsi (nuovi hobby, nuove esperienze da mostrare). In questo contesto iperattivo e iper-esposto, l’atto di non agire può diventare paradossalmente un gesto rivoluzionario. Rifiutarsi di partecipare alla corsa produttivistica, sottrarsi volontariamente alla visibilità e all’attività, equivale a remare controcorrente rispetto alle aspettative sociali. L’inazione deliberata, in una società che ci vuole costantemente attivi, è dunque una forma di resistenza.
Un esempio letterario divenuto simbolico è il personaggio di Bartleby lo scrivano, creato da Herman Melville. Bartleby lavora in uno studio legale di Wall Street e un giorno, di fronte a una richiesta del suo capo, risponde placidamente: “Preferirei di no.” Da allora oppone questa formula a ogni incarico, rifiutandosi di eseguire qualsiasi compito. La sua non è una ribellione gridata o violenta, ma una resistenza passiva e ostinata. Con il semplice non-agire, Bartleby smaschera l’assurdità meccanica del lavoro alienante e mette in crisi il sistema attorno a lui. La sua frase è diventata proverbiale come esempio di disobbedienza civile tramite l’inazione: un no gentile ma inflessibile alle pretese dell’autorità. Anche se la storia di Bartleby è tragica (egli alla fine muore di inedia, rinchiuso in prigione e ancora ripiegato nel suo ritiro interiore), la sua figura ha ispirato generazioni di autori e pensatori come emblema del rifiuto dell’iper-produttività moderna. In quell’inerzia volontaria c’è una provocazione: cosa accadrebbe se smettessimo tutti di correre come criceti sulla ruota?
La resistenza attraverso l’inazione può manifestarsi in molti ambiti. Nella sfera socio-politica, uno degli strumenti più potenti è lo sciopero: quando i lavoratori incrociano le braccia e interrompono ogni attività produttiva, esercitano pressione sul sistema padronale proprio non facendo. È il potere del “non-lavoro” organizzato. Allargando il concetto, la filosofa femminista Audrey Lorde parlava di “uso del sé come arma”, intendendo anche il non concedersi al sistema oppressivo. Ad esempio, movimenti come quello delle donne in sciopero (Women’s Strike) invitano le donne a non svolgere per un giorno sia il lavoro retribuito sia il lavoro domestico e di cura non pagato, rendendo visibile attraverso l’inazione l’enorme peso di queste attività spesso date per scontate. Anche la comunità afroamericana negli Stati Uniti ha a volte promosso il “buy nothing day” o boicottaggi economici – che sono forme di inazione (non comprare, non consumare) finalizzate a colpire il sistema capitalistico razzista.
Nella vita individuale, resistere tramite inazione può significare sottrarsi alle logiche di performatività. Un esempio contemporaneo è il fenomeno del “quiet quitting” (letteralmente “abbandono silenzioso”): molti giovani lavoratori decidono di non fare più dello stretto necessario sul lavoro, rinunciando alla logica del sacrificio totale per l’azienda. Non si licenziano, ma smarriscono quell’eccesso di zelo che li rendeva sfruttabili; fanno il minimo contrattuale e poi dedicano tempo a sé stessi. Questo atteggiamento, criticato dai datori di lavoro, può essere visto come una forma di resistenza individuale al workaholism imperante. Similmente, c’è chi sceglie il downshifting: lascia posti di carriera stressanti per lavori più semplici e meno remunerativi, ma che permettono uno stile di vita più lento e umano. Queste scelte, per quanto intime, hanno un significato politico-culturale: rifiutano il dogma che l’identità e il valore di una persona coincidano con la sua produttività o visibilità sociale.
Un contributo illuminante sul tema è venuto dall’artista e scrittrice Jenny Odell, che nel suo libro How to Do Nothing: Resisting the Attention Economy (2019) ha fatto un vero e proprio manifesto del “non fare” come atto di resistenza.
Odell parte dalla constatazione che oggi siamo intrappolati in un’economia dell’attenzione: ogni minuto della nostra vita mentale è conteso da social media, pubblicità, contenuti di intrattenimento, in una gara per monetizzare il nostro tempo. In questo contesto, ritagliarsi momenti di inattività – guardare gli uccelli in un parco, stare seduti senza scopo – diventa un gesto sovversivo. “Fare niente” appare scandaloso in un’epoca che esige che abbiamo sempre qualcosa da mostrare per il nostro tempo, afferma Odell. Ma proprio per questo può restituirci la libertà. Il suo messaggio non incoraggia davvero all’inerzia assoluta: suggerisce piuttosto di riafferrare la propria attenzione e dedicarla a esperienze non mercificate, non finalizzate a un guadagno o a un’immagine pubblica. Odell definisce questa una politica del rifiuto: rifiuto del dogma capitalista secondo cui tempo è denaro e valore è solo ciò che produce profitto. Riposare, contemplare, dedicarsi ad attività “inutili” come l’arte o la passeggiata, significa sottrarsi – fosse anche per poco – alla logica del mercato e riappropriarsi di sé. In effetti, l’autrice evidenzia come il capitalismo tenda a colonizzare non solo il nostro tempo di lavoro, ma anche quello libero, inducendoci a essere produttivi anche nel tempo libero (hobby monetizzabili, auto-miglioramento costante, condivisione social di ogni attività). Dire no a questa colonizzazione – anche solo spegnendo il cellulare per un pomeriggio – è un atto di resistenza culturale e spirituale.
Un altro fronte di resistenza è l’iperesposizione mediatica. Oggi si avverte la pressione a essere visibili – “esserci” significa farsi vedere: postare, commentare, far sapere di sé. In questo senso, scegliere l’invisibilità o l’anonimato è controcorrente. Ci sono persone, spesso artisti o pensatori, che deliberatamente sfuggono ai riflettori. Un caso noto è lo scrittore italiano Elena Ferrante, pseudonimo dietro cui l’autrice della celebre tetralogia L’amica geniale ha celato la propria identità, evitando interviste pubbliche e comparsate. La sua non presenza mediatica è una scelta consapevole per far parlare solo le opere e per sottrarsi al circo della celebrità. In modo analogo, musicisti come Daft Punk hanno costruito la loro immagine indossando sempre caschi che coprono il volto – un modo per dire: l’attenzione va alla musica, non alla persona. Questi atteggiamenti possono essere letti come micro-atti di resistenza contro la cultura narcisistica e voyeuristica dominante.
Nel campo delle idee, sono sorte vere e proprie “filosofie della resistenza inattiva”. Un esempio recente è il movimento per la riduzione dell’orario di lavoro e il diritto alla disconnessione. Sindacati e intellettuali sostengono che, in un mondo ipertecnologico, i lavoratori debbano avere per legge il diritto di non rispondere a email o messaggi di lavoro fuori dall’orario d’ufficio. Questo afferma il valore del non essere raggiungibili, ovvero del poter non agire su richiesta altrui 24/7. Alcuni Paesi (come la Francia) hanno introdotto normative in tal senso. Allo stesso tempo, movimenti come la Nap Ministry negli Stati Uniti (fondata da Tricia Hersey) promuovono attivamente il riposo, persino il sonnellino, come forma di protesta sociale. Hersey, nel suo libro Rest Is Resistance (2022), collega il rifiuto della stakanovismo a una lotta contro il razzismo e il capitalismo che storicamente hanno sfruttato e privato del riposo le persone di colore. Il suo motto: “il riposo è un atto di resistenza perché interrompe e disturba il capitalismo suprematista bianco”npr.org. Invitare le persone a dormire di più, a prendersi cura del proprio corpo e a “non sentirsi in colpa per il tempo improduttivo”, diventa così un atto politico contro un sistema che vorrebbe gli individui come macchine sempre operative. Si tratta di una vera “politica del rifiuto” fondata sull’idea che non fare (non lavorare per un po’, non rispondere alle sollecitazioni consumistiche, non partecipare alla competizione) sia un modo per rivendicare la propria dignità di essere umano, non riducibile a ingranaggio economico.
Possiamo dunque affermare che nella società iperattiva odierna l’inazione consapevole assume valenza di contestazione. Resta però una scelta spesso contro intuitiva e controcorrente, che richiede consapevolezza di sé e talvolta comporta un prezzo. Chi “si chiama fuori” può venire stigmatizzato come fannullone, escluso da certi circuiti o opportunità. Ecco perché l’inazione ribelle spesso cerca forme collettive (scioperi, movimenti) per acquisire forza e legittimità. Ma anche nel piccolo delle nostre vite quotidiane, ciascuno di noi può praticare micro-resistenze: spegnere il telefono durante i pasti, dire di no a un progetto extra se siamo già stanchi, non sentirsi obbligati a performare felicità e successo sui social. Sono gesti silenziosi ma significativi. Come scrisse il poeta italiano Primo Levi in una poesia aforistica: “Se tu vorrai lasciar traccia di te, non bruciare le tappe: siediti al margine del sentiero e attendi. Il frastuono passerà e allora potrai capire.” In altre parole, sedersi invece di correre può essere l’atto più radicale in un’epoca che va troppo di fretta. L’inerzia apparente diviene allora forza morale – un baluardo dell’umano contro la deriva disumanizzante dell’iper-attività senza scopo.

Implicazioni per la salute mentale, la regolazione nervosa e la cura di sé
Il silenzio e l’inazione non influenzano solo la sfera filosofica o sociale: hanno effetti tangibili sul nostro organismo e sulla nostra psiche. In termini di salute mentale, ritagliarsi momenti di quiete e sospensione dall’iper-stimolazione è fondamentale per prevenire lo stress cronico, l’ansia e il burnout. Numerose ricerche neuroscientifiche hanno esaminato cosa accade al cervello durante i periodi di silenzio e inattività mentale: i risultati indicano che la modalità “a riposo” del cervello non è affatto tempo perso, bensì un periodo in cui il cervello elabora informazioni, consolida la memoria e fa emergere creatività. Quando smettiamo di concentrarci attivamente su compiti esterni, nel cervello si attiva il “default mode network” (rete in modalità predefinita), un circuito neurale associato all’elaborazione interna, all’autorinforzo e alla generazione di pensieri spontanei. Questo spiega perché spesso troviamo soluzioni creative o intuizioni proprio nei momenti di pausa – ad esempio sotto la doccia, o guardando distrattamente fuori dalla finestra – piuttosto che sforzandoci coscientemente. Fare niente, insomma, fa lavorare la fantasia. Come affermava lo psicologo Kets de Vries , “molte persone starebbero meglio se facessero di meno e riflettessero di più”: la noia e l’ozio, da evitare come peccati nella mentalità comune, in realtà possono diventare l’anticamera dell’inventiva (si pensi ad Archimede che ha l’intuizione del principio del galleggiamento mentre si rilassa in una vasca da bagno!).
Dal punto di vista della regolazione del sistema nervoso, il silenzio agisce come un balsamo. Vivendo costantemente in ambienti rumorosi o in allerta per notifiche e richieste, molte persone sviluppano un’iperattivazione del sistema nervoso simpatico (quello della risposta “attacco o fuga”). Questo si traduce in livelli elevati di ormoni dello stress come il cortisolo, aumento della frequenza cardiaca e tensione muscolare. Momenti di silenzio e inattività favoriscono l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, responsabile delle funzioni di “riposo e digestione” e del rilassamento. Studi hanno mostrato che anche soli pochi minuti di silenzio assoluto possono abbassare la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca. Un esperimento citato spesso è quello pubblicato sul Heart nel 2006: i ricercatori trovarono che due minuti di silenzio producevano un effetto di rilassamento maggiore rispetto a due minuti di musica “rilassante”. In altre parole, il cervello reagisce positivamente all’assenza di input sonori, forse perché la interpreta come segnale di un ambiente sicuro dove può abbassare la guardia.
Inoltre, il silenzio “nutre” il nervo vagale, ossia il nervo che dal cervello raggiunge il cuore, i polmoni e l’intestino, orchestrando la risposta calmante del corpo. Una maggiore attività del nervo vago (detta tono vagale elevato) è associata ad emozioni positive, resilienza allo stress e buona digestione. Pratiche contemplative silenziose – meditazione, respirazione profonda, preghiera silenziosa – aumentano il tono vagale, migliorando anche le capacità di regolazione emotiva e socializzazione. Non a caso, in molte tradizioni spirituali il silenzio è accostato a un senso di pacificazione: a livello fisiologico ciò corrisponde a un riequilibrio neurovegetativo. Uno studio recente pubblicato su Frontiers in Psychology ha suggerito che “il silenzio interiore incrementa l’attività del vago ventrale, favorendo l’engagement sociale e riducendo la reattività dello stress”.
Tutto ciò ha implicazioni dirette per la salute mentale. L’iper-stimolazione costante è un fattore di rischio per disturbi come ansia generalizzata, disturbi del sonno e depressione. Allenarsi invece a ricavare regolarmente spazi di quiete – fosse anche 10 minuti di respiro consapevole in silenzio ogni mattina – aiuta a ridurre i livelli basali di stress e ad aumentare la consapevolezza dei propri stati interni. Quest’ultima è fondamentale: spesso l’iperattività è usata come meccanismo di fuga dalle emozioni difficili (ci teniamo occupati per non sentire ansia, tristezza o vuoto). Se però impariamo a tollerare il silenzio e l’inazione, gradualmente impariamo anche a stare con noi stessi, ad ascoltare ciò che proviamo. Questo è il primo passo per elaborare e guarire eventuali ferite interiori. Per questo molti approcci terapeutici incoraggiano pratiche di mindfulness o rilassamento: la terapia cognitivo-comportamentale di terza generazione ad esempio usa la mindfulness per insegnare al paziente a osservare pensieri e sensazioni senza farsi travolgere, accettandoli con compassione. Un ambiente silenzioso e privo di distrazioni facilita questo processo di auto-osservazione.
Parlando di cura di sé, il silenzio e l’inerzia rigenerante dovrebbero diventare ingredienti regolari del nostro stile di vita, al pari dell’attività fisica o di una dieta sana. Negli ultimi anni si è diffuso il concetto di “self-care” (cura del sé), che include varie pratiche per mantenere un equilibrio psicofisico: tra queste, ritagliarsi momenti per staccare è fondamentale. Ciò può voler dire concedersi un giorno libero senza impegni, oppure fare passeggiate da soli in un luogo tranquillo, o semplicemente sedersi sul divano ascoltando il silenzio di casa propria. Non c’è un modo unico: la cura attraverso la quiete può essere adattata ai gusti personali. Alcune persone trovano beneficio nel contatto con la natura – camminare nel bosco, lontano dai rumori artificiali, produce un effetto calmante notevole (i giapponesi parlano di “shinrin-yoku”, il “bagno nella foresta”, come terapia antistress). Altre preferiscono creare piccole “zone di quiete” in casa, magari spegnendo tv e telefoni la sera per leggere un libro o riflettere sul diario. Altre ancora adottano routine di digital detox, ad esempio niente social media per tutto il week-end, per disintossicarsi dall’overload informativo. Ciò che conta è riconoscere che il riposo e la pausa non sono un lusso, ma un bisogno fisiologico e psicologico.
Va sottolineato infatti che il cervello non può funzionare senza pause. Studi sulle performance lavorative hanno evidenziato come lavorare troppe ore di fila riduce l’efficienza: la mente ha bisogno di break per consolidare l’apprendimento e ricaricarsi. Una ricerca di Ernst & Young citata dal New York Times mostrò che per ogni 10 ore di ferie in più prese dai dipendenti, le loro valutazioni di performance annuali miglioravano dell’8%. Un altro studio (Harvard Business School) ha rilevato che lavorare 60 ore o più a settimana aumenta drasticamente il rischio di burnout senza grossi benefici di produttività. Tutto ciò conferma la saggezza del proverbio: “la fretta è nemica della perfezione”. A livello neurobiologico, quando siamo stanchi e continuiamo a forzarci all’attività, la corteccia prefrontale (sede delle funzioni esecutive) perde efficienza, mentre aumentano gli ormoni dello stress che alterano umore e lucidità. Ecco perché il vero “ottimizzatore” delle prestazioni a lungo termine è il riposo regolare: dormire a sufficienza, fare vacanze, fare pause attive (come brevi passeggiate) e pause passive (rilassamento, micro-sonni). L’“ozio creativo”, come lo chiamava Domenico De Masi, è in realtà il terreno dove germogliano innovazioni e soluzioni ai problemi.
Inoltre, la qualità delle relazioni migliora quando ci concediamo spazi di quiete personale. Può sembrare contraddittorio, ma passare del tempo da soli in silenzio può renderci più disponibili e sereni quando torniamo tra gli altri. Questo perché, spezzando la saturazione sociale continua, evitiamo il sovraccarico emotivo e preveniamo l’irritabilità o il senso di soffocamento che talvolta derivano dal troppo stare in mezzo alla gente. Anche in famiglia o in coppia, concedersi reciprocamente momenti di solitudine aiuta ciascuno a ricaricarsi e a non dipendere dall’altro per ogni stimolo. Ciò arricchisce poi lo scambio, perché porta nella relazione individui che hanno coltivato i propri mondi interiori.
Da non dimenticare i benefici specifici sul sistema nervoso legati alle pratiche di quiete. Attività come lo yoga e il training autogeno, che uniscono inattività fisica, respirazione lenta e silenzio interiore, hanno effetti misurabili: riducono la produzione di adrenalina, migliorano la variabilità cardiaca (indice di adattabilità dello stress) e abbassano la glicemia e i marcatori infiammatori nel sangue. Persino alcune patologie psicosomatiche possono giovarsi del silenzio: per chi soffre di emicrania, ipertensione o sindrome dell’intestino irritabile – disturbi spesso esacerbati dallo stress – ritagliarsi routine quotidiane di rilassamento in quiete risulta parte importante del piano di gestione.
In sintesi, silenzio e inazione consapevole agiscono come una medicina naturale sul corpo e sulla mente. Attivano il nostro “farmacista interno”, come lo chiamano alcuni medici: quel complesso di risorse di autoguarigione che possediamo e che si attivano quando entriamo in uno stato di calma. Nell’ottica della cura di sé, inserirli nella vita di tutti i giorni equivale a investire in prevenzione e benessere. Dovremmo imparare a non sentirci in colpa se ci fermiamo: al contrario, considerarlo un atto di rispetto verso noi stessi, esattamente come nutrirci bene o fare esercizio. Prendersi una pausa non è tempo perso, ma tempo guadagnato in salute. Nel frastuono odierno, concedersi regolarmente un’oasi di silenzio è un atto d’amore verso la propria mente affaticata. Come dichiarano i ricercatori in un articolo su Psychological Science, “il cervello apprezza il silenzio tanto quanto il corpo apprezza il sonno”: entrambi sono momenti di recupero indispensabili.
Figure e narrazioni del ritiro: esempi letterari, clinici e queer
Il silenzio e l’inazione intesi come scelta attiva emergono in numerose narrazioni e biografie, attraverso personaggi reali o immaginari che hanno deciso di ritirarsi, tacere o rallentare come forma di agency. Esplorando queste figure, possiamo cogliere sfumature diverse di cosa significhi “usare il silenzio” o “l’assenza” per affermare sé stessi.
Esempi letterari: dal rifiuto di Bartleby all’ozio di Oblomov
In letteratura non mancano personaggi emblematici che sfidano le convenzioni tramite l’inazione. Abbiamo già citato Bartleby, il quale con il suo “preferire di no” rappresenta il rifiuto radicale e cortese insieme, un’inerzia che denuncia le follie del mondo del lavoro. Spostandoci nella letteratura russa, incontriamo un altro archetipo della non-azione: Oblomov, protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Gončarov (1859). Oblomov è un nobile che trascorre intere giornate a letto, in vestaglia, incapace di prendere qualsiasi iniziativa concreta. La parola “oblomovismo” è entrata nell’uso per indicare un’apatia indolente. Eppure, nel corso del romanzo, si intuisce che la passività di Oblomov è anche una forma di protesta implicita contro la società russa in cambiamento, che egli non riconosce più. Oblomov si rifugia nel non fare perché rifiuta istintivamente l’arrivismo e la spregiudicatezza della nuova classe emergente; preferisce i sogni ad occhi aperti alla realtà volgare del profitto. Pur caricaturale, Oblomov incarna una critica: la sua immobilità quasi patologica è lo specchio distorto di un ideale di purezza e autenticità che il protagonista non trova nel mondo attorno a sé. Nella sua famosa pigrizia c’è quasi una coerenza morale, sebbene portata all’estremo.
Un altro eroe letterario del ritiro è Thoreau stesso, che nelle pagine di Walden narra in prima persona la sua vita di due anni nei boschi. Thoreau lasciò la cittadina per andare a vivere in una capanna spartana, riducendo al minimo il lavoro necessario (coltivava quel poco per nutrirsi) e dedicando il resto del tempo alla lettura, alla scrittura, all’osservazione della natura e alla riflessione. La sua esperienza fu un esperimento filosofico: voleva capire cosa fosse davvero necessario per vivere e cosa invece superfluo. Il ritiro di Thoreau non fu isolamento totale – riceveva visite, andava in paese di tanto in tanto – ma sicuramente fu una scelta controcorrente di lentezza e autosufficienza, in contrasto col nascente capitalismo industriale americano. In Walden egli scrive: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita… e vedere se non potevo imparare ciò che aveva da insegnarmi, anziché scoprire in punto di morte che non ero vissuto.” Questa frase esprime bene l’idea di ritiro come scelta attiva per una vita autentica: Thoreau si sottrae alla società non per escapismo sterile, ma per trovare una verità esistenziale che la frenesia sociale rischia di soffocare.
Nella poesia, un esempio notevole è Emily Dickinson, la poetessa statunitense che condusse gran parte della vita adulta ritirata nella casa paterna ad Amherst, quasi senza mai uscirne. Dickinson limitò progressivamente i contatti col mondo esterno fino a comunicare con molte persone solo attraverso lettere. Il suo isolamento volontario – era chiamata la “reclusa di Amherst” – destò scalpore tra i contemporanei, ma fu straordinariamente fertile sul piano creativo: nella quiete della sua stanza, Emily scrisse quasi 1800 poesie, folgoranti per modernità e profondità. Per lei, il “non esserci” socialmente fu una condizione per “esserci” poeticamente in maniera assoluta. In una poesia famosa scrive: “Sto Nessuno! Tu chi sei? / … / Come sarebbe noioso essere Qualcuno! / … / dire il proprio nome per tutto il giugno – / come una rana – / a un pantano che ammira il suo gracidio!”. Con ironia, Dickinson esalta l’anonimato e l’invisibilità (being Nobody) rispetto all’essere Somebody che gracida il proprio nome in società. Lei scelse di essere quel “Nessuno”, trovando nel silenzio e nella solitudine la sua voce più vera. La sua parabola illustra bene come il ritiro possa diventare uno spazio di libertà creativa estrema: non dovendo aderire a ruoli sociali o aspettative, Dickinson creò un universo poetico unico, lasciando che la sua interiorità parlasse senza censure né rumore esterno.
Nella narrativa del ’900 emergono figure di drop-out (abbandoni) e eremiti metropolitani. Ad esempio, nel romanzo Il deserto dei Tartari (1940) di Dino Buzzati, il tenente Drogo trascorre la vita in una fortezza isolata aspettando un evento bellico che non accadrà mai. La sua attesa interminabile – una forma di inazione prolungata, scandita da una routine immutabile – simboleggia l’alienazione e l’assurdo della condizione umana, ma anche una sorta di dignità stoica nel ritirarsi in un ruolo e portarlo alle estreme conseguenze. Drogo alla fine trova senso nel silenzio e nell’immobilità della fortezza, quasi preferendola al caos della vita civile.
Un altro esempio singolare è Il ragazzo selvaggio di Tournier: un adolescente decide di vivere da eremita nei boschi di Fontainebleau, rifiutando la società. La sua storia (ispirata a fatti veri di cronaca) ribalta il mito del buon selvaggio: qui è un civilizzato che sceglie la natura e il silenzio deliberatamente. Anche in opere contemporanee troviamo personaggi che fanno dello slow-living una bandiera. Nel romanzo Norwegian Wood (1987) di Haruki Murakami, la giovane Naoko cerca rifugio in una clinica di montagna lontana da tutto per affrontare il proprio trauma psicologico: immersa nella routine calma e silenziosa della vita rurale, spera di guarire dall’ipersensibilità che la tormenta. Il libro mostra come la lentezza e l’assenza di stimoli esterni possano essere terapeutici, benché non garantiscano da sole la salvezza (Naoko purtroppo non sopravviverà alla sua depressione, evidenziando che il ritiro va accompagnato da un’elaborazione interna reale).
Figure reali e cliniche: il ritiro come guarigione o sofferenza
Spostandoci dalla pagina scritta alla vita vera, ci sono innumerevoli casi di persone che hanno scelto il ritiro o il silenzio nella propria esistenza per diversi motivi. Alcuni lo hanno fatto per cercare guarigione psicologica: ad esempio, il celebre psicoanalista Carl Gustav Jung, dopo la rottura con Freud e una personale crisi interiore, trascorse anni di semi-ritiro a Bollingen, una torre sul lago di Zurigo che si fece costruire. Lì Jung viveva in modo spartano, spesso in silenzio, scolpendo pietre, dipingendo mandala e riflettendo. Questo periodo di “inattività creativa” fu cruciale per l’elaborazione delle sue teorie sull’inconscio collettivo. Egli stesso disse: “la mia torre mi ha dato qualcosa che oggi si sta perdendo: il silenzio e la concentrazione, in un mondo che ne ha fame.” Il suo ritiro fu dunque una fase attiva di incubazione intellettuale e spirituale, anche se all’esterno poteva apparire come un allontanamento dal lavoro.
Altre figure reali hanno scelto il silenzio come posizione etica o spirituale. Pensiamo a Gandhi, che sebbene fosse noto per le sue parole ispiratrici, osservava un giorno di silenzio a settimana (il lunedì) per disciplina spirituale: credeva che tacere periodicamente gli purificasse la mente e rafforzasse la volontà. Durante quelle 24 ore, comunicava solo scrivendo appunti se necessario. Questo mostra come anche personalità pubbliche molto attive riconoscessero il potere rigenerante del silenzio. Un altro esempio è la già citata Tricia Hersey, che potremmo definire un’attivista clinica: in risposta al suo burnout personale, ha fondato un’intera organizzazione per promuovere il riposo collettivo come atto di cura e resistenza. Molti suoi laboratori invitano le persone a radunarsi e… dormire insieme! Sembra ironico, ma per individui stremati dal lavoro precario e dallo stress, “cadere inerti” su materassini diventa un’esperienza quasi rivoluzionaria, di guarigione di comunità.
In ambito clinico vero e proprio, il ritiro può essere un sintomo ma anche una fase di guarigione. Ad esempio, pazienti con disturbo da stress post-traumatico (PTSD) spesso tendono all’isolamento e al mutismo in conseguenza del trauma. Questo tipo di ritiro è patologico, espressione di sofferenza (la persona evita stimoli che le ricordano il trauma, chiudendosi). Tuttavia, alcune terapie cercano di trasformare quel ritiro in uno spazio sicuro dove lentamente reintrodurre senso di controllo. Ci sono cliniche psichiatriche o centri di riabilitazione che usano ambienti a bassissima stimolazione per i pazienti in crisi acute: stanze tranquille, luci soffuse, pochi arredi – in modo che la persona sovraccarica possa “disintossicarsi” dall’eccesso di input. In tali contesti, il silenzio è terapeutico: il paziente viene incoraggiato a fare passeggiate, lavorare nel giardino, compiti semplici e ripetitivi, proprio per gradualmente calmare il sistema nervoso e riemergere dal torpore depressivo o dall’ansia acuta. È come se dovesse riapprendere a tollerare la pace dopo un periodo in cui la pace interiore è stata distrutta.
D’altra parte, esiste anche il fenomeno degli “hikikomori”, in particolare diffuso in Giappone ma anche in Occidente: giovani (soprattutto maschi) che si ritirano totalmente dalla vita sociale, chiudendosi nella loro stanza per mesi o anni, rifiutando scuola, lavoro, contatti diretti, e vivendo solo tramite internet. Questo tipo di ritiro estremo è considerato un problema clinico e sociale – una fuga patologica da un mondo percepito come eccessivamente pressante o ostile. Nel caso degli hikikomori, l’inazione non è tanto una scelta attiva e serena, quanto l’unica risposta trovata a un malessere profondo (spesso dovuto a bullismo, aspettative accademiche altissime, relazioni familiari problematiche). Tuttavia, alcuni studiosi si interrogano se anche in questa chiusura non vi sia implicitamente un messaggio di protesta: gli hikikomori, col loro silenzio e la loro “sparizione”, mettono in crisi il sistema di valori iper-competitivo. Alcune narrazioni letterarie e cinematografiche recenti hanno cercato di dare voce a questi silenzi: ad esempio il film italiano “Il ragazzo invisibile” (di Gabriele Salvatores) nel secondo capitolo racconta di un adolescente che decide di isolarsi e parla del suo dolore attraverso un diario. Si tratta di uno dei primi tentativi di portare l’esperienza hikikomori all’attenzione del pubblico occidentale.
Narrazioni queer: lentezza e assenza come ribellione all’eteronorma
Un ambito particolarmente interessante in cui silenzio, ritiro e non-desiderio assumono connotati di agency è quello delle narrazioni queer. Per persone LGBTQ+, la scelta del silenzio o dell’invisibilità è talvolta stata una necessità di sopravvivenza in contesti ostili – si pensi a tutte le vite queer del passato costrette a nascondersi o a esprimersi solo nei diari segreti. Tuttavia, in tempi più recenti, teoricə queer hanno rivendicato persino l’invisibilità e la non partecipazione alle aspettative sociali come possibili atti di libertà e autenticità.
Un concetto chiave sviluppato negli studi queer è quello di “queer temporality”, ossia tempi e ritmi di vita alternativi a quelli eteronormativi. Nella società tradizionale eterosessuale, si dà per scontato un certo percorso di vita: adolescenza turbolenta ma poi matrimonio, figli, carriera – uno schema produttivo e riproduttivo lineare. Molte persone queer, non aderendo a questo modello (perché non si sposano, non fanno figli, o semplicemente vivono relazioni non convenzionali), hanno storicamente vissuto ai margini anche in termini di tempo sociale: per esempio, l’assenza di figli spesso fa sì che persone LGBTQ+ non abbiano quelle “tappe obbligate” che scandiscono la vita di tuttə lə altrə (gravidanza, allevamento prole, ecc.), e questo può aprire a stili di vita percepiti dagli altri come “fermi” o “ritardati”. Ma la teoria queer ha rovesciato il giudizio: invece di vedere queste vite come mancanti di qualcosa, le ha interpretate come forme legittime di esistenza fuori dalla logica produttivista/eteronormativa.
La studiosa Jack Halberstam, nel libro “The Queer Art of Failure” (L’arte queer del fallimento), sostiene che rifiutare di avere successo secondo i parametri tradizionali (soldi, status, famiglia nucleare) può diventare un’arte di sovversione. In questo senso, “fallire” (dal punto di vista della società) equivale a crearsi nuovi spazi di libertà dove inventare altri modi di vivere e desiderare. Molte narrazioni queer celebrano personaggi che non fanno ciò che ci si aspetta: il gay che non si rende presentabile o performativo per l’accettazione, la donna lesbica che rifiuta i ruoli di genere tradizionali e magari anche la visibilità (pensiamo all’archetipo della “spinster aunt”, la zia nubile eccentrica e appartata). Ad esempio, nel romanzo Stone Butch Blues di Leslie Feinberg, la protagonista Jess attraversa epoche di invisibilità e silenzio per sopravvivere, trovando però proprio in quei periodi una costruzione di identità solida lontano dagli sguardi giudicanti.
C’è anche la dimensione del silenzio come protezione nella storia queer: il non dire, il non rivelare (ad esempio la vita di persone omosessuali nei decenni passati, costrette alla riservatezza totale sulla propria sfera affettiva). Quello che per molti era un doloroso obbligo, alcune narrazioni lo reinterpretano come spazio di intimità radicale: se la società mi costringe al silenzio sulla mia vita, io in quel silenzio costruirò un mondo mio. Ciò non toglie la violenza dell’invisibilizzazione forzata, ma mostra la resilienza creativa di chi ne ha fatto un rifugio identitario. Un esempio reale è la poetessa americana Audre Lorde: nera e lesbica, inizialmente scriveva poesie in privato senza pubblicarle – in quell’apparente silenzio pubblico, stava però nascendo la sua potente voce interiore che poi esploderà negli anni ’70 come attivista e autrice.
Inoltre, la stessa sessualità queer ha introdotto il concetto di “non-desiderio” come valido. Ad esempio la comunità asessuale (ace) rivendica il diritto a non provare attrazione sessuale come un orientamento, e a non essere patologizzata per questo. Vivere il non-desiderio sessuale in una società ipersessualizzata e pornografica è quasi un atto rivoluzionario: significa affermare che la propria identità non è definita dalla ricerca di partner o dall’atto sessuale, contravvenendo alla norma che vuole tutti costantemente in caccia o in coppia. Molti asessuali raccontano di aver subito pressioni (“devi fare sesso, altrimenti non sei normale”) e di aver scelto invece il silenzio su di sé per anni, prima di trovare comunità accoglienti. Anche qui, il ritiro iniziale è stata una strategia di difesa, poi trasformata in espressione positiva: “non desidero e sto bene così, non devo dimostrare nulla”. Questo dialoga con il tema generale del non-desiderare come spazio sano di contemplazione: in un certo senso, gli asessuali ribaltano l’idea che la vita senza desiderio sia arida, mostrando che può essere ricca di altri significati (amicizia, creatività, spiritualità) non meno validi.
Infine, esistono figure storiche queer che hanno vissuto da ritirate volontarie in forme particolari. Un caso affascinante è quello di Claude Cahun, artista surrealista gender-nonconforming della prima metà del ’900: insieme alla compagna Marcel Moore, durante l’occupazione nazista dell’isola di Jersey scelse una resistenza non armata e silenziosa, disseminando messaggi anonimi e poetici per indebolire il morale dei soldati tedeschi. Cahun e Moore vissero per anni quasi isolate su quell’isola, in una sorta di “esilio autoimposto” dall’Europa in fiamme, utilizzando proprio l’invisibilità e l’astuzia silenziosa come armi contro l’oppressore. La loro vicenda unisce la dimensione queer (vivevano la loro relazione fuori dalle norme) e quella del ritiro attivo: nascoste nell’ombra, combatterono a modo loro il nazismo, incarnando l’idea che si può fare la differenza anche non stando in prima linea fragorosa. La loro vita è una narrazione in cui il silenzio (inteso come clandestinità e non proclamazione di sé) fu una scelta coraggiosa e deliberata.
In conclusione, dalle figure letterarie ai casi reali, passando per le elaborazioni queer, vediamo come il ritiro, la lentezza, il silenzio possano essere vissuti sia come rifugio sia come affermazione. A volte nascono dalla sofferenza o dall’emarginazione, altre volte da una ricerca interiore, ma in molti casi si trasformano in forme di espressione alternativa. Questi personaggi – Bartleby, Oblomov, Dickinson, l’hikikomori, l’asessuale, l’attivista del riposo – ci mostrano prospettive diverse su come “non esserci” può diventare un modo di esserci più profondamente. Ognuno a suo modo utilizza il no, il fermo, il tacere, per dire qualcosa di importante sul sé e sul mondo circostante.
Il peso sociale del “non esserci” e la pressione alla visibilità continua
Se scegliere silenzio e invisibilità può essere liberatorio per l’individuo, dall’altro lato la società contemporanea non facilita affatto tali scelte – anzi, spesso le stigmatizza o le punisce. È importante analizzare il “peso sociale” che grava sul non esserci, ovvero sulle persone che si sottraggono alla costante visibilità e partecipazione. In un’era di interconnessione perpetua, sparire anche momentaneamente desta sospetti o preoccupazioni. La pressione alla visibilità continua si manifesta in vari ambiti: lavorativo, relazionale, digitale.
Nel mondo del lavoro, ad esempio, vige spesso la cultura della presenza ad ogni costo. Anche se non si è produttivi, conta farsi vedere in ufficio (il cosiddetto presenzialismo): chi invece chiede orari flessibili o si prende tutte le ferie possibili talvolta viene malvisto, come se mancasse di dedizione. Questa mentalità è così radicata che molte persone lavorano anche da malate (il fenomeno del “leaveism” o del lavorare in malattia). Il non esserci – prendersi un periodo sabbatico, un congedo prolungato, o semplicemente non essere sempre reperibili – può precludere opportunità di carriera, perché l’azienda ti “dimentica” o ti considera poco affidabile. Ciò genera paura: i lavoratori interiorizzano l’idea che “se non ci sono, qualcuno prenderà il mio posto”. Così molti rinunciano a congedi parentali, a break per formazione o semplicemente a staccare, per timore di perdere terreno. Questa pressione è aumentata con la tecnologia: smartphone e laptop aziendali mantengono i dipendenti in uno stato di semi-presenza costante (sempre raggiungibili via email o chat). Chi osa disconnettersi subisce talvolta sanzioni implicite (commenti del capo, progressioni negate). In tale clima, il silenzio del dipendente (non rispondere subito, non essere sempre “online”) viene percepito come devianza. È evidente il paradosso: si valorizza il lavoratore instancabile, ma così facendo si normalizza uno stile di vita che conduce al logoramento e al burnout.
Nelle relazioni sociali e affettive, la pressione alla visibilità assume altre forme. Nell’epoca dei social media, “non esserci” equivale quasi a non esistere. Se un individuo non ha profili social, o li tiene privati e poco attivi, capita di sentirgli chiedere: “Come, tu non stai su Facebook/Instagram? Ma allora come fai a restare in contatto? Non ti senti isolato?” Chi non condivide foto e aggiornamenti sulla propria vita può venire additato come asociale o aver paura di perdersi qualcosa (la famosa FOMO: Fear of Missing Out). Questo porta molte persone a forzare la propria presenza online pur non sentendola naturale, solo per conformismo sociale. Esiste poi la pressione alla performatività nelle amicizie e nella coppia: bisogna essere sempre presenti agli eventi, rispondere immediatamente ai messaggi, documentare le uscite con foto, dichiarare pubblicamente i propri sentimenti in anniversari e ricorrenze. Chi preferisce la discrezione o ha bisogno di spazi personali rischia di essere percepito come freddo, disinteressato. Ad esempio, un partner che chiede un weekend per conto proprio o non ama postare foto di coppia può suscitare insicurezza nell’altro, proprio perché va contro la norma attuale di iper-visibilità reciproca. Questo rende difficile praticare l’assenza salutare all’interno delle relazioni: molti dimenticano che “la distanza, ogni tanto, ravviva l’affetto”, come dice un vecchio adagio. Al contrario oggi sembra valere “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, ossia se non sei costantemente presente a ricordare il tuo affetto, allora forse quell’affetto non c’è.
A livello più generale, non far parte della vita sociale intensa può portare all’esclusione. Un individuo che rifiuta sistematicamente inviti a eventi mondani, preferendo stare per conto proprio, rischia di non essere più invitato affatto, venendo etichettato come “strano” o “misantropo”. Lo stesso vale per chi non condivide il gusto dominante per la socialità esibita: oggi è quasi atteso che chi va a un concerto posti storie su Instagram, chi viaggia faccia vedere le tappe, chi ha un bambino sommerga di foto i propri contatti. Chi non lo fa, a volte deve giustificarsi (“sto bene, sono felice, solo non amo postare”). La costrizione alla narrazione pubblica è tale che il silenzio desta preoccupazione: “se non scrive nulla, se non mette like, allora c’è qualcosa che non va?”. Sembra incredibile, ma è diventato necessario quasi dimostrare di essere vivi e attivi tramite indicatori digitali.
C’è poi un altro aspetto: la società odierna valorizza l’estroversione e penalizza l’introversione. Come analizzato da Susan Cain nel saggio Quiet: Il potere degli introversi, i contesti scolastici e lavorativi premiano chi parla molto, chi si mostra sempre coinvolto, chi collabora in team rumorosi, mentre guardano con sospetto chi è più silenzioso e riflessivo. Ciò crea una pressione soprattutto sui giovani: molti introversi imparano a “recitare” da estroversi per essere accettati – parlare anche quando preferirebbero ascoltare, socializzare forzatamente per non sembrare snob o depressi. Il silenzio personale viene così stigmatizzato come incapacità comunicativa o disinteresse, mentre potrebbe semplicemente essere uno stile diverso. Questa dinamica spinge tante persone a vivere al di sopra dei propri limiti, consumandosi in un over-socializing che non li fa stare bene, pur di evitare l’etichetta di “asociale”.
Tuttavia, come reazione a tutto ciò, vanno emergendo contro-narrazioni che valorizzano la “JOMO” (Joy Of Missing Out), ossia la gioia di perdersi qualcosa. Alcuni iniziano orgogliosamente a dire: “Sì, non ero a quella festa e va bene così; ho passato la serata a leggere ed ero felice.” È un tentativo di normalizzare il diritto di non esserci senza sensi di colpa. Sul piano socio-economico, la pandemia di Covid-19 ha dato un curioso impulso a questo ripensamento: durante i lockdown molti hanno sperimentato forzatamente l’assenza di vita mondana e la disconnessione fisica, e qualcuno ha scoperto che – tolto il dramma sanitario – stava meglio con meno obblighi sociali. Finita l’emergenza, non tuttə hanno voluto tornare alla vita di prima. Si parla ad esempio di “downshifting sociale”: scegliere pochi amici stretti invece di mille contatti superficiali, preferire serate tranquille a casa piuttosto che movida ogni weekend, ecc. Queste scelte rimangono minoritarie rispetto alla norma, ma segnalano un crescente desiderio di equilibrio tra presenza e assenza.
Un’altra dimensione della pressione alla visibilità riguarda la sfera politica e dell’attivismo. Chi appartiene a gruppi marginalizzati spesso viene investito dall’aspettativa di “farsi vedere e sentire” per la causa. Ad esempio, una persona transgender potrebbe sentirsi dire che è importante che racconti pubblicamente la sua storia per sensibilizzare l’opinione pubblica. Ma ecco un paradosso: se quella persona invece desidera solo vivere la propria vita privatamente, lottando con le proprie difficoltà in silenzio, può essere criticata (anche all’interno della comunità) per non fare abbastanza rumore per i diritti. Questo evidenzia una tensione: la scelta del silenzio personale a volte confligge con la pressione alla testimonianza pubblica. Bisognerebbe riconoscere il diritto di ciascuno al proprio livello di visibilità senza giudizio. Non tutti si sentono di essere sotto i riflettori, e costringerli può essere ulteriore violenza. In certi casi quindi non esserci mediaticamente è una salvaguardia della propria salute mentale, e andrebbe rispettata come scelta.
Riassumendo, il “non esserci” oggi è quasi un’arte difficile da praticare: chi ci prova, deve spesso nuotare contro corrente. I costi sociali del silenzio volontario possono includere incomprensioni, esclusione dai circuiti attivi, perdita di opportunità lavorative, etichettamenti negativi (pigro, scostante, depresso). Questa difficoltà strutturale spinge molti a rifuggire il silenzio e l’assenza, non perché non ne sentano il bisogno, ma per paura delle conseguenze. È un circolo vizioso: tutti a lamentarsi di essere stressati e reperibili 24h, ma pochi osano spezzare il gioco perché il sistema punisce chi lo fa.
Che fare allora? Una strada è collettivizzare il cambiamento di paradigma. Ad esempio, sul lavoro dovrebbero essere i dirigenti a dare il buon esempio, disconnettendosi loro per primi e garantendo un ambiente dove il pausa-shaming (far vergognare chi si riposa) non è tollerato. Nella vita sociale, normalizzare il fatto che un amico possa dire “no stavolta non esco, preferisco stare per conto mio” senza drammi. Dovremmo anche educarci a comunicare meglio il nostro bisogno di silenzio: spesso basta spiegare con onestà “ho bisogno di ricaricarmi, nulla di personale”, affinché gli altri capiscano. Infine, sul piano culturale occorre continuare a produrre narrazioni (come questo saggio stesso ambisce a fare) che mostrino il valore del silenzio e del ritiro, scardinando l’idea che chi si defila non abbia nulla da dare. L’auspicio è una società più inclusiva anche per gli spazi vuoti: dove esserci sempre non sia più l’unica strada per essere considerati validi membri della comunità.
Prospettive cliniche: burnout, “depressione attiva”, crisi di desiderio
Dopo aver esplorato i risvolti positivi e culturali del silenzio e dell’inazione, è doveroso affrontare anche il versante clinico, cioè le situazioni in cui il ritiro e il non-desiderio emergono come segnali di un malessere psicologico. Termini come burnout, depressione e anedonia (assenza di desiderio/piacere) indicano condizioni su cui il dibattito odierno è molto acceso. In queste condizioni, il “non fare” e il “non volere” possono apparire sia come sintomi da combattere sia, paradossalmente, come parti del processo di guarigione.
Burnout: quando fermarsi diventa necessario
Il burnout è definito dall’OMS come una sindrome da stress lavorativo cronico, caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione (cinismo verso il lavoro e le persone) e calo di efficacia professionale. In parole semplici, il burnout è il collasso dopo un periodo prolungato di iper-azione senza adeguato recupero. La persona in burnout spesso riferisce di non farcela più, di sentirsi svuotata e distaccata da ciò che fa. Uno dei segni tipici è la riduzione dell’iniziativa: qualcuno che prima era motivato e intraprendente, ora fatica ad alzarsi dal letto, procrastina, perde interesse in ogni progetto. È come se il corpo e la mente, dopo aver corso al massimo, tirassero il freno a mano all’improvviso. Questo stop forzato può essere vissuto malissimo dal soggetto (che si colpevolizza per la propria improduttività sopraggiunta), ma in realtà è un segnale di autodifesa dell’organismo: se non ci si ferma, il prezzo può essere altissimo (dalla depressione maggiore al collasso fisico).
Nella clinica del burnout, il ritiro temporaneo dal lavoro non è solo consigliato, è spesso indispensabile. Molti si accorgono di essere in burnout solo quando sono costretti a prendere un congedo medico perché non riescono più a svolgere nemmeno le mansioni base. Durante quel periodo di stacco (che idealmente dovrebbe durare finché i sintomi non regrediscono), la persona sperimenta un mix di sollievo e ansia: sollievo perché finalmente può non fare niente senza sentirsi in colpa – su ordine del medico! – e ansia perché la società le ha inculcato che così non va bene. Un supporto psicologico in questa fase mira proprio a validare la necessità di fermarsi: far capire al paziente che il suo valore non dipende dalla produttività immediata e che riposare ora è investire sulla ripresa futura. Lentamente, col riposo, la maggior parte delle persone in burnout recupera energie e chiarezza mentale. Una paziente potrebbe dire: “Dopo due settimane a casa a dormire e uscire a fare passeggiate, ho ricominciato a desiderare alcune cose, come cucinare per piacere o telefonare a un amico, che prima non mi interessavano più.” Questo è il segnale che il desiderio sta tornando quando l’esaurimento si allenta.
Un’immagine efficace del burnout è quella del fiammifero bruciato: prima un fuoco vigoroso, poi solo un legnetto carbonizzato. Per “riaccendere” la fiamma del desiderio e della motivazione, occorre far sedimentare le ceneri, dare tempo. Non a caso, alcune aziende (specie nel Nord Europa) hanno iniziato a offrire ai dipendenti a rischio burnout dei sabbatical (periodi sabbatici) di qualche mese, per evitare che crollino definitivamente. È un esempio di come l’inazione (sabbatical: non lavorare per un periodo) venga istituzionalizzata come strumento di prevenzione e cura. Il rischio, se no, è che si arrivi a rotture drastiche: quante volte si sente di persone che mollano tutto dall’oggi al domani (quitters) perché hanno superato il limite? Se avessero potuto inserire prima qualche stop, forse non si sarebbe arrivati al punto di non ritorno.
Va detto che nel burnout il ritiro è curativo solo se accompagna a una rielaborazione del proprio approccio al lavoro e ai limiti personali. Se una persona si ferma ma poi, tornata in campo, ricomincia con gli stessi identici ritmi e perfezionismi, il burnout rischia di ripresentarsi. Quindi il periodo di non-azione dev’essere anche un periodo di riflessione: “Perché sono arrivato a questo punto? Cosa posso cambiare in futuro – ridurre carichi, delegare, mettere confini tra lavoro e vita privata – per non bruciarmi di nuovo?” In tal senso, la pausa attiva (in cui ci si interroga) è più efficace della pausa passiva (in cui semplicemente si attende di stare meglio senza introspezione). I gruppi di supporto per stressati o gli interventi di stress management insegnano proprio questo: il valore del dire no, del chiedere aiuto e del riequilibrare fare/non fare lungo l’arco della settimana. Cose che paiono semplici, ma nella prassi di persone abituate a stra-lavorare sono vere rivoluzioni abitudinarie.
Depressione attiva: l’iperattività come fuga dal vuoto
Il termine “depressione attiva” potrebbe sembrare un ossimoro: associamo la depressione al rallentamento, all’apatia, quindi a un non-agire. In realtà, nella clinica si osservano forme di depressione celate dietro una facciata di iperattività – persone che, pur essendo profondamente depresse, continuano a fare, fare, fare come se nulla fosse, a volte in modo ancora più frenetico. Questa condizione è stata popolarmente chiamata anche “high-functioning depression” (depressione ad alto funzionamento) o “smiling depression” (depressione col sorriso). In italiano, alcuni parlano di depressione mascherata, intendendo che i sintomi classici (tristezza evidente, ritiro sociale) sono mascherati da un comportamento apparentemente normale o addirittura sovra-efficiente.
Perché includerla qui? Perché paradossalmente, in questi casi, l’inazione e il silenzio potrebbero essere passi avanti, non indietro. Mi spiego: chi soffre di “depressione attiva” spesso usa l’attivismo come meccanismo di difesa, per non sentire il dolore o il vuoto. Riempie ogni ora di impegni, appare brillante e sorridente con tutti, ma dentro può covare disperazione e perdita di senso. Il terrore di fermarsi è il terrore di crollare: se questa persona si fermasse, teme che la travolgerebbe un’onda di angoscia insostenibile. Ecco che il non fermarsi mai diventa patologico, perché impedisce di riconoscere il problema e chiedere aiuto. Molti di questi individui crollano all’improvviso, lasciando attonite le persone attorno (“Sembrava andasse tutto bene, era sempre così attivo e allegro, e poi ho saputo che contemplava il suicidio…”).
In tali situazioni, imparare a stare nel silenzio e nell’inazione è parte integrante della cura. Un percorso terapeutico può incoraggiare la persona a provare a rallentare gradualmente, a sperimentare piccoli momenti di inattività e verificarne la tollerabilità. All’inizio magari emergono ansia, inquietudine (i pensieri depressivi che affiorano), ma con l’aiuto del terapeuta e magari di farmaci, si può reggere quell’impatto. Pian piano, l’individuo apprende che fermarsi non significa disintegrarsi, anzi: apre lo spazio per capire cosa non va e come affrontarlo. La “depressione attiva” viene quindi smascherata e può diventare depressione classica su cui lavorare. Spesso in questi percorsi affiora una enorme stanchezza: anni di iperfunzionamento per “tenere in piedi la baracca” emotiva lasciano spossati. Va concesso a queste persone di riprendersi con calma, di dormire, di ridurre gli impegni, come parte della terapia. È come togliere la corazza ad un guerriero ferito: una volta tolta, il guerriero apparirà debole, ma solo così si possono curare le ferite sotto la corazza.
Inoltre, esiste un fenomeno quasi opposto, a cui a volte ci si riferisce con “depressione attiva” intendendo uno stato in cui il soggetto depresso diventa improvvisamente attivo ma con scopi autodistruttivi. Ad esempio, capita che una persona in depressione profonda, prima apatica, ad un certo punto trovi l’energia per pianificare e tentare il suicidio. Quella è un’attività pericolosa, perché segna l’esecuzione di un desiderio di morte. Per questo i clinici avvertono: quando un depresso grave comincia a mostrare più iniziativa, paradossalmente aumenta il rischio di suicidio, perché può aver trovato la forza per attuare i suoi intenti. In tali casi, si auspicherebbe invece un prolungamento del “non agire” su quegli impulsi fatali. Qui la dialettica fare/non fare assume un’urgenza drammatica: convincere il paziente a non compiere quel gesto, a rimandare, a restare nel silenzio della sua sofferenza ancora un po’ finché l’aiuto fa effetto. Non è facile, ma è letteralmente salvavita.
Crisi del desiderio: dall’anedonia alla ricerca di nuovi orientamenti
La crisi di desiderio può avere vari volti. Può essere una crisi esistenziale: “non so più cosa voglio dalla vita”. Oppure una crisi motivazionale: “niente mi entusiasma, non provo più piacere per le cose che amavo” (anedonia). O ancora una crisi della volontà: “vorrei avere desideri, ma mi sento spento”. In ogni caso, ci si trova di fronte a un calo o assenza di tensione desiderante, che lascia la persona in uno stato di vuoto e smarrimento.
Clinicamente, la perdita di desiderio è sintomo cardine della depressione – come dicevamo, l’anedonia, ovvero l’incapacità di provare piacere o interesse, è uno dei criteri diagnostici. Tuttavia, si parla di crisi perché può essere anche transitoria e situazionale: ad esempio, dopo un grande fallimento o una delusione amorosa, una persona può attraversare un periodo in cui niente le importa. Non sempre ciò evolve in depressione clinica; a volte è un passaggio di transizione, un tempo di “morte apparente” del desiderio in attesa di una metamorfosi.
Interessante è la prospettiva dello psicoanalista italiano Massimo Recalcati, che ha scritto del “vuoto di desiderio” nella società contemporanea. Secondo Recalcati, l’iperconsumismo capitalistico ha creato un paradosso: spinge al godimento illimitato e immediato, saturando di oggetti e stimoli, e così facendo uccide il desiderio vero, che per natura nasce da una mancanza e da un’attesa. Sovrastimolati da prodotti, intrattenimenti e pornografia, gli individui finiscono per trovarsi in una “carestia del desiderio” – tutto sembra già disponibile, niente attrae più davvero. Questa bulimia di pseudo-soddisfazioni genera poi un rigetto: un vissuto depressivo di nausea e noia. In questa lettura, la crisi di desiderio odierna non è solo un fatto clinico individuale, ma quasi una patologia collettiva di una società dell’opulenza. Il non-desiderare diffuso tra molti giovani (poco entusiasmo per il futuro, disinteresse per relazioni stabili o per carriere lunghe) potrebbe essere letto anche come una protesta implicita: in un mondo che offre modelli di successo percepiti come vuoti di senso, non volere nulla di quell’offerta diventa un modo per esprimere dissenso o per proteggersi da delusioni. Certo, ciò può scivolare nella paralisi – ed è qui che serve aiuto.
Come si affronta clinicamente una crisi di desiderio? In psicoterapia, un elemento chiave è riscoprire (o scoprire ex novo) cosa dà significato alla vita della persona. Viktor Frankl, fondatore della logoterapia, sosteneva che la depressione in molti casi è un vuoto di significato – riempirlo di uno scopo (anche piccolo) è la via per riattivare il desiderio di vivere. Ciò passa spesso per il riallacciare contatto con se stessi nel profondo. La frenesia del fare può avere allontanato la persona dai propri bisogni autentici; la fase di non-azione forzata (per esempio durante una malattia o un licenziamento) pur dolorosa obbliga a guardarsi dentro e chiedersi: “Cosa conta davvero per me? Cosa mi faceva battere il cuore in passato, e perché l’ho perso?” Spesso i desideri non sono scomparsi, solo sono sepolti da strati di condizionamenti esterni. Togliendo rumore e obblighi (di nuovo, il silenzio aiuta), quelle voci interiori possono riemergere timidamente. Magari la persona riscopre che le piaceva dipingere, o che vorrebbe aiutare gli altri, o che sogna di viaggiare – piccole scintille che vanno alimentate pian piano.
Dal punto di vista esistenziale, alcuni filosofi sottolineano il valore della “accettazione del non-desiderio” come fase. Non bisogna forzare subito la riaccensione. Viviamo in una società che ci vuole sempre desideranti (consumatori, ambiziosi, passionari). Invece può essere salutare permettersi un periodo di quiescenza dei desideri, come una quiete invernale dell’anima. Proprio come la natura ha stagioni in cui sembra che nulla accada ma intanto i semi dormono sotto terra pronti a germogliare a primavera, così l’essere umano può attraversare “inverni del cuore” dove esternamente c’è silenzio e nulla appare muoversi, ma interiormente si prepara un rinnovamento. Pensiamo alle crisi di mezza età: spesso un 50enne improvvisamente perde interesse nel lavoro che ha fatto per 30 anni, si sente svuotato. È doloroso, ma può preludere a una trasformazione: magari scoprirà nuove inclinazioni, deciderà di cambiare vita. Molte rinascite partono da quel vuoto fertile. Carl Jung parlava della “enantiodromia”, il principio per cui un fenomeno spinto al suo estremo si tramuta nel suo opposto: il troppo desiderio porta al disgusto e all’assenza di desiderio; l’assenza di desiderio, se vissuta fino in fondo, può generare la nostalgia del desiderare di nuovo.
Anche la sessuologia affronta la crisi del desiderio, soprattutto nelle coppie di lunga data che lamentano calo della libido. Una strategia nota è il “stop and go”: viene consigliato di fare un periodo di astinenza concordata per togliere pressione e riscoprire altri tipi di intimità, e poi reinserire gradualmente l’attività sessuale come novità. Qui di nuovo vediamo l’idea del ritiro temporaneo per rigenerare: sospendere un comportamento dove il desiderio è fiacco, in modo da farlo “riposare” e poterlo ritrovare più avanti. Funziona come quando si dice “la distanza ravviva il sentimento”: non vedersi per un po’ può far rinascere la voglia di rivedersi. Così, non fare sesso per un periodo concordato può innescare nuova curiosità quando ci si riavvicina. Naturalmente questo va guidato e comunicato bene per non creare fraintendimenti.
In sintesi, sul versante clinico il silenzio e il non-agire compaiono con volti ambivalenti: come sintomi da monitorare (il ritiro sociale grave, l’abulia totale, l’anedonia persistente), ma anche come strumenti terapeutici (il riposo nel burnout, il downtime nella depressione attiva, la pausa riflessiva nella crisi di desiderio). L’obiettivo della clinica è aiutare la persona a non rimanere imprigionata né in un estremo né nell’altro: né nell’iperattività che nega il disagio, né in un ritiro cronicizzato che diventa isolamento sterile. Piuttosto, si tratta di integrare attivazione e riposo, desiderio e accettazione, in un ciclo vitale equilibrato. La guarigione spesso passa per la capacità di sostare nel buio senza disperare, finché non si intravede una luce nuova. È emblematico il detto attribuito a Pascal: “Tutta l’infelicità umana deriva dalla sua incapacità di starsene nella propria stanza da solo in silenzio.” Imparare a stare in quella stanza buia del non-desiderio e del non-fare è parte della cura – perché solo attraversando il silenzio si può poi tornare al rumore della vita con un rinnovato apprezzamento.
Conclusioni: recuperare uno spazio sano per il non-desiderio, la contemplazione e la sosta
Il viaggio attraverso silenzio e inazione come scelta attiva ci ha condotto a comprendere come il “non fare” e il “non desiderare” possano avere un valore positivo e trasformativo nella nostra vita. Lung lungi dall’essere mere mancanze o vuoti da colmare, questi stati possono diventare spazi vitali da coltivare. Tuttavia, recuperarli nella società odierna richiede intenzionalità e controtendenza. Come possiamo dunque, concretamente, ritagliare uno spazio sano per la contemplazione, la pausa e il non-desiderio nelle nostre esistenze iper-stimolate?
In primo luogo, occorre una rieducazione del nostro sguardo: imparare a vedere il silenzio e la pausa non come interruzioni della vita, ma come parte integrante di essa. Esattamente come la musica ha bisogno di pause tra le note per generare armonia, così la nostra quotidianità ha bisogno di intervalli di quiete per avere senso e ritmo. Si tratta di interiorizzare che non dobbiamo essere produttivi o desideranti in ogni istante. Dare a sé stessi il permesso di non avere sempre obiettivi, di non riempire ogni minuto, è il primo passo. Possiamo ad esempio iniziare praticando la “micro-sosta”: momenti brevissimi durante la giornata in cui ci fermiamo anche solo 1-2 minuti, magari facendo nulla se non respirare. Queste pause consapevoli, ripetute, allenano la mente a non aver paura del vuoto. Un esercizio semplice è il seguente: quando siete in coda o in attesa (situazioni in cui normalmente tiriamo fuori il telefono per ingannare il tempo), provate invece a non fare nulla. Osservate l’ambiente, sentite i suoni lontani o il silenzio circostante, lasciate vagare la mente. All’inizio potreste avvertire irrequietezza (“sto sprecando tempo?”), ma pian piano quell’attesa inerte può diventare un momento piacevole di decompressione.
Sul piano personale, ciascuno dovrebbe trovare la forma di contemplazione o inattività più adatta a sé. C’è chi medita seduto in posizione classica, chi invece contempla cucinando lentamente o curando piante in silenzio. L’importante è che l’attività (o non-attività) scelta non abbia come scopo un risultato, ma sia fine a se stessa, o meglio fine al benessere interiore. Può essere utile definire dei “rituali di silenzio” giornalieri: per esempio, decidere che la prima mezz’ora al mattino avviene senza guardare notizie o telefono – si fa colazione in pace, guardando fuori dalla finestra, assaporando il cibo senza input esterni. Oppure la sera spegnere tutti gli schermi mezz’ora prima di dormire e leggere un libro o semplicemente fare stretching leggero in camera. Questi momenti sgombri da informazioni permettono al cervello di distendersi e magari di elaborare creativamente quanto vissuto durante il giorno.
Un altro aspetto cruciale è smettere di demonizzare il “non desiderare” certe cose che la società impone. Se in un dato periodo della vita non abbiamo voglia di avanzamento di carriera, o di nuove relazioni, o di metter su famiglia, dovremmo poterlo riconoscere senza considerarci falliti. Accettare il non-desiderio ci dà l’opportunità di capire se è un segnale che stiamo rincorrendo desideri non nostri. Spesso, infatti, la spinta al desiderare viene dall’esterno (status, aspettative familiari, pressioni pari). Fare pace col momento in cui sentiamo “adesso non voglio nulla di più” può aiutarci a individuare i desideri autentici quando emergeranno spontaneamente, anziché forzarne di posticci. In pratica, si può decidere di “stare in pausa” rispetto a certi obiettivi sociali: ad esempio, un giovane potrebbe dire a sé stesso “Per un anno non penserò alla carriera, farò il mio lavoro dignitosamente ma senza cercare promozioni, e mi concentrerò invece sul capire cosa mi piace veramente”. Questa è una dichiarazione di non-desiderio attivo: sospendere volontariamente la corsa per riorientarsi. Lungimiranti sono quelle aziende o università che concedono anni sabbatici, perché riconoscono che dopo un periodo di sosta spesso l’individuo ritorna con idee più chiare e motivazioni rinnovate (o magari con la decisione che vuole cambiare rotta, il che è comunque positivo per la sua vita).
A livello collettivo e culturale, per recuperare spazio al silenzio si potrebbero adottare strategie simili a quelle ecologiche per il verde urbano: così come nelle città si creano zone di quiete (parchi, biblioteche, sale silenziose), andrebbero promossi anche “tempi di quiete” condivisi. Una suggestione: perché non immaginare giornate del silenzio digitale, in cui una comunità (una scuola, un’azienda, un intero paese) spegne volontariamente social e tv per 24 ore e organizza magari attività contemplative, passeggiate, letture pubbliche in silenzio? Ci sono già iniziative simili, come la Giornata senza auto per ridurre il rumore e smog urbano; una giornata senza rumore potrebbe sensibilizzare sui benefici della calma. Certo, sembra utopistico su larga scala, ma anche piccoli esperimenti possono avere impatto.
Un’altra idea è quella di educare fin dall’infanzia al valore del silenzio. Nelle scuole, spesso c’è un baccano continuo; insegnare ai bambini la mindfulness o semplici esercizi di respirazione silenziosa può aiutarli a sviluppare attenzione e calma. Alcune scuole innovative iniziano la giornata con 5 minuti di meditazione per tuttə lə studentə: i risultati sul clima di classe sono incoraggianti. Così come li educhiamo a parlare in pubblico, dovremmo educarli a stare bene anche in silenzio, da soli e in gruppo. Ad esempio, facendo apprezzare momenti di ascolto della natura durante una gita, o introducendo la “regola del bastone della parola” in cerchio: parla uno per volta mentre gli altri tacciono attivamente ascoltando. Si interiorizza così che il silenzio non è assenza di comunicazione, ma parte di essa.
In conclusione, recuperare uno spazio sano per il non-desiderio, la contemplazione e la sosta equivale in fondo a recuperare la nostra umanità più profonda. Significa ricordarci che siamo esseri ciclici, non macchine lineari sempre accese. Come scrive il poeta Rilke, “ci sono momenti che passiamo muti e immoti per poi sentirci nelle tempie un canto immenso”: quei momenti di apparente inattività in realtà ci accordano con noi stessi e col mondo. Nel silenzio impariamo ad ascoltare ciò che davvero conta, e nell’inazione ritroviamo l’essere che sostiene il fare. Recuperare questi spazi è dunque un atto sia individuale che politico: individuale perché riguarda il nostro equilibrio e benessere, politico perché contrasta attivamente una cultura che ci vuole costantemente occupati e insoddisfatti.
In un’epoca rumorosa, saper creare silenzio è come trovare un’oasi nel deserto. In un’epoca di consumi incessanti, saper dire “non voglio nulla al momento” è come digiunare per riscoprire il gusto del cibo. Ci vuole coraggio e ci vuole allenamento, ma i benefici – come abbiamo visto – sono innegabili: maggior salute mentale, creatività, autenticità, e persino una rinnovata capacità di desiderare in modo più genuino. D’altra parte, silenzio e parola, azione e inattività non sono nemici, bensì poli complementari dell’esperienza umana. Riequilibrandoli, riusciamo forse a vivere con più pienezza. E allora il silenzio non farà più paura, l’ozio non sarà più vergogna: saranno parte del ritmo naturale delle nostre vite, come la notte segue il giorno. E da quel silenzio rigenerato potremo tornare al mondo delle voci portando un contributo più autentico e una presenza più consapevole.
Bibliografia
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- Melville, H. (1853). Bartleby, lo scrivano. Racconto breve (ed. it. Feltrinelli) –
- Gončarov, I. (1859). Oblomov. Romanzo (ed. it. Einaudi)
- Thoreau, H.D. (1854). Walden, ovvero Vita nei boschi. Diario filosofico
- Cain, S. (2012). Quiet: Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare. (Ed. it. Bompiani, 2013)
- Recalcati, M. (2020). La tentazione del muro: Lezioni brevi per un lessico civile. Feltrinelli
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