Ci sono momenti in cui la vita si deforma piano, altre volte crolla tutta insieme. Il licenziamento mi arrivò a mezz’ora dalla fine del turno, senza preavviso, senza una motivazione chiara, con lo sbigottimento muto di colleghi che avevano assistito ai miei sforzi. Una decisione improvvisa, comunicata a voce, ma con l’eco lunga di un’ingiustizia non spiegata. Avevo già capito che non era il mio lavoro a definirmi, ma quella perdita segnò comunque un punto. Un prima e un dopo. Una soglia che non avevo chiesto di attraversare.
Pochi giorni dopo, la telefonata di un amico. La mia ex compagna – con cui, seppur a distanza, mantenevo contatti periodici, e che sapevo alle prese con una vita complessa – si era tolta la vita. Ci eravamo sentiti poco tempo prima, proprio in merito alla mia situazione lavorativa. Nulla lasciava intuire una fine così radicale. Quella notizia lasciò un’eco, un ronzio costante. Non dolore netto, ma qualcosa che si è sedimentato nei muscoli e nella voce. Una forma muta di colpa, che non cerca spiegazioni ma solo spazio per respirare.
Fu allora che tagliai i capelli. Un gesto che per altri può sembrare lieve, ma che per me ha sempre avuto un significato profondo: quella lunghezza parlava in mia vece. Diceva della mia identità agender, della mia spiritualità personale, di un modo silenzioso di comunicare chi sono, senza bisogno di spiegazioni. Donarli fu un gesto generoso, sì, ma anche una frattura. Un linguaggio perso, una protezione rimossa. Mi sono sentito nudo.
Qualche settimana fa, durante una corsa, un’auto non si fermò sulle strisce. Nulla di gravissimo – almeno così dissi subito, con la mia consueta ironia – ma sufficiente a incrinare ancora qualcosa. Il corpo ha tenuto, la mente meno. Da quel momento, ho iniziato a convivere con un tipo di stanchezza che non si risolve con il sonno, e che sposta continuamente il suo peso da una zona all’altra. Un residuo sottile, come un eco.
Intanto, da mesi, una serie di controlli medici regolari mi accompagna. Un passaggio clinico affrontato con lucidità, e fortunatamente preso per tempo. Ma che comunque lascia una traccia: il senso che il corpo, oggi, vada osservato da vicino. Che ogni piccola variazione vada interpretata, contestualizzata, sorvegliata. Nulla di urgente, ma sufficiente a modificare lo sguardo che porto su di me.
In tutto questo, il corpo ha perso la sua forma abituale. I capelli che crescono , ma lontani dall’immagine e identità che mi fa stare a mio agio , il volto che non riconosco subito allo specchio. Mi accorgo di quanto l’identità – quella profonda, non quella scritta nei documenti – sia stata spesso ancorata a immagini: la chioma lunga, il volto sottile, la postura in cui mi sentivo abitabile. Quel corpo parlava, evitava spiegazioni. Era un modo di sottrarmi al binarismo, ma anche una forma di affermazione muta. Quando l’ho perso – per stanchezza, per necessità, per scelta quasi rituale – è stato come zittirmi da solo.
E ora che i capelli stanno ricrescendo, ora che provo a ritornare a quella forma, so che non sarà semplice riconoscermi di nuovo. Ci vorrà tempo per guardarmi con meno severità. È stato un percorso lungo, fatto anche di visite, diagnosi, silenzi. So che mi sto avvicinando a qualcosa che assomiglia a una versione di me che amavo. Ma so anche che non sarà più la stessa cosa.
Eppure, nel mezzo di questa lenta smagliatura, qualcosa ha resistito. Una spiritualità personale, silenziosa. Gesti quotidiani. Meditazione. Contatto con la natura. Un ritorno a riti minimi, a respiri misurati, a una presenza che non cerca di tornare com’era, ma di esistere nel qui e ora, con quello che c’è.
Ed è proprio da qui che comincia il lavoro più sottile, forse più importante: quello della ricostruzione. Di seguito, propongo un’esplorazione integrata, psicoterapeutica e neurofisiologica, su come riappropriarsi del proprio centro dopo una frattura. Con uno sguardo clinico ma radicato nell’esperienza, proveremo a delineare il cammino possibile — non per cancellare il trauma, ma per attraversarlo.


“Nella quiete della notte, una volta spente le luci, il mondo di Luca si trasforma. Il soffitto della sua camera è lo schermo su cui si proietta, implacabile, il ricordo di quell’istante fatale. Un lampo di fari nella pioggia, il suono assordante di lamiere che si contorcono, poi il silenzio irreale. Luca si riscuote di soprassalto, il cuore martellante nel petto e il respiro corto. Accanto a sé non c’è nulla di minaccioso, solo i mobili familiari in penombra. Eppure il suo corpo è convinto che il pericolo sia ancora presente. Mentre cerca di rallentare il respiro, si rende conto che sta tremando. Si sente scollegato: come se una parte di lui fosse ancora bloccata in quell’auto, sotto la pioggia battente, mentre un’altra parte osserva la scena dall’esterno. Al lavoro, il giorno dopo, i colleghi gli parlano ma le parole sembrano arrivare attutite, lontane. Luca annuisce, ma dentro di sé è altrove. Si domanda se sta impazzendo: perché il mondo continua come nulla fosse, mentre dentro di lui tutto è cambiato? Nel giro di poche ore la sua vita ha preso una piega inaspettata e dolorosa. Adesso deve affrontare le conseguenze di quel trauma, passo dopo passo, in un percorso che lo porterà dalle tenebre della crisi alla luce tremolante di una nuova speranza”.
Le fasi successive a un evento traumatico
Un evento traumatico – sia esso un lutto improvviso, un grave incidente, una diagnosi medica spaventosa, la perdita del lavoro o una profonda crisi identitaria – innesca tipicamente una sequenza di reazioni psicologiche. Ogni persona vive il trauma a modo suo, ma esistono delle fasi comuni che molti attraversano dopo uno shock significativo. Riconoscere queste fasi può aiutare a capire che ciò che si prova non è follia né debolezza, ma parte di un normale processo di adattamento a qualcosa di “non normale” accaduto nella propria vita.
- Fase di shock e incredulità: Subito dopo l’evento traumatico spesso si sperimenta uno stato di stordimento. La mente fatica a credere a ciò che è successo. Si può sentirsi emotivamente intorpiditi oppure travolti da un turbine di sensazioni confuse. Molte persone descrivono questa fase come “sentirsi in una bolla” o in un sogno. Ad esempio, durante il funerale di una persona cara, ci si può scoprire stranamente calmi, come anestetizzati: è il meccanismo di sopravvivenza della psiche, che smorza il dolore insopportabile per permettere di affrontare le necessità pratiche immediate. In questa fase è comune anche la negazione: una parte di noi rifiuta la realtà (“Non può essere vero, dev’essere un errore”) per guadagnare tempo e proteggerci dal collasso emotivo.
- Fase di impatto emotivo acuto: Superato il primo momento di incredulità, le emozioni irrompono con forza. Si alternano ondate di tristezza profonda, paura, rabbia, senso di colpa o vergogna. Possono emergere pensieri ricorrenti sull’evento (“Se solo avessi…”, “Perché proprio a me?”) e immagini intrusive, come flashback o incubi notturni, che riportano la persona mentalmente al trauma. A livello fisico, il corpo continua a reagire allo stress: disturbi del sonno, incubi, tachicardia, sudorazione, ipervigilanza (sobbalzare a ogni rumore improvviso) sono frequenti. Questa fase è spesso caotica e spaventosa, perché l’individuo si rende conto di aver perso il controllo delle proprie reazioni emotive e corporee. Allo stesso tempo, possono manifestarsi strategie di evitamento: alcune persone cercano di non pensare all’accaduto, evitano i luoghi o le situazioni che lo ricordano, tentando di “tenere tutto a bada”. È un periodo in cui si oscilla fra il rivivere continuamente il trauma e il tentare di allontanarlo dalla mente.
- Fase di elaborazione e confrontazione: Col passare delle settimane o dei mesi, dopo il picco iniziale, gradualmente si passa a una fase di elaborazione più consapevole. Qui la persona inizia ad affrontare quanto accaduto in modo più diretto – spesso con l’aiuto di altri o di un professionista. Significa dare un nome alle proprie emozioni, cercare un senso o una spiegazione all’evento (“Perché è successo? Cosa significa per me?”), e pian piano integrare il trauma nella propria memoria e identità. È un periodo delicato: il dolore può riaccendersi quando si scava nei ricordi, ed è normale fare due passi avanti e uno indietro. La mente potrebbe alternare momenti di relativa calma ad altri di ricaduta nell’angoscia. In questa fase è fondamentale iniziare a narrare l’evento, ossia costruire un racconto (anche solo mentale, o parlandone) che abbia un inizio, un momento culminante e un dopo. Ad esempio, Luca inizia a raccontare a un amico intimo cosa ricorda dell’incidente, oppure scrive su un diario le sue sensazioni: sta gettando le basi per rimettere insieme i pezzi della sua esperienza. L’elaborazione comporta anche il piangere ciò che è perduto (una persona cara, la salute, la sicurezza di prima) – un processo simile al lutto, con momenti di profonda tristezza ma anche il graduale affiorare di ricordi preziosi e significati nascosti.
- Fase di riorganizzazione e adattamento: Con il tempo, l’intensità delle emozioni acute tende ad attenuarsi. Si entra così in una fase in cui il trauma, pur rimanendo un evento significativo, cessa di essere il centro assoluto dell’esistenza quotidiana. La persona inizia a riorganizzare la propria vita tenendo conto di quanto accaduto. Significa magari sviluppare nuove routine, riprendere (o reinventare) le attività lavorative e sociali, e trovare modi per far fronte agli eventuali cambiamenti permanenti derivati dall’evento (ad esempio, convivere con una cicatrice fisica o con l’assenza di chi non c’è più). A livello psicologico, questa fase corrisponde a una graduale accettazione: attenzione, accettare non vuol dire dimenticare né approvare ciò che è successo, ma riconoscere che fa parte della propria storia. È il momento in cui il trauma viene collocato nel passato. Si possono ancora provare tristezza o malinconia pensando all’evento, ma non occupa più ogni pensiero né scatena continuamente reazioni emotive incontrollabili. In altre parole, la ferita inizia a cicatrizzare. Spesso in questa fase le persone riescono anche a dare un significato a ciò che è successo (“Da allora ho capito quali sono le cose davvero importanti”, “Ho scoperto risorse in me che non conoscevo”). Questo apre la porta all’ultima tematica, ovvero la possibilità di una crescita post-traumatica e di una trasformazione personale, di cui parleremo più avanti.
Va sottolineato che queste fasi non sono lineari e uguali per tutti. Si può tornare più volte su una fase precedente – ad esempio, un anniversario o un ricordo improvviso possono far ripiombare nella rabbia o nel dolore acuto anche a distanza di tempo. Inoltre, se il trauma è complesso (ripetuto nel tempo, come abusi protratti, o accumulo di stress multipli), l’elaborazione può richiedere periodi molto lunghi e l’aiuto costante di supporto professionale. In alcuni casi, le reazioni iniziali non si risolvono ma evolvono in un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) o in altre problematiche (depressione, disturbi d’ansia). Ciò avviene quando la persona rimane “bloccata” nel circolo vizioso di rivivere il trauma e evitarlo, senza riuscire a integrarlo. La buona notizia è che anche in questi casi la psicologia e la psichiatria moderne offrono diversi strumenti terapeutici efficaci per aiutare le persone a ritrovare un equilibrio. Nei paragrafi successivi esploreremo proprio come mente e corpo reagiscono ai traumi e quali approcci clinici – dalla terapia sensomotoria alla mindfulness, dalla teoria polivagale alle tecniche narrative – possono facilitare la guarigione e la crescita.
Dissociazione e frammentazione del Sé
Una delle esperienze più sconcertanti dopo un trauma è la sensazione di essere dissociati, ovvero distanti da se stessi o dalla realtà. La dissociazione è un meccanismo di difesa estremo che la nostra psiche mette in atto quando un evento è troppo intenso per essere sopportato interamente. In termini semplici, è come se la mente “staccasse la spina” a una parte del vissuto: la persona può percepire ciò che accade come irreale, oppure sentirsi estraniata dal proprio corpo o dalle proprie emozioni. Nel caso di Luca, ad esempio, durante l’incidente e nelle ore successive ha vissuto momenti in cui si sentiva come ovattato, in automatico, quasi fosse un osservatore esterno della scena. Molti sopravvissuti a traumi descrivono sensazioni simili: c’è chi riferisce di guardarsi agire dall’alto, chi di non sentire più dolore o paura, come se non fosse successo a lui/lei.
Questa disconnessione mente-corpo può manifestarsi in vari modi e con diversa intensità. Alcune forme comuni di dissociazione includono:
- Depersonalizzazione: la persona ha la sensazione di essere distaccata da sé, dai propri pensieri o dal proprio corpo. Ci si sente “come un robot” o “come se stessi recitando in un film”. Ad esempio, Luca mentre stringeva la mano del suo amico ferito provava la strana impressione che le proprie mani non fossero realmente le sue, come se fossero intorpidite o appartenenti a qualcun altro.
- Derealizzazione: il mondo esterno appare irreale, distante, privo di significato. Si può vedere l’ambiente come attraverso un vetro o una nebbia, i suoni possono sembrare ovattati. È frequente descrivere la scena dell’evento traumatico come rallentata o al contrario ultrarapida, dettagliatissima per certi particolari e totalmente buia per altri.
- Amnesia dissociativa: il trauma può essere ricordato a flash, in modo frammentato, oppure essere inizialmente rimosso dalla memoria cosciente. Questo spiega perché a volte le vittime di incidenti o aggressioni non ricordano parti cruciali dell’evento (ad esempio “non ricordo nulla dal momento in cui ho sentito lo schianto fino a quando mi sono svegliato in ospedale”). La memoria traumatica spesso non viene registrata e integrata come un normale ricordo autobiografico, ma rimane spezzettata in frammenti sensoriali ed emotivi isolati.
La dissociazione, per quanto spaventosa da vivere, è in realtà una risorsa di emergenza della mente. Ci permette di sopravvivere psicologicamente a eventi insostenibili “spegnendo” temporaneamente il dolore e il terrore. È come un interruttore che abbassa il volume delle emozioni quando queste superano la soglia tollerabile (in termini neurobiologici, il cervello attiva circuiti inibitori e il rilascio di oppioidi endogeni, generando un’analgesia e un distacco emotivo protettivo). Questo meccanismo ha radici evolutive: di fronte a un predatore inevitabile, molti animali entrano in uno stato di congelamento (freeze), fingendosi morti. Negli esseri umani, il sistema nervoso autonomo ha una risposta simile mediata dal nervo vago dorsale (come spiega la teoria polivagale di Stephen Porges): di fronte al terrore ineludibile, il corpo rallenta, il battito scende, ci immobilizziamo e spesso la mente “si spegne” (stato di collasso). È la base fisiologica della dissociazione.
Il problema sorge quando la dissociazione persiste oltre la situazione di emergenza. Se dopo il trauma la persona continua a sentirsi cronicamente distaccata, incapace di provare piacere o dolore con normalità, intrappolata in un senso di estraneità, ciò interferisce con la vita quotidiana e impedisce di elaborare davvero l’evento. Una narrazione del Sé frammentata è una conseguenza diretta: il racconto che la persona fa di sé e della propria storia appare incoerente, a “pezzi”. Ciò che è accaduto non riesce a collegarsi al resto della biografia in modo significativo. Ad esempio, Luca potrebbe raccontare l’incidente in modo estremamente povero di dettagli (“Ho avuto un incidente, il mio amico non ce l’ha fatta, ed eccomi qua”) oppure, al contrario, con un elenco di flash confusi e non collegati (“ricordo i fari… poi nulla… poi l’ambulanza… il sangue…”); in entrambi i casi manca una trama che unisca quei punti in una storia dotata di senso. Questa frammentazione è tipica del trauma: le memorie traumatiche restano intrappolate in forma sensoriale (immagini, suoni, sensazioni corporee) e non verbale, anziché venire integrate nella memoria autobiografica come un racconto con un contesto spazio-temporale.
Nel lungo termine, dissociazione e frammentazione del Sé possono portare a disturbi dissociativi più strutturati (come il Disturbo Dissociativo dell’Identità, precedentemente noto come personalità multiple, o il Disturbo Dissociativo Complex spesso associato a traumi ripetuti nell’infanzia). In questi casi estremi, la divisione interna è tale che sembra esistere più di un “io” separato. Ma anche in forme meno eclatanti, molti sopravvissuti a traumi riferiscono la sensazione di essere “due persone in una”: una parte di sé funziona normalmente (lavora, interagisce socialmente), mentre un’altra parte è bloccata al momento del trauma, carica di emozioni e dolore non risolti. La teoria della dissociazione strutturale della personalità descrive proprio questo fenomeno: in seguito a traumi gravi, il Sé può suddividersi in parti emotive traumatizzate e parti apparentemente normali che evitano il ricordo traumatico e cercano di condurre la vita quotidiana.
Comprendere la dissociazione è importante sia per chi vive il trauma sia per i terapeuti. Sapere che sentirsi distaccati, “strani” o frammentati è una reazione comune al trauma può alleviare un po’ l’angoscia: non si sta impazzendo, ma si sta reagendo in modo naturale a un evento innaturale. Tuttavia, per guarire davvero, occorre gradualmente riconnettere ciò che si è spezzato: riunire mente e corpo, passato e presente, emozioni e ricordi in un quadro più integrato. Questo richiede tempo, pazienza e spesso un aiuto professionale. Nei prossimi paragrafi vedremo come le terapie moderne affrontano proprio questo compito, lavorando sulla riconnessione mente-corpo e sulla ricostruzione del filo narrativo della propria vita.
Riconnessione al corpo: tecniche “bottom-up” ed embodiment
Dopo un trauma, la strada della guarigione passa inevitabilmente dal corpo. Se il trauma, come abbiamo visto, ci porta a dissociarci e quindi a distrarci dal corpo (non sentire dolore, non sentire le emozioni, percepire il corpo come distante o “non più nostro”), uno degli obiettivi terapeutici fondamentali è riconnetersi alle sensazioni corporee in modo sicuro. In inglese si parla di embodiment, termine che indica il tornare ad “abitare” pienamente il proprio corpo, con consapevolezza e presenza.
Perché il corpo è così importante? Perché il trauma vive nel corpo. Anche quando la mente vuole dimenticare, il corpo ricorda: i muscoli tesi, l’intestino irritabile, il cuore pronto a scattare in tachicardia al minimo segnale. Il celebre psichiatra Bessel van der Kolk ha sintetizzato questa idea nell’espressione “il corpo accusa il colpo” (the body keeps the score): le esperienze traumatiche sono immagazzinate nei nostri circuiti neurofisiologici. Ciò significa che non possiamo affidarci solo al pensiero razionale per superarle; dobbiamo coinvolgere il corpo nel processo di cura.
Le tecniche bottom-up nascono proprio per questo scopo. Si chiamano così perché lavorano “dal basso verso l’alto”: partono dalle sensazioni corporee, dal sistema nervoso autonomo e dai circuiti emotivi più primitivi, per poi influenzare i pensieri e le emozioni più coscienti. È un approccio complementare a quello top-down (dall’alto verso il basso) delle terapie tradizionali basate sul dialogo e la ristrutturazione cognitiva. Entrambi gli approcci sono utili, ma nel caso dei traumi spesso il bottom-up risulta indispensabile, perché come abbiamo visto il trauma attiva livelli profondi e automatici del cervello (le passioni primitive, direbbe lo studioso Jaak Panksepp) su cui le sole parole faticano ad agire.
Ecco alcune delle principali strategie di riconnessione corporea e tecniche bottom-up utilizzate nella psicotraumatologia moderna:
- Grounding (radicamento): Sono esercizi e pratiche per “radicarsi” nel qui ed ora attraverso il corpo e i sensi. Ad esempio, un esercizio di grounding comune consiste nel sentire intenzionalmente i piedi appoggiati per terra, percependo la stabilità del pavimento, oppure nel descrivere ad alta voce cinque cose che si vedono, quattro che si toccano, tre che si odono, e così via. Il grounding aiuta a uscire dai flashback o dai pensieri traumatici riportando l’attenzione al presente sicuro. Quando Luca si sente sopraffatto dal ricordo dell’incidente, il terapeuta potrebbe invitarlo a descrivere dettagliatamente la stanza in cui si trova, gli oggetti attorno a lui, la temperatura dell’aria sulla pelle: questo piano di realtà attuale contrasta l’onda del passato che minaccia di travolgerlo, ricordando al suo cervello che adesso non c’è pericolo imminente.
- Respirazione e regolazione del respiro: Il respiro è un ponte diretto tra mente e corpo. In situazioni di stress traumatico, spesso il respiro diventa rapido e superficiale (iperventilazione) o al contrario si blocca in apnea. Imparare tecniche di respirazione lenta e profonda (come la respirazione diaframmatica, inspirando dal naso ed espirando più a lungo dalla bocca) invia segnali di calma al sistema nervoso. Espirare lentamente, in particolare, stimola il nervo vago in modalità parasimpatica, favorendo il rilassamento. Alcune tecniche come il respiro quadrato (inspirare, mantenere, espirare, mantenere, ognuno per qualche secondo con ritmo quadrato) o la coerenza cardiaca (respiri lenti a 5-6 cicli al minuto) vengono insegnate ai pazienti per gestire ansia, panico e flashback. Luca, ad esempio, ha imparato che quando sente l’adrenalina salire può mettersi seduto con la mano sull’addome e seguire con lo sguardo un orologio, inspirando per 4 secondi, espirando per 6 secondi: questo esercizio semplice gli permette di evitare che l’ansia cresca fino a un attacco di panico.
- Mindfulness del corpo: La mindfulness (di cui parleremo più in dettaglio nella sezione successiva) applicata al corpo consiste nel portare attenzione deliberata e non giudicante alle sensazioni fisiche, momento per momento. Un esempio è il body scan, una meditazione guidata in cui si esplorano, nell’ordine, tutte le regioni del corpo notando le sensazioni presenti (tensione, formicolio, calore, assenza di sensazioni) e accogliendole così come sono. Per chi ha vissuto un trauma, questo esercizio può rivelare zone di congelamento (parti del corpo percepite poco o nulla, spesso quelle coinvolte nel trauma) e zone di iperattivazione (ad esempio, molti notano sempre lo stomaco contratto o la mandibola serrata). Con la pratica, la mindfulness corporea aiuta a “riabitare” anche le aree anestetizzate e a tollerare le sensazioni senza allarme, costruendo una nuova familiarità con il proprio organismo.
- Yoga e movimento consapevole: Lo yoga è emerso negli ultimi anni come un potente alleato nel trattamento del trauma. Praticare yoga in modo dolce e rispettoso (esistono programmi specifici di Trauma-Sensitive Yoga) permette di unire il movimento fisico, la respirazione e l’attenzione al presente. Le posture (asana) aiutano a liberare tensioni muscolari croniche dovute al trauma e a ristabilire un senso di padronanza del proprio corpo (“il mio corpo può ancora muoversi, essere forte, essere flessibile”). Inoltre, attraverso lo yoga si imparano risorse di autoregolazione: ad esempio, alcune posizioni e tecniche di respirazione attivano la calma (modalità parasimpatica ventrale, legata alla sicurezza), mentre altre energizzano se ci si sente intorpiditi (uscendo dall’ipotonia del collasso). Anche discipline come il Tai Chi e la Qi Gong, o più semplicemente passeggiate nella natura prestando attenzione ai sensi, rientrano nelle attività corpo-mente benefiche per i traumi. L’idea chiave è ritrovare un senso di armonia nel movimento e ricongiungere mente e corpo in un’unica esperienza, qui e ora, senza giudizio.
- Terapia sensomotoria e Somatic Experiencing: In ambito psicoterapeutico vero e proprio, alcuni modelli moderni integrano profondamente il lavoro sul corpo. La Terapia Sensomotoria (promossa da Pat Ogden) e il Somatic Experiencing (di Peter Levine) sono esempi di approcci terapeutici bottom-up. Queste terapie guidano il paziente a focalizzarsi sulle sensazioni fisiche collegate alle emozioni e ai ricordi traumatici. Ad esempio, un terapeuta sensomotorio potrebbe chiedere: “Mentre parli di quell’episodio, che sensazione noti nel tuo corpo? Dove la senti esattamente?” e poi lavorare su quella sensazione incoraggiando magari un movimento auto-protettivo. Se Luca, rievocando l’incidente, sente un’oppressione al petto e l’impulso di spingere con le braccia, il terapeuta potrebbe invitarlo a dare lentamente seguito a quell’impulso – per esempio, premendo le mani contro un cuscino – come a simulare il gesto di spingere via qualcosa. Questi atti simbolici aiutano a completare reazioni difensive rimaste bloccate (come il proteggersi, il fuggire, l’urlare) e permettono al corpo di scaricare l’energia trattenuta del trauma. Il Somatic Experiencing lavora molto su questa “scarica”: osservando le risposte innate (tremori, sospiri, movimenti spontanei) che il corpo genera quando rilascia gradualmente lo stress traumatico, e supportando il loro compimento in un contesto sicuro. Si tratta di approcci delicati ma efficaci, specialmente per traumi fisici o abuso, dove il corpo è stato direttamente coinvolto e ferito.
- Teoria Polivagale applicata: Le scoperte della teoria polivagale hanno influenzato anche le tecniche di riconnessione corporea. Sapendo che il nervo vago regola gli stati di attivazione e che abbiamo un “interruttore” biologico per la sicurezza (il circuito ventro-vagale, associato a rilassamento e socialità) e per il pericolo (circuito simpatico per attacco-fuga, e dorso-vagale per immobilizzazione), alcuni esercizi mirano direttamente a stimolare i circuiti della sicurezza. Ad esempio, cantare o modulare la voce (anche solo sbadigliare o sospirare intenzionalmente) stimola le fibre vagali collegate alla laringe e può favorire il ritorno a uno stato di calma. Tenere una mano sul cuore e una sulla pancia, applicare una leggera pressione, può indurre una sensazione di contenimento e attivare il riflesso di calma (simile a quando si abbraccia qualcuno). Anche il massaggio delicato di certe zone (come il collo, sede del nervo vago) o movimenti lenti degli occhi che attivano la risposta oculocardiaca (un principio sfruttato anche nell’EMDR) sono talvolta usati come “trucchi” fisiologici per aiutare i pazienti a uscire da stati di iperarousal o dissociazione. In pratica, si comunica al corpo che è al sicuro attraverso stimoli sensoriali mirati.
Le tecniche bottom-up mostrano immediatamente un effetto a livello corporeo, ma nel tempo producono anche cambiamenti profondi nella mente. Un individuo che impara a calmare il proprio tremore, a respirare nella tensione, a muoversi senza paura, sta in realtà rieducando il cervello. Vecchi circuiti di allarme si indeboliscono, mentre nuove connessioni di sicurezza si rafforzano. Corpo e mente tornano alleati: ciò che il corpo sente viene di nuovo riconosciuto dalla mente, e ciò che la mente decide (ad esempio “sono al sicuro ora”) viene sostenuto dal corpo (che mostra effettivamente segni vitali di calma). Questo dialogo ristabilito crea le condizioni ottimali per il passo successivo: sfruttare la neuroplasticità per consolidare i cambiamenti.
Neuroplasticità e adattamento post-traumatico
Per molto tempo si è pensato che “ciò che è fatto è fatto” per il cervello adulto, che le esperienze traumatiche lasciassero cicatrici indelebili nel sistema nervoso. Le ricerche neuroscientifiche degli ultimi decenni hanno rivoluzionato questa visione, portando alla luce un concetto chiave: la neuroplasticità. La neuroplasticità è la capacità del cervello di modificare la propria struttura e funzione in risposta alle esperienze, agli apprendimenti e persino ai traumi. In altre parole, il cervello è plastico, adattabile, vivo e in continuo cambiamento – non è un circuito elettrico fisso che una volta danneggiato resta per sempre guasto.
Quando viviamo un evento traumatico, a livello neurale accadono diverse cose. Si attivano intensamente aree come l’amigdala, il nostro radar delle minacce, che memorizza quell’esperienza come altamente pericolosa, pronta a far scattare allarmi anche in futuro a segnali simili. Al contempo si può ridurre l’attività dell’ippocampo, la struttura che contestualizza gli eventi nel tempo e nello spazio: questo contribuisce a quella sensazione che il trauma “non abbia tempo”, ovvero ritorni in flashback come se stesse accadendo di nuovo ora, perché il cervello non l’ha archiviato correttamente nel passato. Spesso cala anche la regolazione da parte della corteccia prefrontale, la parte più razionale e modulante del cervello: in situazioni di terrore, perdiamo un po’ la funzione di pensare chiaramente e regolare le emozioni, perché prevale il cervello emotivo più antico. In aggiunta, uno stress traumatico intenso può alterare i livelli neurochimici (ad esempio, scariche di ormoni come adrenalina e cortisolo) che, se protratti, possono influire sulla salute di neuroni e sinapsi. Studi su persone con PTSD cronico hanno mostrato per esempio una riduzione del volume di alcune aree cerebrali (come l’ippocampo) dovuta al continuo stato infiammatorio e di iper-attivazione.
Fin qui sembrano brutte notizie – l’impatto del trauma sul cervello è tangibile. Ma la neuroplasticità fortunatamente lavora in entrambe le direzioni. Se il trauma può cambiare il cervello in peggio, nuove esperienze positive e mirate possono cambiarlo in meglio. Ogni volta che apprendiamo una nuova strategia di coping, che viviamo un’esperienza emotiva correttiva (come sentirsi al sicuro con un terapeuta mentre si ricorda il trauma), che pratichiamo una tecnica di rilassamento o che semplicemente il tempo passa in un ambiente protetto, il cervello continua a riorganizzarsi. I neuroni formano nuove connessioni, si ricalibrano i livelli di neurotrasmettitori, possono persino nascere nuovi neuroni (grazie alla neurogenesi, documentata nell’ippocampo umano adulto).
Possiamo immaginare la neuroplasticità come la capacità del cervello di “riscrivere il copione”: non può cancellare l’evento traumatico, ma può riscrivere il modo in cui l’evento viene immagazzinato e percepito. Ad esempio, inizialmente il suono di una frenata brusca fa sussultare Luca perché i suoi circuiti associativi collegano quel suono al ricordo dell’impatto. Ma dopo un percorso terapeutico, quel collegamento può indebolirsi: il suono della frenata verrà interpretato dal suo cervello in modo più neutro, come “un’auto che frena, non uguale all’incidente, adesso sono al sicuro”. A livello sinaptico, ciò corrisponde a un indebolimento di alcune sinapsi tra aree uditive e centri della paura, e a un rafforzamento delle connessioni tra corteccia prefrontale (valutazione razionale) e amigdala (risposta emotiva) che permettono di inibire la reazione automatica di terrore.
Le psicoterapie funzionano proprio perché sfruttano l’apprendimento e quindi la neuroplasticità. Come sostenuto dal neuroscienziato Eric Kandel, ogni forma di psicoterapia efficace è anche un processo di apprendimento che modifica il cervello. Si è visto con tecniche di neuroimaging che dopo un trattamento riuscito per il PTSD ci sono cambiamenti misurabili: ad esempio, una riduzione dell’iperattivazione dell’amigdala di fronte a immagini legate al trauma, e un aumento dell’attivazione della corteccia prefrontale (segno che la persona ha riacquistato controllo sulle reazioni emotive). Anche l’ippocampo può recuperare volume e funzionalità quando lo stress cronico diminuisce. Questo è straordinario: vuol dire che le ferite neurobiologiche non sono irreparabili.
Alcune tecniche terapeutiche, poi, sembrano sfruttare meccanismi neuroplastici specifici. L’EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing), per esempio, con i suoi movimenti oculari bilaterali (o altri stimoli alternati) sembra favorire la comunicazione tra gli emisferi cerebrali e indurre uno stato neurofisiologico simile a quello del sonno REM. In questo stato, il cervello è più plastico e capace di rielaborare i ricordi emotivi: non a caso l’EMDR spesso riesce a “spostare” il ricordo traumatico, che da vivido e carico di emozione diventa più distante e neutro, quasi come guardare una fotografia sbiadita. Si ipotizza che l’EMDR stimoli circuiti di memoria adattiva e riconduca il ricordo traumatico verso reti neurali più integrate con il resto dell’esperienza di vita, attenuandone l’isolamento patologico.
Un altro esempio è la mindfulness: studi con la risonanza magnetica hanno mostrato che chi pratica meditazione con regolarità sviluppa un aumento di spessore in aree prefrontali e parietali (legate alla consapevolezza e alla regolazione), nonché cambiamenti nell’attività dell’amigdala (che diventa meno reattiva). Questo suggerisce che la pratica mentale può “rimodellare” il cervello. Nel caso di traumi, i programmi di mindfulness clinica aiutano a ricondizionare le risposte di stress, incrementando la tolleranza alle emozioni difficili e spezzando il circolo dell’iperarousal.
Non solo la psicoterapia e le tecniche mente-corpo, ma anche fattori di vita possono favorire la neuroplasticità positiva: il supporto sociale, ad esempio, è un potente mediatore. Sentirsi compresi, ascoltati e sostenuti rilascia ossitocina e altri neuropeptidi legati al benessere, che a loro volta mitigano gli effetti del cortisolo (l’ormone dello stress) e promuovono la crescita neuronale. Così come attività piacevoli, l’esercizio fisico regolare, un sonno adeguato e una nutrizione corretta possono dare al cervello l’energia e le risorse chimiche per guarire.
Infine, la neuroplasticità significa anche che ognuno ha un potenziale di recupero, a prescindere dall’età. Un tempo si credeva che dopo l’infanzia il cervello fosse statico: oggi sappiamo che anche un adulto maturo può formare nuove sinapsi. Certo, i bambini e gli adolescenti hanno un cervello particolarmente plastico (nel bene e nel male: infatti i traumi in età evolutiva possono lasciare segni profondi, ma i giovani spesso mostrano anche sorprendenti capacità di ripresa). Ma nessuno dovrebbe pensare “è passato troppo tempo, io non cambierò mai”: i casi clinici e gli studi dimostrano che con i giusti interventi persone traumatizzate da anni possono trovare miglioramenti notevoli, proprio perché il cervello rimane sempre un organo capace di apprendere.
Mindfulness clinica e regolazione emotiva
Un elemento trasversale a molte terapie moderne per il trauma – e in generale per la salute mentale – è la mindfulness, integrata in un’ottica clinica. La mindfulness può essere definita come la consapevolezza momento per momento, non giudicante, rivolta all’esperienza presente. In altre parole, è quella particolare forma di attenzione che coltiviamo ad esempio quando meditiamo sul respiro: notiamo l’aria che entra e esce, e ogni volta che la mente scappa via (verso pensieri, ricordi, preoccupazioni) gentilmente la riportiamo al qui ed ora, senza criticarci.
Che cosa c’entra questo con il trauma? Moltissimo. Dopo un trauma, la mente tende continuamente a tornare al passato (nelle intrusioni di ricordi, o con la preoccupazione che riaccada) oppure a temere il futuro (“Starò mai meglio? Succederà di nuovo?”). Il presente, invece, viene vissuto spesso con ansia o intorpidimento. La pratica della mindfulness aiuta a riancorarsi nel presente in modo equilibrato, osservando i pensieri e le emozioni che sorgono senza esserne travolti. In termini di regolazione emotiva, è uno strumento potentissimo: insegna a riconoscere le proprie emozioni e sensazioni per quello che sono – eventi transitori della mente e del corpo – e a non reagire in maniera impulsiva o evitante.
Facciamo un esempio concreto: immaginiano che Luca, mentre sta guidando (mesi dopo l’incidente), all’improvviso senta salire l’ansia e cominci a rivivere mentalmente il momento dello schianto. Senza strumenti, probabilmente la sua reazione sarebbe o di panico (iperarousal: cuore a mille, respiro corto, rischio di perdere il controllo) oppure di dissociazione (ipoarousal: si distacca, guida in automatico senza più essere veramente presente). Se però Luca ha appreso tecniche di mindfulness, potrebbe fare qualcosa di diverso: notare “Sto provando ansia, il mio cuore batte forte, sento tremare le mani sul volante. La mia mente sta rivivendo l’incidente. È un pensiero, non è ciò che sta accadendo ora”. Continuando a respirare, potrebbe portare attenzione alle sensazioni attuali (il volante sotto le dita, la strada reale davanti a sé, magari accostare un attimo e sentire i suoni intorno). Invece di farsi sopraffare dall’emozione, la osserva. Questo cambia radicalmente il decorso della crisi: l’onda dell’ansia viene “surfata” con consapevolezza, finché pian piano cala, anziché innescare un circolo vizioso di paura della paura.
In ambito clinico esistono programmi strutturati di mindfulness, come l’MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) o l’MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy), che hanno dimostrato efficacia nel ridurre i sintomi di ansia, depressione e PTSD. Ma al di là dei protocolli specifici, molti psicoterapeuti incorporano principi mindfulness nel lavoro quotidiano. Ad esempio, in Dialectical Behavior Therapy (DBT, Terapia Dialettico-Comportamentale) – sviluppata inizialmente per il disturbo borderline di personalità, spesso connesso a traumi complessi – la mindfulness è uno dei quattro pilastri fondamentali. La DBT insegna abilità di consapevolezza (ad esempio l’esercizio del “descrivere, partecipare, osservare” i fenomeni interni) per aiutare i pazienti a non reagire impulsivamente alle emozioni intense. Questa maggiore consapevolezza di sé è la base su cui costruire strategie di regolazione emotiva: dalla tolleranza degli stati di crisi (skill di “distress tolerance” come splash di acqua fredda sul viso per calmare l’attivazione, o l’uso intenzionale dei sensi per auto-lenarci quando siamo disperati) fino alla modulazione attiva delle emozioni (es. tecniche cognitive per uscire da pensieri catastrofici, o l’uso di azioni opposte – fare il contrario di ciò che l’emozione disfunzionale spingerebbe a fare).
Anche l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), altro modello terapeutico moderno spesso applicato al PTSD e ai traumi, fa ampio uso della mindfulness e della defusione cognitiva. ACT insegna ad accettare la presenza di pensieri ed emozioni dolorose invece di combatterle inutilmente (perché tentare ostinatamente di non pensare a qualcosa spesso ce lo fa pensare di più). Con pratiche di mindfulness si osservano queste esperienze interne come nuvole nel cielo o come onde nel mare: sappiamo che arrivano, le sentiamo, ma confidiamo che passeranno. Nello stesso tempo ACT sposta l’attenzione su ciò che per la persona è davvero significativo (i propri valori), aiutandola a impegnarsi in azioni concrete coerenti con quei valori. Per un traumatizzato, questo può voler dire ad esempio: “Accetto che l’ansia e i ricordi dolorosi faranno parte di me per un po’, ma non voglio che la mia vita sia definita solo da essi. Ci sono cose che amo e valori in cui credo – per esempio l’amicizia, l’aiutare gli altri, l’arte, la famiglia – e scelgo di dedicarmi a queste cose nonostante il dolore, portandomelo dietro senza vergogna.” Questa prospettiva è profondamente empowering: sposta il focus dal controllo impossibile dei sintomi (non posso azzerare a comando ansia e tristezza) al controllo possibile delle scelte di vita (posso comunque fare qualcosa che conta per me, anche con l’ansia e la tristezza addosso). Spesso, paradossalmente, proprio questo cambio di atteggiamento riduce l’intensità dei sintomi: quando smettiamo di alimentarli con la paura e l’evitamento, pensieri ed emozioni disturbanti tendono a perdere potere.
Nel contesto del trauma, mindfulness e regolazione emotiva vanno a braccetto. Una buona regolazione emotiva significa avere la capacità di rimanere all’interno di quella famosa finestra di tolleranza di cui parleremo, senza sforare in stati di panico incontrollato o di torpore dissociativo. La mindfulness è uno degli strumenti migliori per raggiungere questo obiettivo, perché allena la mente a rilevare precocemente i segni di squilibrio (sto diventando troppo ansioso? Sto invece spegnendomi emotivamente?) e a mettere in atto strategie per ritornare in equilibrio. Ad esempio, con l’auto-osservazione mindful una persona può accorgersi: “Ultimamente parlo pochissimo e mi isolo – forse sto entrando in uno stato depressivo/ipoarousal”. Questa consapevolezza le permette di cercare un contatto (chiamare un amico, fare una passeggiata all’aria aperta per stimolarsi) prima che la spirale la porti più giù. Al contrario, se nota sintomi di iperarousal (insonnia, irritabilità crescente), può deliberatamente intensificare pratiche calmanti (meditazione, esercizi lenti, passare tempo in ambienti tranquilli, spegnere un po’ le notizie o i social se la sovrastimolano).
Mindfulness significa anche imparare l’autocompassione: trattarsi con gentilezza e comprensione anziché giudicarsi deboli per quello che si prova. Questo è cruciale nel trauma, perché tanti sopravvissuti provano vergogna o colpa (“Avrei dovuto reagire diversamente”, “Perché non riesco a superarla? Sono difettoso”). Coltivare un atteggiamento compassionevole – come farebbe un amico premuroso verso di noi – aiuta a guarire le ferite emotive con pazienza. Non a caso esistono protocolli specifici come il Mindful Self-Compassion e nella DBT stessa uno degli obiettivi è “costruire una vita che valga la pena di essere vissuta”, insegnando ai pazienti a considerarsi meritevoli di cura e rispetto.
In sintesi, la mindfulness clinica fornisce alle persone colpite da trauma ancore di stabilità interna. In mezzo al mare in tempesta delle emozioni traumatiche, praticare la consapevolezza è come gettare l’ancora: le onde continuano a venire, ma non ci fanno più perdere. Ci alleniamo a rispondere invece che reagire in modo impulsivo. Così facendo, recuperiamo un senso di padronanza. Le emozioni non spariranno – e non è nemmeno necessario che spariscano del tutto – ma torneranno a occupare il loro giusto posto: informazioni preziose sulla nostra esperienza, e non mostri ingestibili da cui fuggire.
Finestre terapeutiche e finestra di tolleranza
La finestra di tolleranza è un concetto introdotto dal neuropsichiatra Daniel Siegel per descrivere proprio quella zona di attivazione ottimale illustrata sopra. Quando siamo all’interno della nostra finestra di tolleranza, ci sentiamo relativamente calmi ma vigili: le emozioni sono gestibili, né piatte né travolgenti. In questo stato, siamo in grado di pensare e riflettere su ciò che accade, apprendere nuove informazioni e reagire in modo adattivo allo stress. Viceversa, quando uno stimolo (interno o esterno) ci spinge fuori dalla finestra, entriamo in uno stato di disregolazione: o andiamo troppo in alto (iper-arousal) oppure precipitiamo troppo in basso (ipo-arousal). Nel primo caso sperimenteremo sintomi come ansia acuta, panico, rabbia cieca, agitazione psicomotoria, confusione mentale (il cervello corre troppo veloce, pensieri caotici). Nel secondo caso avremo appiattimento emotivo, stanchezza estrema, senso di vuoto, magari sonnolenza o fuga mentale (il cervello “si spegne”, si può arrivare a percepire la realtà in modo ovattato come nella dissociazione). Siegel nota che quando siamo fuori dalla finestra tendiamo verso due poli negativi: il caos (quando siamo sopraffatti da troppe emozioni e impulsi) o la rigidità (quando ci blocchiamo in una risposta unica, tipo chiusura totale o pensiero fisso ripetitivo). Entrambi questi estremi impediscono la flessibilità e l’integrazione delle esperienze.
Le persone che hanno subìto traumi hanno spesso una finestra di tolleranza molto ristretta. Significa che anche stimoli moderati possono farle sforare: ciò spiega perché il survivor di un trauma può reagire in modo “eccessivo” a situazioni che ad altri paiono normali. Ad esempio, Luca inizialmente bastava un piccolo trigger (il temporale notturno, una frenata improvvisa sentita dalla finestra) per mandarlo immediatamente in iper-arousal con tachicardia e sudorazione, come se rivivesse il trauma. Oppure certi giorni, quando lo stress era troppo, “spegnersi” per lui era quasi automatico: passava ore sul divano, intorpidito, incapace di reagire (ipo-arousal). La sua finestra era talmente stretta che oscillava continuamente tra l’alto e il basso senza trovare equilibrio nel mezzo. Questo altalena è estenuante, sia per la psiche sia per il corpo, e infatti molti traumatizzati lamentano affaticamento cronico, difficoltà cognitive (memoria e concentrazione ridotte quando sono fuori finestra), irritabilità o apatia alternanti.
Allargare la finestra di tolleranza e imparare a restarci dentro è uno degli scopi principali di qualsiasi intervento terapeutico sul trauma. Come si fa? Innanzitutto, con la stabilizzazione e l’insegnamento di tecniche di autoregolazione (molte delle quali abbiamo descritto nelle sezioni su mindfulness e corpo). Ad esempio, il terapeuta aiuta il paziente a riconoscere i segnali precoci di iperarousal (aumento del battito, respiro corto, pensieri di allarme) e ad applicare subito un metodo per calmarsi – potrebbe essere la respirazione profonda, il grounding sensoriale, un rapido esercizio muscolare come contrarre e rilassare i muscoli per scaricare l’energia in eccesso. Parallelamente, insegna a riconoscere anche i segnali di ipoarousal (senso di sconnessione, testa che “fluttua”, vista appannata, voglia di rannicchiarsi o dormire) e ad adottare tecniche per “riattivarsi” – ad esempio alzarsi e fare due passi, parlare ad alta voce descrivendo l’ambiente, magari utilizzare acqua fredda sul viso o un oggetto con una texture forte da toccare, per risvegliare i sensi. In DBT queste strategie rientrano nella cosiddetta tolerance alle crisi e servono proprio a gestire i momenti di picco emotivo senza comportamenti distruttivi.
Un altro concetto importante è quello di finestra terapeutica intesa come tempistica giusta per affrontare certi contenuti. All’interno di un percorso clinico, non tutte le sedute sono adatte a rivivere dettagliatamente il trauma: il professionista calibrerà quando il paziente è abbastanza stabile e “dentro la finestra” per procedere a lavorare sul ricordo traumatico. Se il paziente quel giorno arriva già fuori finestra (troppo agitato o troppo depresso), potrebbe essere controproducente forzare il lavoro sul trauma: prima bisognerà regolarlo e riportarlo a uno stato di sicurezza. Questo è in linea con l’approccio a fasi nel trattamento del trauma: prima fase di costruzione di sicurezza e risorse, seconda fase di elaborazione del trauma, terza fase di integrazione. Se durante la seconda fase (elaborazione) la finestra si chiude – il paziente si destabilizza troppo – occorre tornare alle tecniche della prima fase (stabilizzazione). È un continuo aggiustamento. Il terapeuta, come un allenatore, aiuta la persona a estendere gradualmente i propri limiti: magari inizialmente può tollerare di parlare del trauma solo per pochi minuti prima di agitarsi troppo, col tempo e con gli strumenti giusti potrà farlo per periodi più lunghi e più a fondo senza perdere il controllo emotivo.
Va anche detto che ognuno di noi ha oscillazioni fisiologiche della finestra di tolleranza legate a fattori come il sonno, la fame, lo stress quotidiano. Se siamo stanchi o affamati, la nostra finestra si restringe e diventiamo irritabili o fragili più facilmente – basti pensare a come a volte dopo una notte insonne basta un piccolo contrattempo per farci crollare emotivamente. Questo è importante per i traumatizzati: curare gli aspetti di base (dormire meglio, alimentarsi bene, ridurre altri stress) non è banale, perché aumenta la capacità di sopportare il lavoro terapeutico. Non di rado, migliorando l’insonnia o riducendo l’uso di sostanze (molti purtroppo abusano di alcol o sedativi per fronteggiare i sintomi post-trauma), si vede un progresso notevole anche nella gestione emotiva.
Un concetto correlato alla finestra di tolleranza è quello di titolazione (titration) usato nelle terapie somatiche: affrontare il trauma a piccole dosi controllate, come si somministra un farmaco a gocce per non avere effetti collaterali. In pratica, il terapeuta può far entrare il paziente nel ricordo traumatico per qualche istante (abbastanza da attivare un po’ l’emozione necessaria a lavorarci) e poi farlo uscire di nuovo verso la calma, ripetendo questo pendolarmento. Peter Levine nel Somatic Experiencing chiama questo processo pendulazione: andare e venire dal ricordo traumatico, come un pendolo, in modo da integrare progressivamente le emozioni senza esserne sopraffatti. Ogni volta che si riesce a rivivere un frammento di ricordo e poi tornare allo stato di sicurezza attuale, il cervello impara che si può pensare al trauma restando al sicuro. È una potente forma di apprendimento correttivo, opposta al meccanismo del PTSD in cui pensare al trauma significava immediatamente ritrovarsi in pericolo (emotivamente).
Nella finestra di tolleranza gioca un ruolo fondamentale anche la relazione terapeutica e, più in generale, il supporto degli altri. Secondo la teoria polivagale, la nostra regolazione emotiva è fortemente influenzata dal sistema di ingaggio sociale: in pratica, la presenza di un’altra persona calma e sicura può “contagiarci” uno stato di calma. Questo è il fenomeno della co-regolazione. Un bravo terapeuta, con il suo tono di voce pacato, lo sguardo empatico e l’atteggiamento non giudicante, funge da regolatore esterno per il sistema nervoso scombussolato del paziente. Ad esempio, se Luca in seduta inizia ad agitarsi, il terapeuta potrebbe parlare in tono lento e rassicurante, magari facendogli notare: “Guarda, sto qui con te, possiamo rallentare un attimo, fai un respiro insieme a me”. Questi segnali sociali vengono captati a livello inconscio dal cervello di Luca (grazie ai neuroni specchio e alle vie nervose collegate al nervo vago ventrale) e favoriscono un riaggancio allo stato sicuro, all’interno della finestra. È lo stesso principio per cui un bambino spaventato si calma tra le braccia di una madre tranquilla: le emozioni sono contagiose, e possiamo sfruttarlo in positivo. Perciò, un consiglio pratico per chi affronta un trauma è: non isolarsi. Cercare persone fidate con cui parlare o anche semplicemente da avere accanto, può allargare enormemente la propria finestra di tolleranza. Quando non riusciamo da soli a regolare le nostre emozioni, un amico, un familiare o un terapeuta possono “prestarci” momentaneamente il loro equilibrio finché non lo ritroviamo.
In conclusione, la metafora della finestra di tolleranza ci offre uno schema semplice ma potente: riconoscere i propri stati, capire quando si è dentro o fuori dalla finestra, e sviluppare strategie per rientrarci. Ogni persona può imparare a conoscere la propria finestra – e non scoraggiarsi se inizialmente è piccola. Con pazienza, pratica e supporto, quella finestra può ampliarsi, facendo entrare sempre più luce e aria. In quello spazio di sicurezza ampliato sarà poi possibile fare il lavoro più profondo: rielaborare la narrazione del trauma e ricostruire il proprio Sé ferito.
Narrazione terapeutica: scrittura e rielaborazione del trauma
Gli esseri umani sono animali narranti: dare un senso alle esperienze attraverso le storie è uno dei modi principali con cui capiamo il mondo e noi stessi. Un evento traumatico rompe il filo della narrazione personale – è come un capitolo caotico e incomprensibile infilato a forza nel romanzo della nostra vita. Raccontare quel capitolo, dargli una forma con parole (parlate o scritte), è un passo fondamentale per integrarlo nella trama generale dell’esistenza. Ecco perché la narrazione terapeutica è così importante nel percorso post-traumatico.
Ci sono diversi metodi per utilizzare la narrazione a fini di cura. Uno dei più accessibili è la scrittura espressiva o journaling. Consiste nel mettere per iscritto i propri pensieri e sentimenti riguardo all’evento traumatico e alle sue conseguenze. Lo psicologo James Pennebaker, già dagli anni ‘80, ha studiato questo approccio scoprendo che persone che scrivevano per 15-20 minuti al giorno, per pochi giorni, delle proprie esperienze emotivamente difficili mostravano miglioramenti in salute fisica e mentale rispetto a chi non lo faceva. La scrittura funziona perché costringe la mente a organizzare ciò che è nebuloso e spaventoso. Quando dobbiamo scrivere, dobbiamo scegliere parole, frasi, un ordine logico – in questo processo già stiamo dando una struttura al caos interno. Inoltre, scrivere è un atto privato e sicuro: il foglio (o file) può accogliere cose che magari non ci sentiamo di dire a nessuno. È uno spazio privo di giudizio dove la censura si allenta.
Nel caso specifico del trauma, esistono tecniche strutturate come il “romanzo del trauma”. Si tratta di un esercizio terapeutico in cui al paziente viene chiesto di scrivere, giorno dopo giorno, il racconto dettagliato di ciò che è successo, includendo tutti i ricordi, le immagini, le sensazioni e le emozioni legate all’evento. Ogni giorno aggiunge un pezzo, finché sente di aver narrato tutto ciò che aveva dentro. Durante questo periodo gli si chiede anche di non parlare verbalmente del trauma con altri (la cosiddetta “congiura del silenzio”), in modo che tutta l’energia emotiva confluisca nella scrittura. Al termine, consegna il manoscritto al terapeuta e insieme lo “chiudono” – a volte anche fisicamente, ad esempio mettendo i fogli in una busta. Cosa si ottiene con questo processo? Diversi effetti terapeutici:
- Innanzitutto la scrittura forzata esteriorizza i contenuti traumatici. I pensieri intrusivi, gli incubi, i flashback vengono in un certo senso trasferiti sulla carta. Molti pazienti riportano che, dopo aver scritto e riscritto la propria storia, i ricordi disturbanti diventano via via meno vividi, meno insistenti nella mente, quasi come se avessero perso potere su di loro.
- Inoltre, ripercorrere deliberatamente l’evento per iscritto più e più volte produce un effetto di abituazione: ciò che inizialmente scatena un’ansia fortissima, a furia di ripeterlo (scrivendolo) diventa progressivamente più tollerabile. È simile all’esposizione graduale usata nelle terapie cognitivo-comportamentali per le fobie: affrontare volontariamente il ricordo terribile, un passo alla volta, fa sì che smetta di dominare la nostra mente. Invece di subire le immagini traumatiche, la persona ora le richiama attivamente per metterle su carta – invertendo il rapporto di potere.
- Un altro effetto è la collocazione temporale: scrivere la storia dall’inizio alla fine aiuta il cervello a capire che ciò è accaduto allora e non sta accadendo adesso. Sembra banale, ma nel trauma spesso c’è confusione tra passato e presente. Redigere un racconto con una sequenza (“Era una sera di novembre quando… Dopo l’incidente fui portato in ospedale, dove… Oggi porto ancora i segni ma…”) aiuta a confinare l’evento nel passato, laddove appartiene, impedendogli di invadere costantemente il presente.
- Infine, consegnare il “romanzo del trauma” al terapeuta funge da rito di passaggio: è come affidare simbolicamente quella storia dolorosa a qualcuno, per farsi aiutare a portarne il peso. Rappresenta il riconoscimento che quel capitolo si è concluso e che si è pronti a voltare pagina. In alcuni casi i terapeuti propongono addirittura di ritualizzare questo atto (c’è chi brucia in modo simbolico una copia degli scritti, o li chiude in una scatola da conservare insieme).
Non tutti i percorsi richiedono di scrivere così tanto, ma il principio generale rimane: dare voce e parola all’inesprimibile. Molte terapie del trauma, pur con tecniche diverse, puntano a questo. Nel Trauma-Focused CBT ad esempio, si crea una “narrazione del trauma” in forma più dialogica: il terapeuta incoraggia il paziente a raccontare l’evento nei dettagli durante le sedute, registrando il racconto, e poi riascoltandolo insieme e correggendo eventuali distorsioni (per esempio, se emergono colpevolizzazioni di sé, il terapeuta le ristruttura: “vedi, qui tu pensi che sia colpa tua, ma rileggendo ci accorgiamo che non potevi fare diversamente…”). Questa costruzione condivisa della storia aiuta a integrare ricordi e significati corretti.
Altri approcci, come la Narrative Exposure Therapy (NET), usata spesso con rifugiati o chi ha vissuto più traumi di guerra, fanno stendere al paziente una sorta di linea del tempo della propria vita, segnando gli eventi positivi (fiori) e quelli traumatici (sassi), poi si narrano in dettaglio i traumi uno a uno mentre il terapeuta trascrive e poi legge e valida la storia completa. Il risultato è che la persona vede la propria vita in un quadro d’insieme: i traumi sono riconosciuti (non negati) ma collocati in un contesto più ampio, dove coesistono anche momenti di forza e relazioni importanti.
La narrazione terapeutica può assumere molte forme creative: c’è chi preferisce la forma di una lettera (ad esempio, scrivere una lettera alla persona scomparsa, o all’aggressore, o a se stessi giovani prima del trauma), chi si esprime attraverso poesie, canzoni, disegni o dipinti. Anche queste sono narrazioni, solo che usano simboli e immagini al posto delle parole. L’arteterapia, la drammaterapia (mettere in scena la propria storia) e altre modalità espressive funzionano perché, di nuovo, danno una forma condivisibile a ciò che dentro è informe e indicibile. Un disegno magari può esprimere un’emozione per cui non abbiamo termini.
Un aspetto curativo della narrazione è il fatto che permette di ristrutturare la trama della propria storia. Inizialmente il trauma può essere vissuto come il punto finale di tutto (“la mia vita si è rovinata quel giorno”). Attraverso la narrazione, spesso guidata dal terapeuta, si può invece dare al trauma un ruolo diverso: magari da fine ingiusta diventa snodo di trasformazione. Non vuol dire abbellire forzatamente la vicenda, ma riconoscere ad esempio: “È stato l’evento più doloroso della mia vita, però dopo ho cercato aiuto, ho scoperto una forza che non sapevo di avere, e adesso questa esperienza farà parte di me, ma non mi definirà completamente”. In pratica, la storia evolve da “sono una vittima senza speranza” a “sono un sopravvissuto, con una ferita, ma anche con risorse e un futuro davanti”. Il linguaggio in questo è determinante. Ad esempio, in terapia si lavora spesso sulle etichette con cui la persona definisce se stessa: trasformare il linguaggio da passivo a attivo (“mi è successo questo, eppure io sto facendo del mio meglio oggi…”), sostituire parole di colpa con parole di comprensione (“ho reagito come potevo in quel momento, è umano”), trovare metafore che rappresentino il percorso (“ero naufrago in un mare in tempesta, ora sto ricostruendo la mia nave”). Questi cambiamenti verbali riflettono cambiamenti cognitivi ed emotivi: indicano che il trauma è stato digerito almeno in parte e inserito in una cornice di senso.
È importante notare che la narrazione terapeutica va calibrata: rivangare subito tutti i dettagli del trauma senza adeguato supporto può ri-traumatizzare. Per questo all’inizio di un percorso ci si concentra molto sulla stabilizzazione emotiva e sulle risorse (ricordiamo la finestra di tolleranza: prima bisogna assicurarsi che la persona riesca a rimanere entro i suoi limiti, altrimenti rievocare il trauma sarebbe dannoso). Quando però il paziente è pronto, trovare le parole per il trauma è liberatorio. Un famoso detto in psicoterapia è “ciò che non puoi nominare, ti domina”. Dare un nome al proprio dolore significa in qualche modo prenderne il controllo.
Per i pazienti, l’atto di narrare spesso porta a insight improvvisi: mentre scrivono o parlano, collegano da soli dei punti (“Ora capisco perché ho sviluppato questa paura, alla luce di quello che è successo allora…”). Oppure notano progressi: rileggere un diario dopo mesi può far realizzare quanta strada si è fatta (“All’inizio scrivevo ogni giorno di essere disperato, ora vedo che parlo anche di speranze e progetti”). La scrittura e la lettura retrospettiva fungono anche da specchio: rendono visibile l’evoluzione interiore.
Infine, la narrazione terapeutica può non fermarsi al proprio privato. Ci sono persone che, dopo aver elaborato a fondo il loro vissuto, scelgono di condividerlo pubblicamente: ad esempio scrivendo un libro autobiografico, tenendo un blog, o parlando in contesti di sensibilizzazione. Questo può fare parte del processo di guarigione e crescita: trasformare la propria storia in un dono agli altri (per aiutare chi ha passato esperienze simili, o per educare alla prevenzione). Ovviamente non è un obbligo né adatto a tutti, ma molti trovano un ulteriore senso di liberazione nel sapere che dalla propria tragedia può nascere qualcosa di utile per qualcun altro – come una sorta di rivincita creativa sul male subito.
In sintesi, ricostruire la propria storia è un atto terapeutico potente. Significa riprendersi la voce che il trauma aveva zittito. Che avvenga tramite un diario segreto o in una stanza di terapia o su un palcoscenico, raccontare è riappropriarsi del proprio passato e modellarlo in modo che dialoghi con il presente e il futuro. È cucire insieme i lembi strappati dell’identità e chiudere, gradualmente, la ferita aperta.
Identità ritrovata, spiritualità laica e crescita post-traumatica
Superare un trauma non significa tornare esattamente quelli di prima – spesso ciò è impossibile, perché il trauma ci cambia. Significa però riuscire a costruire un nuovo senso di sé che includa l’esperienza vissuta senza esserne schiacciato. La ricostruzione dell’identità è quindi l’ultimo, fondamentale capitolo di questo viaggio. Chi sono io dopo quello che è successo? Cosa definisce la mia persona, adesso che alcune certezze sono crollate? Queste domande possono spaventare, ma aprono anche scenari di scoperta interiore.
Molte persone traumatizzate inizialmente si identificano totalmente con la loro ferita: vittima di abuso, vedova, reduce, malato, licenziato. È comprensibile, perché l’evento traumatico domina la scena. Il lavoro terapeutico mira gradualmente a svincolare l’identità dal singolo evento: tu sei molto più di ciò che ti è accaduto. Ciò non vuol dire negare l’importanza del trauma nella tua vita, ma ridimensionarla: “Sono una persona a cui è successa questa cosa, ma ho anche altro dentro di me e davanti a me.” Ad esempio, Luca all’inizio pensava di sé: “Sono un sopravvissuto a un incidente mortale in cui ho perso il mio migliore amico. La mia vita è finita lì”. Col tempo ha potuto ampliare questa visione: sì, quell’incidente farà sempre parte di lui, ma non è tutta la sua vita. È anche un figlio, un fratello, un appassionato di musica, un professionista che potrà tornare a lavorare, forse un giorno un compagno per qualcun’altra. L’identità diventa più ricca e complessa della sola etichetta di “traumatizzato”.
In molti percorsi di guarigione, specialmente dopo traumi estremi, entra in gioco anche la dimensione spirituale o di ricerca di significato più profondo. Parliamo di spiritualità laica per indicare quell’ambito di valori, connessioni e riflessioni ultime sulla vita che non necessariamente hanno a che fare con una religione organizzata, ma piuttosto con il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Affrontare la fragilità della vita – cosa che ogni trauma ci sbatte in faccia – spesso porta le persone a interrogarsi su questioni esistenziali: Perché soffriamo? Che senso ha continuare? Cosa conta davvero per me?. Queste domande possono condurre ad una crescita interiore significativa.
Alcuni trovano conforto nella fede religiosa tradizionale, e questo rientra a pieno titolo nelle risorse spirituali che favoriscono la resilienza. Altri, pur non abbracciando una fede specifica, sviluppano una propria spiritualità personale. Ad esempio, c’è chi inizia a meditare regolarmente e trova in quel silenzio una connessione con il proprio sé più profondo. Oppure chi scopre nel contatto con la natura un senso di pace e appartenenza all’universo (camminare nei boschi, guardare il mare o il cielo stellato e sentirsi parte di un ciclo più ampio, dove la propria sofferenza assume una prospettiva diversa). Altri ancora investono nelle relazioni umane con rinnovata intensità: sentono che l’amore, l’amicizia, la solidarietà sono ciò che dà significato all’esistenza – e questa è una forma di spiritualità “terrena”, la spiritualità dell’essere umano con gli altri.
Una componente della spiritualità laica può essere anche la gratitudine. Può sembrare paradossale parlare di gratitudine dopo un trauma, ma molte persone riferiscono che, una volta superata la fase acuta, iniziano ad apprezzare cose prima date per scontate. Essere vivi, avere accanto qualcuno, potersi godere un tramonto o una semplice tazza di tè caldo: piccole grandi cose che, di fronte alla possibilità sperimentata della morte o della perdita, assumono un nuovo splendore. Coltivare la gratitudine – ad esempio tenendo un “diario della gratitudine” dove si annotano ogni giorno alcune cose per cui si è grati – è associato a un maggiore benessere psicologico e può coesistere con il dolore. Si può essere grati di essere vivi e allo stesso tempo tristi per chi non c’è più; non si escludono a vicenda.
Tutte queste evoluzioni rientrano nel concetto di crescita post-traumatica. Questo termine, coniato dai ricercatori Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, descrive il fenomeno per cui dalle lotte con un trauma possono scaturire cambiamenti positivi in alcune aree della vita della persona. Attenzione: non significa che “il trauma fa bene” (nessuno vorrebbe passare attraverso certe esperienze!), ma che l’essere umano ha la capacità di trasformare la sofferenza in occasione di crescita. Secondo gli studi, le principali aree di crescita post-traumatica sono:
- Apprezzamento della vita: dopo aver rischiato di perderla o aver visto quanto può essere precaria, si sviluppa una rinnovata gratitudine e gusto per la vita. Le piccole gioie quotidiane diventano più preziose.
- Relazioni interpersonali più profonde: la condivisione di un’esperienza difficile può rafforzare i legami con chi ci è stato vicino; inoltre spesso si diventa più empatici verso la sofferenza altrui, più inclini ad aiutare e ad ascoltare. Molti riferiscono di aver capito “chi sono i veri amici” e di aver stabilito con loro rapporti più autentici.
- Forza personale: superare un trauma può far scoprire risorse interiori insospettate. Ci si sente più forti perché si è visto ciò che si è capaci di sopportare. Magari prima ci si considerava fragili, ora ci si sorprende della propria resilienza (“Se ce l’ho fatta in quella circostanza, posso affrontare altre sfide della vita”).
- Scoperta di nuove possibilità: alcune persone cambiano strada in seguito a un trauma. Rivalutano priorità e aspirazioni: c’è chi decide di intraprendere una nuova carriera più in linea coi propri valori, chi inizia attività che aveva sempre rimandato (scrivere un libro, fare un viaggio importante, aprire un’associazione). Il trauma a volte fa sentire di non avere “più nulla da perdere” nelle scelte positive e questo paradossalmente libera energie creative.
- Cambiamento spirituale o filosofico: come accennato, aumenta l’interesse per le questioni esistenziali e spesso si sviluppa una nuova visione del mondo. C’è chi diventa più spirituale, chi abbandona credenze rigide e ne abbraccia altre più inclusive. Si rimettono in discussione i vecchi schemi mentali. Ad esempio, Luca dopo l’incidente ha smesso di essere fatalista (“non si può cambiare nulla, succede e basta”) e ha abbracciato l’idea di voler attivamente dare significato alla sua seconda chance di vita.
Non tutte le persone sperimentano crescita post-traumatica, e certamente nessuno all’inizio di un calvario vorrebbe sentirsi dire “diventerai migliore grazie a questo” (sarebbe quasi offensivo nella fase acuta del dolore). La crescita, se avviene, è un processo graduale e spesso inconsapevole. Ci si accorge guardando a ritroso di quanto si è cambiati. È importante anche sottolineare che la crescita può coesistere con le difficoltà: si può diventare più saggio o più forte e al contempo avere ancora delle ferite e vulnerabilità. Ad esempio, una vittima di violenza sessuale può aver sviluppato una nuova vocazione nell’aiutare altre donne (crescita), ma magari continua a lottare con momenti di ansia nei rapporti intimi (persistenza di esiti traumatici). Questo non sminuisce affatto il valore della crescita – indica solo che la vita è complessa e la guarigione non è mai assoluta o lineare.
La terapia può facilitare la crescita post-traumatica incoraggiando l’esplorazione di significati e valori. Approcci come l’ACT, citato prima, puntano proprio a riconnettere la persona con ciò che le dà senso e scopo. Anche la logoterapia, fondata da Viktor Frankl (psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento), sostiene che trovare un senso nella propria sofferenza è ciò che rende possibile superarla. Frankl scriveva: “Chi ha un perché per cui vivere, può sopportare quasi ogni come”. Nei traumi, il “perché” può essere diverso per ciascuno: per qualcuno sarà la famiglia (“devo essere forte per i miei figli”), per altri una causa (“trasformerò questa esperienza in qualcosa che aiuti gli altri”), per altri ancora una fede o un ideale. Trovare un filo conduttore che dia significato a quanto accaduto – anche se il significato non è intrinseco nell’evento, siamo noi ad attribuirlo – aiuta a mettere il trauma al servizio della nostra vita futura, anziché vedere la nostra vita come schiava del trauma passato.
Un ulteriore risvolto identitario è la ridefinizione dei propri confini e bisogni. Spesso chi è passato attraverso traumi impara (anche in terapia) a conoscersi meglio: riconosce ciò di cui ha bisogno per stare bene e ciò che invece è tossico o non più tollerabile. Ad esempio, c’è chi dopo un trauma cambia completamente cerchia di frequentazioni, allontanandosi da persone superficiali o negative, perché sente di non voler sprecare tempo in rapporti vuoti. Oppure c’è chi finalmente mette dei confini sani: impara a dire di no, a prendersi cura di sé, a non trascurarsi per compiacere gli altri – cosa che forse faceva prima, finché la vita non gli ha insegnato l’urgenza di volersi bene. In questo senso, il trauma può accelerare una maturazione personale: dopo aver visto il lato oscuro della vita, si può decidere di vivere in modo più autentico e allineato alle proprie verità interiori.
Tornando alla nostra storia iniziale: immaginiamo Luca un paio d’anni dopo. Ha completato una psicoterapia, continua a praticare yoga e meditazione ogni giorno come rituale personale. Non passa giorno senza che pensi all’amico che ha perso – la tristezza c’è, ma ora è una tristezza dolce, fatta dei bei ricordi più che dell’agonia della perdita. Si è unito come volontario a un’associazione che fa campagne sulla sicurezza stradale nelle scuole, perché sente di voler dare un contributo affinché certe tragedie non si ripetano. Ha ripreso a lavorare e ha riallacciato rapporti con alcuni amici che durante il periodo peggiore aveva isolato. Ogni tanto, guidando sotto la pioggia, ancora sente l’ansia salire; allora rallenta, accosta un minuto, fa qualche respiro profondo e si parla con gentilezza: “È normale che tu abbia paura, amico mio, hai passato qualcosa di terribile. Ma siamo qui, adesso, e va tutto bene.” Queste semplici parole – un mantra di autocompassione che ha imparato – lo aiutano a rimettersi in carreggiata. Luca sa di non essere invincibile, ma sa di essere vivo. E questo, dopo aver rischiato di morire dentro quella macchina, per lui significa moltissimo.
La sua identità non è più quella di “superuomo invulnerabile” (come forse si credeva prima, da giovane spensierato), ma nemmeno quella della “vittima spezzata” che temeva di essere subito dopo l’incidente. Ora si vede come un sopravvissuto e un viaggiatore della vita, con cicatrici che raccontano una storia. Ha scoperto una spiritualità personale: quando guarda il tramonto ringrazia mentalmente il suo amico scomparso per avergli insegnato, suo malgrado, quanto ogni giorno sia prezioso. In quei momenti Luca sente una connessione – con l’amico, con il cielo, con l’universo forse – che gli scalda il cuore. Non saprebbe darle un nome religioso, ma per lui è come sentirsi parte di qualcosa di più grande, dove non si è mai soli del tutto. Questa sensazione gli dà pace.
Il viaggio di Luca rappresenta quello che chiamiamo resilienza: la capacità non solo di resistere al trauma, ma di adattarsi e crescere attraverso di esso. Non tutti i finali sono così luminosi, e la vita è un processo in divenire (Luca avrà comunque giorni difficili, com’è normale). Ma il messaggio da portare a casa è che la trasformazione è possibile. Anche dalle macerie emotive può nascere una nuova costruzione – diversa dalla precedente, ma non per forza peggiore. Molti sopravvissuti dicono: “Non augurerei a nessuno ciò che ho passato. Però, col senno di poi, riconosco che quel dolore mi ha reso la persona che sono oggi, e oggi mi sento più profondo, più umano, più vivo.”
In conclusione, un evento traumatico divide la vita in un “prima” e un “dopo”. Il prima purtroppo non si può recuperare, ma il dopo è una pagina bianca su cui molto può ancora essere scritto. Grazie alla psicoterapia e alle risorse interiori, è possibile recuperare i frammenti dispersi di sé stessi, ricucire la frattura mente-corpo, calmare il cervello ipersensibile e riscoprire significati nuovi. Il trauma lascia cicatrici, è vero – ma come le cicatrici del corpo, col tempo anche quelle dell’anima possono diventare meno dolorose e addirittura simboli di guarigione. Possono ricordarci non soltanto ciò che abbiamo perduto, ma anche la forza con cui abbiamo combattuto e siamo rinati. Alla fine, il protagonista del nostro romanzo interiore siamo sempre noi: il trauma può essere un antagonista potente, ma con gli strumenti giusti e l’aiuto adeguato, possiamo scrivere un finale aperto fatto di speranza, di crescita e di ritrovato amore per la vita.
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