“Ogni comportamento è una comunicazione. Anche l’estremo ha un messaggio da decifrare.”
-Thomas Baglioni

Introduzione
Dalle gang di strada alle community radicali online, le sottoculture estreme attraggono individui in cerca di identità e di un luogo a cui appartenere. Questi gruppi al margine della società offrono spesso una “famiglia” alternativa e un senso di scopo, ma il loro abbraccio può avere un costo elevato per la salute mentale di chi vi aderisce. Quali sono le motivazioni psicologiche che spingono le persone verso questi estremi? E come incidono sull’identità, sul senso di appartenenza e sull’autostima? In questo articolo esploreremo il duplice volto delle sottoculture estreme – capaci sia di sostenere sia di isolare – attraverso esempi che vanno dalle gang urbane ai gruppi giovanili alternativi, fino alle comunità estremiste online. Infine, rifletteremo su come psicologi ed educatori possano intervenire per prevenire derive distruttive e aiutare chi ne è coinvolto.
Perché ci si unisce a una sottocultura estrema?
Le ragioni che portano ad aderire a gruppi estremi sono molteplici e spesso affondano le radici nei bisogni umani fondamentali. In generale, gli esperti osservano che i giovani vengono spinti verso questi gruppi da fattori di disagio sociale o personale, e allo stesso tempo attratti dai benefici che il gruppo promette (i cosiddetti “push & pull factors”). Tra le principali motivazioni psicologiche troviamo:
- Bisogno di appartenenza e famiglia sostitutiva: Molti individui che si sentono isolati, rifiutati o privi di sostegno familiare trovano in una sottocultura estrema un gruppo accogliente che li fa sentire finalmente parte di qualcosa. Ad esempio, è stato osservato che i giovani entrano nelle gang perché queste fungono da famiglia surrogata, offrendo appartenenza, protezione e supporto altrimenti assenti nella loro vita. Lo stesso vale per i gruppi radicali: ricerche sui terroristi indicano che “il vero motivo psicologico per unirsi [a gruppi estremisti] è il grande bisogno di appartenenza”, soprattutto in persone ai margini che per la prima volta trovano nel gruppo “la famiglia che non hanno mai avuto”. In altre parole, questi collettivi offrono un rifugio emotivo – un “bozzolo protettivo” che ripara da un mondo percepito come ostile.
- Ricerca di identità e significato: L’adolescenza e la giovane età adulta sono fasi critiche in cui si costruisce l’identità. Chi attraversa incertezze identitarie o sente di non avere un ruolo chiaro può trovare in una sottocultura un’identità preconfezionata e forte con cui identificarsi. Studi su gruppi estremisti hanno evidenziato che il bisogno di consolidare la propria identità è un fattore comune tra i membri – un’identità personale incompleta viene “risolta” abbracciando l’identità di gruppo. Abbracciare un’ideologia radicale, uno stile di vita alternativo o una simbologia (abbigliamento, tatuaggi, slogan) aiuta a definire chi si è, fornendo significato e direzione alla propria vita. Per alcuni, aderire a un culto ideologico o spirituale (come accade nelle sette) dà risposte certe a bisogni di senso e scopo che altrimenti rimarrebbero frustrati.
- Prestigio, potere e status: Le sottoculture estreme spesso offrono ai loro membri un senso di importanza personale difficile da ottenere altrove. Far parte di una gang può conferire prestigio nel quartiere, potere sugli altri e accesso a risorse materiali (denaro, protezione). Analogamente, in una comunità online radicale, diventare un membro attivo e rispettato – magari un amministratore di un forum estremista – alimenta l’autostima di chi nella vita reale si sente “invisibile”. Questi gruppi creano gerarchie interne e rituali (gradi, soprannomi, prove di lealtà) che danno ai membri un ruolo di rilievo e la sensazione di essere “qualcuno”.
- Ribellione e bisogno di espressione: Soprattutto tra i giovani, l’adesione a sottoculture controverse può essere motivata dal desiderio di ribellione verso le norme e le figure autoritarie. Abbracciare uno stile trasgressivo (sia esso la violenza di strada, la musica estrema o ideologie shock) diventa un modo per esprimere rabbia, frustrazione o non conformità. Ad esempio, le sottoculture punk e metal degli anni ’70-’80 canalizzavano il malcontento giovanile verso la società conservatrice in musica aggressiva, look provocatori e rifiuto delle regole imposte. Questo tipo di appartenenza fornisce una valvola di sfogo emotiva e un mezzo di espressione creativa per chi non trova ascolto nei canali convenzionali.
Naturalmente, ogni individuo è spinto da una combinazione personale di questi fattori. Spesso sono presenti esperienze pregresse difficili – traumi, abusi, discriminazione, povertà – che “spingono” lontano dalla società tradizionale, mentre il gruppo estremo “tira a sé” offrendo ciò che manca: sicurezza, legami, identità e uno scopo in cui credere

Comprendere queste motivazioni è fondamentale per interpretare il comportamento di chi aderisce a tali gruppi, andando oltre il giudizio superficiale per vedere i bisogni umani insoddisfatti che cercano risposta.
Identità, appartenenza e autostima: il lato positivo
Paradossalmente, entrare a far parte di un gruppo estremo può inizialmente avere effetti psicologici positivi. Molti studi in psicologia sociale confermano che l’appartenenza a un gruppo – sentirsi accettati e sostenuti da una cerchia di pari – è un ingrediente chiave del benessere. Avere relazioni strette e condividere un’identità sociale soddisfa bisogni profondi: l’essere umano è “animale sociale” e costruisce la propria identità anche attraverso i gruppi di riferimento. Sentirsi parte di qualcosa di più grande di sé può dare conforto e accrescere l’autostima personale
Non a caso, ricerche mostrano che chi appartiene a più gruppi sociali significativi riporta in media maggiore autostima e benessere rispetto a chi è isolato.
Il gruppo infatti fornisce validazione: le idee, emozioni e caratteristiche individuali vengono rispecchiate e accettate dagli altri membri, dando un senso di legittimità al proprio modo di essere.
Nelle sottoculture estreme, questo senso di identità condivisa è particolarmente intenso. I membri spesso parlano di un clima di fratellanza o sorellanza: “loro mi capiscono”, “è una seconda famiglia”. Per esempio, giovani provenienti da ambienti familiari disfunzionali descrivono l’ingresso nella gang come un’esperienza trasformativa: per la prima volta si sentono importanti per qualcuno e sviluppano cameratismo e fiducia reciproca
Allo stesso modo, ragazzi timidi o emarginati che approdano in sottoculture alternative (come la scena goth, punk o otaku) trovano spesso amici con interessi affini, con cui possono essere se stessi senza paura di giudizio. Questo senso di appartenenza può migliorare la percezione di sé: ciò che prima li faceva sentire “strani” o “sbagliati” diventa motivo di orgoglio all’interno del gruppo. Indossare certi abiti, ascoltare certa musica o adottare un gergo specifico rafforza l’identità collettiva e dunque anche quella individuale (“io sono uno di loro”).
Un aspetto positivo è anche la possibilità di ricevere supporto emotivo e pratico dal gruppo. I membri di sottoculture coese si aiutano a vicenda nei momenti difficili: una gang può offrire protezione fisica e sostegno economico a un ragazzo nei guai; un forum online di estremisti fornisce ascolto e consigli a chi attraversa crisi personali (seppur filtrati dall’ideologia); una comunità alternativa può difendere i propri dalle prepotenze esterne (si pensi alla solidarietà tra tifosi ultras o all’aiuto reciproco tra motociclisti Hells Angels). Questa rete di mutuo aiuto funge da rete di sicurezza psicologica: il singolo sa di poter contare sui compagni, cosa che riduce – inizialmente – ansia e senso di vulnerabilità.
Infine, far parte di un gruppo estremo può dare scopo e significato, elementi importanti per l’equilibrio psicologico. Abbracciare una causa (per quanto deviata) fornisce una direzione: l’attivista radicale è animato dalla missione di cambiare il mondo secondo la sua visione; il membro di una gang vive secondo un codice d’onore e mira a “farsi un nome”; il giovane gotico si dedica anima e corpo alla sua estetica e filosofia anticonformista. Questi obiettivi danno struttura alla vita quotidiana e possono tenere a bada il vuoto e la noia che alimentano depressione. In sintesi, nel breve termine l’adesione a una sottocultura estrema può rafforzare l’identità e l’autostima, placare la solitudine e infondere una rassicurante chiarezza su chi si è e dove si sta andando. È il motivo per cui tanti giovani vulnerabili vi si aggrappano: per il potere terapeutico (anche se illusorio) del sentirsi finalmente visti, accettati e valorizzati.

Il rovescio della medaglia: costi psicologici e rischi
Purtroppo, gli effetti positivi sopra descritti spesso hanno un prezzo. Nel medio-lungo termine, l’appartenenza a gruppi estremi può cristallizzare isolamento, sofferenza psicologica e comportamenti autodistruttivi. I fattori benefici possono trasformarsi nel loro opposto: il gruppo che dava sostegno finisce per isolare dal resto della società, l’identità forte diventa una gabbia, l’autostima “di gruppo” può andare a scapito dell’equilibrio individuale. Vediamo alcuni dei principali rischi e impatti negativi.
Conformismo e perdita di sé: Le sottoculture molto coese tendono a richiedere conformità e lealtà assoluta. Ciò significa che l’individuo, per restare accettato, deve spesso sopprimere la propria individualità in favore dell’identità collettiva. Col tempo, i confini tra sé e il gruppo si offuscano: si pensa e si agisce all’unisono con la “tribù”. Questo può danneggiare la crescita personale, impedendo di sviluppare una personalità autonoma. Soprattutto nei gruppi più totalizzanti – come sette religiose estremiste o organizzazioni terroristiche – l’adesione comporta il sacrificio della propria autonomia di pensiero (il leader o la dottrina decidono cosa è giusto). L’identità personale diventa monolitica e rigida, legata indissolubilmente al gruppo. Se da un lato ciò può dare sicurezza, dall’altro rende l’individuo dipendente: uscirne diventa difficilissimo, perché equivale a perdere se stessi. In psicologia questo fenomeno è noto come “fusione identitaria”, e può portare a giustificare qualsiasi azione (anche violenta) pur di mantenere l’appartenenza e l’approvazione del gruppo.
Isolamento dalla società e stigma: Più una sottocultura è estrema, più si pone in contrasto con il mondo esterno (noi contro loro). Ciò porta spesso i membri a tagliare i ponti con amici e familiari “non appartenenti”. Ad esempio, ragazzi entrati in gang abbandonano la scuola e allontanano le famiglie che non approvano le loro nuove compagnie; persone radicalizzate in gruppi estremisti online iniziano a vedere parenti e vecchi amici come “pecore che non capiscono nulla” e preferiscono interagire solo nella loro bolla virtuale; adolescenti coinvolti in certe subculture possono essere evitati o bullizzati dai coetanei esterni, il che li spinge a rinchiudersi ancor più nel gruppo di riferimento. Si innesca così un circolo vizioso: il supporto del gruppo è accompagnato da una crescente distanza dal resto del mondo. Alla lunga questo isolamento può avere gravi ripercussioni sul benessere: limita le opportunità (lavorative, educative, sociali) al di fuori della cerchia ristretta e diminuisce le capacità di adattamento alla vita normale. Inoltre, molte sottoculture estreme portano un marchio di stigmatizzazione: la società le etichetta come pericolose, deviate o malsane. Chi ne fa parte può interiorizzare questa ostilità, sviluppando sentimenti di alienazione (“nessuno mi capirà mai fuori dal mio gruppo”) e un’immagine di sé distorta (per esempio, un ragazzo della gang può convincersi di essere irrecuperabile come delinquente, rendendo profezia che si autoavvera). Lo stigma esterno quindi rinforza la chiusura settaria, creando un muro difficile da abbattere.
Esposizione a violenza, abuso e trauma: Molte sottoculture estreme espongono i membri a esperienze potenzialmente traumatiche. Le gang criminali richiedono spesso di partecipare ad attività violente (risse, aggressioni, spaccio) con rischio di ferimenti, arresti o peggio. Vivere costantemente in allerta in ambienti violenti può portare a disturbi da stress post-traumatico e paranoia. Anche subculture non criminali ma fortemente negative – ad esempio comunità online che glorificano il suicidio, l’anoressia o l’autolesionismo – possono funzionare da amplificatori di comportamenti distruttivi: invece di cercare aiuto professionale, i membri si legittimano a vicenda nel farsi del male o nel nutrire idee suicidarie. In certi culti, gli adepti subiscono abusi fisici o sessuali da parte dei leader carismatici. Non bisogna poi dimenticare le ripercussioni legali e socio-economiche: chi resta coinvolto in reati o scandali legati al gruppo può ritrovarsi con carriere stroncate, disoccupazione, carcere – tutti fattori che aggravano il disagio psicologico e l’emarginazione.
Impatto diretto sulla salute mentale: Un numero crescente di studi evidenzia correlazioni preoccupanti tra partecipazione a gruppi devianti e disturbi mentali. Ad esempio, uno studio britannico ha confrontato la salute mentale di giovani adulti membri di gang con quella di coetanei non violenti: i risultati mostrano tassi drasticamente più alti di disturbi psichiatrici tra i membri delle gang
Circa il 59% dei gang member soffriva di ansia (contro il 10% degli altri), oltre la metà abusava di alcol o droghe, e ben il 34% aveva tentato il suicidio almeno una volta – a fronte di meno del 3% dei non affiliati
In generale, appartenere a una gang si associava a una probabilità molto maggiore di sviluppare patologie come psicosi, disturbi di personalità antisociale e dipendenze rispetto ai coetanei
Queste cifre allarmanti suggeriscono che entrare in un gruppo del genere peggiora il quadro di salute mentale preesistente o fa emergere problematiche latenti. I ricercatori dibattono se ciò avvenga perché individui già vulnerabili vengono selezionati dalle gang, o se sia proprio la vita nel gruppo criminale a facilitare l’insorgenza di disturbi (probabilmente entrambe le dinamiche
In ogni caso, è chiaro che il prezzo psicologico può essere altissimo.
Un altro esempio viene da sottoculture giovanili alternative come il movimento goth. In apparenza questo mondo dark e introspettivo offre ai ragazzi emarginati un ambiente accogliente e non giudicante. Tuttavia, ricerche longitudinali hanno riscontrato che gli adolescenti che si identificano intensamente come “goth” presentano in media tassi più elevati di depressione e comportamenti auto-lesionisti. In uno studio, i quindicenni “molto goth” avevano, entro i 18 anni, un rischio circa triplo di sviluppare depressione clinica e cinque volte maggiore di compiere atti di autolesionismo rispetto ai coetanei non goth
Questo non significa che la sottocultura goth in sé provoca depressione – i dati suggeriscono anzi un processo di auto-selezione: ragazzi già inclini alla tristezza e alla disperazione sono quelli che trovano rifugio nell’estetica e nella musica goth
Come ha efficacemente riassunto un osservatore, “il goth è un sintomo, non una causa” – ci si veste di nero perché “nere” ci si sente dentro, ci si immedesima in musica malinconica per sapere che qualcuno là fuori comprende quello che proviamo
Il risultato, però, è che questi giovani vulnerabili finiscono per rimuginare collettivamente sul loro malessere, rinforzando l’uno nell’altro i pensieri negativi (“peer contagion”). Senza adeguati interventi, la sottocultura diventa una camera dell’eco di dolore che può aggravare le tendenze depressive invece di risolverle.
Infine, gruppi ideologicamente estremi – sia politici che religiosi – possono compromettere la salute mentale instillando credenze paranoidi o odiose. Le teorie del complotto alimentate in certe comunità online (ad es. gruppi cospirazionisti o suprematisti) inducono uno stato di costante sospetto e rabbia verso nemici immaginari, erosione della fiducia nel prossimo e nelle istituzioni, talvolta sfociando in deliri persecutori. In casi estremi, l’indottrinamento spinge a razionalizzare la violenza come necessaria, disumanizzando i bersagli dell’ideologia: una tale distorsione della realtà psicologica è difficile da correggere e può culminare in atti distruttivi verso sé o altri.
In sintesi, se il breve termine dell’adesione a sottoculture estreme può portare alcuni benefici psicologici, il lungo termine spesso presenta un conto pesante: isolamento sociale, peggioramento di ansia o depressione, abuso di sostanze, comportamenti auto-lesivi o violenti, fino al totale annientamento dell’identità individuale al di fuori del gruppo. Conoscere questi rischi è fondamentale per bilanciare l’attrattiva che tali sottoculture esercitano su persone in difficoltà.
Esempi tra storia e attualità: dalle gang alle community online

Per comprendere meglio queste dinamiche, vale la pena esaminare alcuni esempi concreti di sottoculture estreme, sia del passato che dei giorni nostri, evidenziando come influenzano il benessere psicologico dei membri.
- Gang di strada e bande criminali: Un esempio classico di sottocultura estrema sono le gang giovanili urbane. Dalle pandillas centroamericane (come MS-13) alle baby gang delle periferie europee, fino alle organizzazioni mafiose giovanili, queste bande offrono ai ragazzi un mix di famiglia e fuorilegge. Come visto, possono colmare vuoti affettivi e dare status nel quartiere, ma in cambio richiedono lealtà assoluta e spesso coinvolgimento in attività violente. La vita di gang può inizialmente dare a giovani cresciuti nella povertà un senso di potere e “successo” (soldi facili, rispetto ottenuto incutendo timore). Tuttavia, l’effetto psicologico a lungo andare è drammatico: moltissimi membri sviluppano disturbi da trauma, dipendenze da droghe (spesso usate per affrontare lo stress e la colpa della violenza) e restano incastrati in una visione del mondo ristretta alla logica del clan. Un esempio storico italiano furono le bande giovanili delle periferie anni ‘70, alcune delle quali confluirono poi nel terrorismo politico: giovani criminali comuni trovavano nel gruppo armato un ideale “alto” che giustificava la loro violenza, con conseguenze letali per sé e altri. Oggi, programmi di recupero per ex membri di gang mostrano quanto sia difficile ricostruire un’identità fuori dalla banda: spesso questi ragazzi riferiscono di sentirsi persi, senza famiglia, e devono reimparare da zero come fidarsi delle persone al di fuori del contesto di gang.
- Sottoculture giovanili alternative: Non tutte le sottoculture estreme implicano criminalità o odio; molte nascono come movimenti alternativi di stile di vita. Pensiamo ai punk britannici, ai metallari, ai goth o agli emo: gruppi giovanili accomunati da musica, moda e atteggiamenti in conflitto col mainstream. Sebbene raramente promotrici di violenza, queste subculture sono state a loro modo estreme nella rottura con i valori dominanti (il punk con il nichilismo e l’anarchia, il goth con l’esaltazione del macabro e della tristezza, ecc.). Per molti adolescenti, entrare in questi gruppi è stato salvifico: offre amici, creatività, catarsi emotiva (ad esempio attraverso concerti, balli sfrenati o look eccentrici) e un antidoto alla solitudine. Tuttavia, come visto con il caso goth, bisogna essere consapevoli dei possibili effetti collaterali. Alcuni studi suggeriscono che nei gruppi dove circola una forte enfasi su tematiche negative (depressione, rabbia, alienazione), i membri possono rinforzarsi reciprocamente tali emozioni. Ciò è stato osservato, ad esempio, anche nella sottocultura emo degli anni 2000, accusata (a torto o ragione) di romanticizzare la depressione e l’autolesionismo: in Messico e altri Paesi ci furono addirittura allarmi sociali per ondate di tentativi di suicidio attribuiti a questa moda. Un altro esempio è la comunità Straight Edge (derivata dal punk hardcore), che nacque con un’ideologia positiva di rifiuto di droghe e alcool, ma alcune frange estremiste divennero violente verso chi non seguiva lo stile di vita “puro”, mostrando come anche un ideale sano possa degenerare in fanatismo. In generale, queste subculture alternative dimostrano l’importanza di guidare i giovani verso modi di esprimersi creativi ma sicuri: musica e arte alternative possono essere sfoghi positivi, purché non si traducano in isolamento totale o perpetuazione del disagio.
- Gruppi estremisti e comunità online radicali: Nel panorama attuale, una parte sempre più significativa delle sottoculture estreme si sviluppa online. Internet ha permesso a persone con idee o interessi estremi di trovarsi e formare comunità virtuali globali. Esempi includono forum di ideologie ultranazionaliste o suprematiste, gruppi complottisti come quelli fioriti intorno a QAnon, comunità di incel (celibi involontari che coltivano misoginia e vittimismo), reti di estremisti islamisti o di estrema destra sul dark web, e così via. Queste comunità possono avere un impatto particolarmente subdolo sul benessere psicologico, perché agiscono nell’isolamento della vita online e spesso in modo anonimo. Da un lato, offrono l’ennesimo rifugio identitario: ad esempio, un giovane insicuro può trovare su un forum incel altre centinaia di ragazzi che condividono la sua frustrazione sentimentale, creando un forte cameratismo basato sul rancore verso le donne e la società. Questo inizialmente lo fa sentire meno solo e più compreso. Dall’altro lato, però, l’eco-chamber di queste piattaforme alimenta pensieri tossici e impedisce qualunque confronto con visioni diverse. Gli utenti finiscono per sprofondare sempre più nelle loro convinzioni estreme, tagliando i legami con la realtà esterna. Ci sono casi documentati di giovani radicalizzati online che sviluppano sintomi quasi clinici: deliri (credere ciecamente a complotti assurdi), fobie sociali (paura e odio verso intere categorie di persone), oppure un abbandono della vita quotidiana – alcuni smettono di studiare o lavorare perché totalmente assorbiti dall’attività nel forum o perché convinti dell’inutilità di una vita “normale” in un mondo corrotto. In situazioni estreme, l’impatto si vede quando queste persone provano ad uscire dal loro mondo virtuale: la difficoltà di reinserirsi socialmente può portare a crolli psicologici. Un ex estremista di destra online ha descritto la sua uscita dal gruppo come “disintossicazione da una droga”: all’inizio si sentiva smarrito, in preda ad ansia e depressione, privo di quell’adrenalina e senso di scopo continuo che il movimento gli dava. Solo con terapia e nuove reti sociali positive è riuscito a ritrovare equilibrio.
Questi esempi – pur nella loro diversità – sottolineano come il fenomeno delle sottoculture estreme sia trasversale e in continua evoluzione. Nel corso della storia recente, i giovani hanno sempre trovato modi di esprimere disagio o anticonformismo tramite subculture (basti pensare anche ai teddy boys, ai paninari o ad altre mode giovanili meno estreme ma sempre identitarie). Oggi la dimensione online amplifica e globalizza queste possibilità, creando al contempo nuove sfide. In tutti i casi, il bilancio tra ciò che il gruppo dà e ciò che toglie all’individuo dipende da molti fattori – intensità dell’ideologia, grado di isolamento, predisposizioni personali – ma emerge chiaramente che quando si supera una certa soglia di estremismo, i danni tendono a superare i benefici.
Spunti di riflessione clinica ed educativa
Di fronte all’impatto complesso (a volte devastante) delle sottoculture estreme sul benessere psicologico, come possono intervenire psicologi, educatori e la società nel suo insieme? Ecco alcuni spunti:
1. Prevenire attraverso l’inclusione e l’ascolto: Molte adesioni a gruppi estremi nascono da un fallimento del contesto normale nel soddisfare bisogni di appartenenza, identità e supporto. Pertanto, la prevenzione parte dall’offrire ai giovani ambienti inclusivi dove possano sentirsi accettati e valorizzati prima che cerchino altrove. Scuole, centri giovanili, associazioni sportive o culturali dovrebbero lavorare per intercettare i ragazzi emarginati o in crisi, fornendo community positive. Programmi doposcuola, attività artistiche, gruppi guidati da educatori empatici possono diventare “sottoculture sane” alternative a quelle pericolose. Ad esempio, in contesti ad alto rischio di gang, si sono avviati progetti di doposcuola e centri di aggregazione che mostrano ai ragazzi come vivere emozioni forti e senso di comunità in modo positivo e legale – con sport, musica, teatro – evitando che vengano sedotti dal crimine
L’idea è dare quelle stesse cose che il gruppo estremo promette (senso di appartenenza, avventura, identità), ma in chiave costruttiva. Fondamentale è anche l’ascolto attivo: genitori, insegnanti e operatori dovrebbero prestare attenzione ai segnali di disagio e ribellione, cercando di capire i bisogni del ragazzo senza giudicarlo. Un adolescente che flirta con ideologie estreme o adotta look provocatori probabilmente sta lanciando messaggi sulla propria sofferenza: ignorarli o reprimere solo le manifestazioni esterne rischia di spingerlo ancora di più verso compagnia indesiderabili.
2. Comprendere senza stigmatizzare: Dal punto di vista clinico, quando si lavora con persone coinvolte (o a rischio) in sottoculture estreme è cruciale andare oltre l’etichetta. Invece di vedere solo il “gangster”, il “fanatico” o il “ragazzo dark”, il terapeuta deve sforzarsi di vedere la persona con i suoi bisogni insoddisfatti, paure e ferite. Questo approccio empatico permette di stabilire alleanza e fiducia, presupposti necessari per qualunque percorso di cambiamento. Ad esempio, nella terapia con un giovane radicalizzato online, invece di iniziare contestando le sue idee complottiste (il che lo metterebbe sulla difensiva), può essere utile esplorare cosa trova in quella community: forse un senso di importanza, amici, un modo per canalizzare la rabbia. Riconoscere la funzione che il gruppo ha per il paziente apre la strada a discutere di come ottenere quelle stesse soddisfazioni in modi più sani. Similmente, in ambito educativo, giudizi o punizioni eccessivamente severi verso gli appartenenti a sottoculture (ad esempio sospendere da scuola un ragazzo solo per l’abbigliamento stravagante o le idee espresse) rischiano di confermare la sua convinzione di essere un emarginato e che l’unico posto dove può essere sé stesso è il gruppo estremo. Meglio instaurare dialogo e guidarlo gradualmente a pensare in modo critico alle conseguenze delle sue scelte, senza però attaccare la sua identità in blocco.
3. Favorire l’elaborazione dell’identità individuale: Un obiettivo chiave, specie in ambito terapeutico, è aiutare l’individuo a sviluppare un’identità propria e flessibile, che non dipenda unicamente dal gruppo. Ciò può includere interventi sull’autostima personale, scoperta di talenti e passioni individuali, rafforzamento delle competenze sociali per stringere amicizie anche al di fuori di quel contesto. Tecniche come la * terapia narrativa* possono aiutare la persona a “raccontare” la propria storia oltre l’appartenenza al gruppo, individuando altre dimensioni di sé. In casi di fuoriuscita da gruppi estremi (ad esempio programmi di deradicalizzazione di ex terroristi o di ex membri di sette), è cruciale sostituire la rete sociale persa con un nuovo sistema di supporto: gruppi di auto-aiuto, mentoring da parte di ex membri reintegrati, coinvolgimento in attività di volontariato o artistiche che diano un nuovo scopo. Ricostruire una vita fuori dal gruppo può essere traumatico – si parla di “sindrome da uscita” – e richiede tempo, ma con il giusto sostegno molti riescono a trasformare la loro esperienza in qualcosa di significativo (per esempio diventando educatori per prevenire che altri giovani seguano la stessa strada).

4. Interventi sui gruppi e sulle comunità: Oltre al lavoro sul singolo, esistono approcci che mirano a modificare le dinamiche dei gruppi estremi dall’interno. Alcuni programmi di riduzione del danno cercano di infiltrarsi nelle comunità online tossiche con messaggi positivi o con la presenza di moderatori/formatori che propongano narrazioni alternative. Ad esempio, iniziative di contro-narrativa sui social media mirano a smontare la propaganda estremista offrendo spazi di dialogo più moderato ai membri dubbiosi. Nelle scuole, attività educative sui pericoli delle gang o dell’estremismo (con testimonianze di ex membri) possono indebolire l’aura romantica che circonda questi gruppi, rendendo i ragazzi più critici. In certi contesti di quartiere, coinvolgere leader carismatici positivi – ad esempio rapper, sportivi, figure amate dai giovani – in campagne anti-gang può aiutare a scalfire l’attrattiva delle bande criminali mostrando modelli alternativi di successo e appartenenza. L’obiettivo è spezzare l’incantesimo che il gruppo esercita, facendo intravedere altre possibilità di soddisfare quei bisogni. Naturalmente, queste azioni vanno condotte con tatto e competenza, poiché un attacco frontale ai gruppi può sortire l’effetto opposto (radicalizzarli ancor di più). Spesso i cambiamenti più efficaci avvengono quando la società offre opportunità concrete a questi giovani – lavoro, istruzione, riconoscimento – dimostrando nei fatti che non è necessario restare invischiati nel gruppo per avere dignità e rispetto.
Le sottoculture Queercore e Neuroqueer: resistenza, identità e salute mentale

Tra le sottoculture contemporanee che hanno acquisito sempre più rilevanza vi sono anche quelle che si sviluppano attorno alle identità queer e neurodivergenti, come il movimento queercore e la cultura neuroqueer. Pur essendo molto diverse dalle gang o dai gruppi estremisti, queste realtà condividono con le altre sottoculture una funzione chiave: offrire rifugio, riconoscimento e senso di appartenenza a soggettività marginalizzate.
Il queercore, nato negli anni ’80 come derivazione del punk, è una sottocultura che combina la rabbia e l’estetica provocatoria del punk con una forte critica al sistema eteronormativo. È una forma di resistenza creativa che usa la musica, il cinema indipendente e l’arte DIY (do-it-yourself) per denunciare l’omofobia, la transfobia e l’assimilazione LGBTQ+ in logiche normative. Dal punto di vista psicologico, per molte persone queer, far parte del movimento queercore ha rappresentato (e rappresenta ancora) un’importante risorsa identitaria. In ambienti dove l’omosessualità o la non conformità di genere sono viste con sospetto, il queercore offre spazi sicuri dove sperimentare liberamente sé stessi, esprimere rabbia, creatività e desiderio, senza filtri né compromessi. Come per altre sottoculture, l’impatto sul benessere mentale può essere profondamente positivo: sentirsi parte di una comunità radicalmente accogliente può migliorare l’autostima, alleviare ansia sociale e depressione, e contrastare l’interiorizzazione dello stigma.
Analogamente, la cultura neuroqueer è emersa come spazio teorico e comunitario in cui soggettività neurodivergenti (ad esempio autistiche, ADHD, con disabilità cognitive o sensoriali) si incontrano con l’esperienza queer per ridefinire radicalmente cosa significa essere “normale”. Il neuroqueer rifiuta l’idea che il benessere psicologico coincida con l’adeguamento a standard neurotipici e propone invece forme di vita e relazione alternative, che valorizzano la differenza come risorsa. Nei circoli neuroqueer, viene spesso rivendicata la possibilità di costruire reti di affinità basate sul riconoscimento reciproco, su pratiche di cura “non normate” (come il silenzio condiviso, la stimolazione sensoriale, il mutualismo quotidiano) e su politiche radicali dell’empatia.
Dal punto di vista clinico, sia il queercore che il neuroqueer sfidano in modo fecondo le concezioni tradizionali della salute mentale. Non si tratta tanto di “curare” un disagio individuale, quanto di creare contesti sociali più vivibili per chi non si riconosce nelle norme dominanti. Tuttavia, anche queste sottoculture non sono immuni da rischi: in alcuni casi, la forte opposizione al mondo esterno può produrre un senso di separazione radicale, di “impossibilità” del dialogo con chi è fuori, e questo può rinforzare la sensazione di esclusione. Inoltre, l’auto-identificazione esclusiva in categorie neurodivergenti può diventare talvolta rigida, inibendo processi di cambiamento o di scoperta personale. Come in altri contesti estremi, anche qui la sfida è trovare un equilibrio tra identità collettiva e soggettività autonoma, tra protezione e apertura.
In ogni caso, queste sottoculture rappresentano esempi importanti di come il bisogno di appartenenza, riconoscimento e cura possa trovare forme alternative, non patologiche, ma critiche e trasformative. Per molti giovani queer e neurodivergenti, entrare in questi mondi è stato il primo passo verso la salute mentale, non lontano da essa.
Conclusione
“Essere se stessi in un mondo che cerca costantemente di farti diventare qualcun altro è il più grande dei successi.”
— Ralph Waldo Emerson
Le sottoculture estreme rappresentano un affascinante (e inquietante) intreccio di luce e ombra dal punto di vista psicologico. In esse convivono il potere curativo del gruppo e il veleno dell’estremismo: da un lato rassicurano, danno identità e scopo a chi si sente perduto; dall’altro possono imprigionare la mente, alimentare il disagio e condurre a esiti tragici. Comprendere questo duplice volto è essenziale per chiunque voglia avvicinarsi al fenomeno senza pregiudizi. Dietro il giovane che indossa con orgoglio i colori della sua gang o il logo della sua band metal preferita, dietro l’utente che digita messaggi infuocati in un forum radicale, c’è spesso una storia di bisogni umani universali: amore, accettazione, significato, avventura. Ignorare questi bisogni significherebbe non cogliere il perché queste sottoculture continuino ad esercitare una forte attrattiva.
Allo stesso tempo, riconoscere i rischi concreti che tali gruppi comportano per la salute mentale ci spinge a non romanticizzare e a non sottovalutare il problema. La chiave sta in un equilibrio: ascolto ed empatia verso l’individuo, ma fermezza nel disinnescare le dinamiche tossiche del gruppo. Psicologi, educatori e comunità possono lavorare insieme per costruire “ponti di uscita”: offrire alternative di appartenenza più sane, aiutare i giovani a trasferire altrove la propria voglia di cambiamento o trasgressione (magari in attività artistiche, sportive, di impegno civile) e fornire sostegno a chi decide di lasciarsi alle spalle una sottocultura estrema.
In definitiva, l’impatto delle sottoculture estreme sul benessere psicologico è un monito sull’importanza di comunità sane, inclusive e solidali. Se riusciamo a creare una società in cui ogni individuo – soprattutto ogni ragazzo in crescita – si senta visto, ascoltato e valorizzato, la seduzione dei gruppi distruttivi perderà molta della sua forza. E per chi è già dentro quel mondo, sapere che fuori c’è una mano tesa, pronta ad accoglierlo senza giudizio, può fare la differenza tra perdersi e ritrovarsi. In fondo, come insegna il lato positivo delle subculture, la cura passa spesso attraverso nuovi legami e nuovi significati: sta a noi, come collettività, offrirli prima che siano i gruppi estremi a reclamarne il monopolio.
Per approfondire:
- Busher, J., & Macklin, G. (2023). Sociology Compass: Sottoculture estreme e radicalizzazione
- Klein, M. (2014). Street Gang Patterns and Policies
- Monahan, T. (2009). Identity and Belonging in Subcultures
- Yergeau, M. (2018). Authoring Autism: On Rhetoric and Neurological Queerness
- Halberstam, J. (2005). In a Queer Time and Place
- Hebdige, D. (1979). Subculture: The Meaning of Style
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